ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO di Marcel Proust (1913 - 1927). Luigi Reverdito Editore - pagg. 566. Lire 32.000

Nota di copertina: Dalla parte di Swann costituisce la cronaca familiare e l’inizio della esplorazione interiore di un bambino che vive nel piccolo paese di Combray. E’ il ricordo di un’infanzia felice che il narratore vedrà ricomporsi dinanzi a sé molti anni dopo, intingendo la famosa "madeleine" nella tazza del tè. Un amore di Swann racconto della passione provata da Swann per la donna che diventerà sua moglie. E la storia si snoda in un lungo alternarsi di momenti sereni e fasi di accesa passione provocata dalla gelosia. In All’Ombra delle fanciulle in fiore il Narratore scoprirà contemporaneamente l’impossibilità di trovare la felicità nell’amore e la propria limitatezza letteraria. Alla ricerca del tempo perduto è il capolavoro della letteratura francese di questo secolo. Un romanzo, in prima persona che ci racconta la storia di una vita, incominciando dagli ultimi anni del secolo scorso e concludendo con la Grande Guerra.

Nota di recensione: Dandogli il titolo dell’intera opera, un piccolo editore di libri per bancarelle all’aperto ha preteso di spacciare per l’intera Rèchèr le prime tre parti di cui essa si compone. Non attribuiremo tuttavia molta importanza al fatto: il lettore attento sa che le (appena) 570 pagine di questo pretenzioso librone dalla copertina dipinta ad acquerello non possono "essere" l’intera Réchèrche, che di pagine ne conta quasi cinquemila, e saprà guardarsene. Mentre al lettore sprovveduto può addirittura derivarne il beneficio di un approccio diciamo così semplificato, oltre che a buon mercato. Per "assaggiare" Proust questi primi tre libri gli basteranno e avanzeranno; dei restanti cinque, se glie ne resterà voglia, potrà provvedersi come meglio gli parrà.

Stiamo parlando di Marcel Proust, signori. Non di Dickens e nemmeno di Balzac, che sono scrittori normali. Anche l’immenso e debordante Hugo alla fin fine è uno scrittore normale, nel senso che neanche lui ha inventato nulla di nuovo. Io credo che solo William Shakespeare sia stato un indagatore dell’animo umano altrettanto profondo e formidabile, solo che ciò che in Shakespeare è cantato in Proust è raccontato e ciò che in Shakespeare è declamato in Proust è sussurrato.

Ma nessuno aveva mai scritto come Proust, e di sicuro nessuno potrà più farlo. Proust è sterminato, infinito e assoluto; Proust non rimanda a niente: si possono benissimo leggere le 4.870 pagine della Réchèrche e non leggere altro nella vita, esse basteranno a farvi conoscere nella più piena completezza il cosciente e l’incosciente dell’animo umano.

Solo che Proust è narcotizzante, e leggerlo penetrandone ogni parola riesce esercizio quasi improbo. Non ho alcun imbarazzo a rivelare che quando lo leggo quasi non riesco a posarlo, e, di converso, che quando ne sono lontano non sento stimoli a riprenderlo in mano, o se li sento li sento labilissimi. Proust vi piacerà se vi piace la musica di Mahler e di Debussy, se vi piacciono i film di Sergio Leone e di Igmar Bergman, se vi piacciono i frutti di bosco e le marmellate di castagne. Se vi piace viaggiare in treno e dormire in barca.

Perché in verità Proust anziché leggerlo bisognerebbe farselo leggere, come anticamente facevano i ricchi nobili. E ascoltare la gentile lettrice standosene stesi con gli occhi chiusi o aperti a fissare il soffitto. La fatica del tradurre continuamente in immagini e concetti i segni che compongono le parole stanca gli occhi e fuorvia la mente, anche perché c’è poco di azioni e di situazioni. E le elucubrazioni, i pensieri, i rimurginii per la loro astrattezza se non per la loro profondità talvolta finiscono per scivolare sulle nostre (o almeno sulle mie) circonvoluzioni cerebrali come acqua sul marmo. Con un ricamo fitto e sottilissimo Proust dà corpo ai sospiri e sospiro alle parole, significato anche alle sensazioni meno significative; ragione ai sentimenti e sentimento alla ragione. Proust narra l’animo umano in tutti i suoi risvolti, nessuno escluso.

Apre la gigantesca opera il libro intitolato "Dalla parte della casa di Swann" uscito nel 1913, dove Proust ricorda di sé fanciullo a Combray, nella casa dei nonni nella campagna alla periferia nord di Parigi dove d’estate i suoi genitori si trasferivano per sottrarsi alla calura della città. Proust ci narra di sé bambino, del suo morboso attaccamento alla madre, del difficile rapporto col padre, di quello con la nonna, con zia Leonie, della cuoca, della governante Francoise, e ci riporta il ricordo delle minute impressioni che colpivano la sua sensibilità di fanciullo nervoso e insicuro, le parole delle riunioni a tavola e nel salotto, i discorsi di convenienza e il conversare minuto, gli odori, i gusti e i profumi di quei luoghi e di quell’età, le soggezioni e le paure.

Il libro prende il titolo dal fatto che la casa nella quale abitavano aveva due uscite, una sulla strada che dava sulla abitazione degli Guarmantes, aristocratici di alto e molto antico lignaggio cui i Proust anche se benestanti e rampolli della più solida borghesia ancora non potevano avvicinarsi. L’altra uscita invece dava sulla casa del signor Charles Swann, il quale anche se finissimo gentiluomo e rispettabilissimo borghese dal cospicuo patrimonio, proprio in quei tempi era sulla bocca di tutti per avere perduto la testa per una cocotte.

Il signor Swann era una molto affabile persona, un po’ dandy ma rampollo di un ricco e influente banchiere israelita. Colto, affabile, ricco e scapolo costituiva agli occhi delle famiglie bene della restaurata Parigi bene un ambitissimo. Nel passato fitte e proficue erano state le sue frequentazioni in casa Proust, e suo padre e il nonno di Marcel erano stati molto amici. "Ma ora, ma ora…", "Ma come si può?...". "Con una cocotte, poi…!".

Così si ragionava, anzi, si sussurrava allora, in quei tempi di vizi privati e di pubbliche virtù. Ad ogni modo il primo libro, breve, di sole 180 pagine, si sviluppa e si esaurisce nell’ambito delle relazioni che i membri della famiglia Proust intessevano nel loro ambito, col rilievo figurativo della peccaminosa relazione del signor Swann e dello scandalo che essa suscitava in quell’ambiente di piccola-alta borghesia. Del povero signor Swann, che avendo perduto la testa per una cocotte non veniva più invitato in casa a prendere il tè, continuamente si parlava, anzi si sussurrava. Eccitando la morbosa attenzione del bambino.

Nel secondo libro ("Un amore di Swann") uscito in uno col precedente, Proust ponderosamente e cospicuamente ci narra dell’amore del signor Swann per Odette de Crécy, signorina di oscuri esordi, nella prima giovinezza piccola attrice e quando la incontriamo donna dedita a liberi amori. Gli alti e i bassi nel corrispondere, i giochi e le parole d’amore, l’ambiguità di una relazione difficile, la proiezione del rapporto nel mondo esterno, le convenzioni e le convenienze salottiere, le ipocrisie e le doppiezze sociali, la particolare psicologia della donna che nella buona sostanza era poco meno di una prostituta e una arrampicatrice sociale, i suoi sogni, i suoi bisogni e il suo barcamenarsi col signor Swann. E il contegno del signor Swann, la corte alla donna, i suoi regali di spasimante cieco ma non ottuso. I primi dubbi, e i secondi, i terzi, i quarti. Poi la gelosia, quel terribile mostro che tutto corrode e divora. La gelosia d’amore: il più tragico, misterioso, assurdo e irriducibile, il più devastante, crudele, lancinante e immotivato dei sentimenti umani.

Che Proust viviseziona con la sapienza di un neurochirurgo, mostrandone quel che vi passava dentro: le incerte certezze, le irrisolute risoluzioni, i fragili furori, i sospettosi abbandoni. E dall’altra parte, l’antica maestria della donna, fragile ma forte, molto più forte del suo uomo, tenera ma tirannica, più tirannica di quanto non uomo non possa mai sognarsi di essere. In questo secondo libro il Marcel Proust inteso come protagonista a latere delle vicende narrate si defila, scompare anche perché nel frattempo cresce. Per questo i fatti ci vengono narrati in terza persona.

Questi primi due libri io li avevo già letti (cfr. la recensione di La strada di Swann in questa stessa raccolta), tuttavia ritrovandomeli nel volumazzo del signor Reverdito mi sono voluto riprendere il gusto di ritornare a leggere "Un Amore di Swann", giacché Proust anche se non accende, brucia.

Nel suggestivissimo "All’ombra delle fanciulle in fiore", che è il terzo titolo della raccolta (1919), Marcel torna a parlarci di sé. Li ritroviamo che Odette alla fine, barcamenandosi alla meglio tra giuramenti d’eterna fedeltà e occasionali tradimenti, è riuscita a farsi sposare dal signor Swann. E subito parte, ora che condivide uno dei più onorati cognomi e uno dei più migliori patrimoni di Francia, per mettersi alla pari con quelle damazze della società salottiera parigina che nel tempo delle sue giovanili peripezie parlando del signor Swann – "che distinta persona, un ottimo partito; che peccato…!" - pronunciavano il suo nome abbassando la voce e scuotendo mestamente il capo.

Il giovane Marcel non faceva ancora parte di quei salotti né aveva condiviso quei giudizi, anzi per quel che ne aveva sentito dire in casa e per come se ne parlava fuori di quella donna si era morbosamente ammaliato, per cui quando, ancora fanciullo ma già quasi giovanotto, gli riuscì d’intrufolarsi nella casa del signor Swann e d’entrare nelle grazie della signora Odette, quasi si sentì come toccato dalla grazia.

Vi entrò essendo divenuto quasi per caso amico della figlia dei signori Swann all’epoca che questa era poco più di una bambina. Gilberte si chiamava la fanciulla, e le fanciulle si sa che crescono più in fretta dei ragazzi. Specie quelle figlie delle gatte di pelo nero. E così avvenne che il giovane Marcel in Gilberte rivedendo Odette e trovandovi le doti ammaliatrici di quella, di Gilberte si innamorò. E Gilberte, che si tanta madre era figlia, con lui si mise a giocare come i gatti sazi giocano coi topi.

Sono troppo lunghi e difficili da raccontare gli orli, i risvolti e le pieghe di una tela così ampia e così fittamente ricamata. Proust di ogni filo e di ogni segno ci dà l’esatto conto, e così dei diritti, dei rovesci, dei nodi e dei groppi. Tutto quello che può passare nella testa, nel cuore, nella bocca di chi per amore gioisce e di chi per amore ferisce e perisce, di chi per amore aspetta e di chi per amore spera, di chi per amore soffre e si dispera, di chi per amore uccide o s’uccide, di chi con l’amore impazzisce o si stordisce, di chi con l’amore si fa ricco oppure più povero, Proust ci dà un conto misurato nella forma, smisurato nella sostanza, minuzioso e bello.

Io non riesco a scrivere una sola parola in più. Vi chiedo solo di leggere il ritratto che in chiusura del terzo libro Proust ci fa di Odette, di quella Odette trionfante e pur bonaria, di quella Odette "ancora non entrata nei salotti aristocratici ma destinata prima o poi ad entrarvi", di quella Odette che questi stessi uomini che ora quando passava sorridenti se ne contendevano il saluto qualche anno prima alle loro mogli e sorelle avrebbero impedito di frequentarla.

P.S.: In "All’ombra delle fanciulle in fiore" Proust ci dà anche il resoconto del suo approccio con lo scrivere e dei suoi primi passi nel difficile ed esclusivo mondo degli scrittori di professione, un mondo sognato come inaccessibile. Così che mi viene di pensare che se una delle fanciulle in fiore del titolo è Gilberte l’altra può darsi benissimo che sia madonna Letteratura. Non mi spiego diversamente l’uso del plurale. Anche perché non credo proprio che pur con tutto l’attaccamento che Marcel aveva per la fascinosa Odette la fascinosa Odette potesse essere scambiata per una fanciulla.


Tutto a un tratto, sulla sabbia del viale, tardiva, lenta e lussureggiante corne il fiore più bello che non si apriva che a mezzogiorno, appariva la signora Swann, spandendo intorno a sé un vestito sempre diverso ma che mi ricordo soprattutto malva; poi, innalzava e apriva in cima ad un lungo stelo il padiglione di seta di un lungo ombrello della stessa sfumatura di petali caduti dal suo vestito. Tutto un seguito la circondava; Swann, quattro o cinque uomini del club che erano venuti a trovarla la mattina a casa o che aveva incontrato; e il loro agglomerato nero o grigio, obbediente, eseguendo i movimenti quasi meccanici di una cornice inerte intorno a Odette, dava l'aria a quella donna che sola aveva dell'intensità negli occhi, di guardare davanti a sé, da in mezzo a tutti quegli uomini, corne da una finestra alla quale si fosse avvicinata, e la faceva sorgere, fragile, senza paura, nella nudità dei suoi teneri colori, corne l'apparizione di un essere di una specie différente, di una razza sconosciuta, e di una potenza quasi guerriera, grazie alla quale compensava da sola la sua molteplice scorta. Sorridente, felice del bel tempo, del sole che non le dava ancora fastidio, con l'aria di sicurezza e di calma del creatore che abbia compiuto la sua opera e non si preoccupi più del resto, certa che il suo vestito - anche se qualche volgare passante non l'avesse apprezzato - era il più elegante di tutti, lo portava per se stessa e per i suoi amici, naturalmente, senza attenzione esagerata ma anche senza completo distacco, non impedendo ai fiocchetti del corsetto e della gonna di ondeggiare leggermente davanti a lei corne delle creature di cui non ignorava la presenza e a cui permetteva con indulgenza di dedicarsi ai loro giochi, secondo il loro proprio ritmo, purché seguissero il suo cammino e anche, sul suo ombrellino malva che spesso teneva ancora chiuso quando arrivava, lasciava cadere a momenti, corne su un mazzo di violette di Parma, il suo sguardo felice e cosi dolce che, quando non si rivolgeva più ai suoi amici ma a un oggetto inanimato sembrava sorridere ancora. Riservava così, faceva occupare cosi al suo vestito quell'intervallo di eleganza di cui gli uomini a cui la signora Swann parlava più amichevolmente rispettavano lo spazio e la necessità, non senza una certa deferenza da profani, una confessione della loro ignoranza e su cui riconoscevano alla loro amica, come a un malato sulle cure speciali a cui deve ricorrere, o corne a una madre sull'educazione dei figli, competenza e giurisdizione. Non solo per quella corte che la circondava e sembrava non vedere i passanti la signora Swann anche a causa dell'ora tarda della sua apparizione, evocava quell'appartamento in cui aveva passato una mattinata cosi lunga e in cui avrebbe dovuto tornare presto per il pranzo; sembrava indicarne la vicinanza con la tranquillità sfaccendata della passeggiata uguale a quella che si fa a piccoli passi nel proprio giardino; di quell'appartamento si sarebbe detto che portasse ancora intorno a lei l'ombra intima e fresca. Ma, per tutti questi motivi, vederla mi dava ancora di più la sensazione dell'aria aperta e del caldo.

Tanto più che, già persuaso che in virtù della liturgia e dei riti per i quali la signora Swann era profondamente portata, il suo vestito fosse unito alla stagione e all'ora da un legame necessario, unico, i fiori del suo flessibile cappello di paglia, i nastrini del suo vestito mi sembravano nascere dal mese di maggio ancor più naturalmente dei fiori dei giardini e dei boschi; e per conoscere il turbamento nuovo della stagione, non alzavo gli occhi più in alto del suo ombrellino, aperto e teso come un altro cielo più vicino, rotondo, clemente, mobile e azzurro. Poiché quei riti, se erano sovrani mettevano perô la loro gloria, e di conseguenza la signora Swann metteva la sua, nell'obbedire con condiscendenza al mattino, alla primavera, al sole, che non sembravano abbastanza lusingati che una donna cosi elegante non volesse ignorarli e avesse scelto a causa loro un vestito di una stoffa più chiara, più leggera facendo pensare, col collo e le maniche svasate, alla profumata morbidezza del collo e del polso, facesse infine per loro tutte le spese di una gran dama che, essendosi abbassata allegramente ad andare a trovare in campagna gente comune e che tutti, anche i più volgari, conoscano, abbia comunque tenuto a vestirsi specialmente per quel giorno là con un abito campestre.

Dal suo arrivo, salutavo la signora Swann, lei mi fermava e mi diceva: "Gond morning" sorridendo. Facevamo qualche passo. E capivo che quei canoni secondo i quali si vestiva, era per lei stessa che vi obbediva, corne ad una saggezza superiore di cui fosse stata la grande sacerdotessa: poiché se le succedeva che avendo troppo caldo, aprisse, od anche si togliesse del tutto e mi desse da portare la giacchetta che aveva creduto di tenere chiusa, scoprivo nella camicetta mille particolari di esecuzione che avevano avuto ogni probabilità di restare inosservati, corne quelle parti d'orchestra a cui il compositore ha dato ogni cura sebbene non debbano mai arrivare alle orecchie del pubblico; oppure, nelle maniche della giacchetta piegata sul mio braccio, vedevo, guardavo lungamente, per piacere o per amabilità, qualche particolare squisito, una striscia di una tinta deliziosa, una fodera malva abitualmente nascosta agli occhi di tutti, ma lavorata delicatamente quanto le parti esterne, corne quelle sculture gotiche di una cattedrale dissimulata sul rovescio di una balaustra a ottanta piedi di altezza, perfette quanto i bassorilievi del portico, ma che nessun ha mai visto prima che, per caso un artista viaggiando avesse ottenuto di salire a passeggiare in pieno cielo, per dominare tutta la città, fra le due torri.

Quello che aumentava quest'impressione che la signora Swann passeggiasse nell'avenue del Bois corne nel viale di un giardino di sua proprietà, era - per chi ignorava le sue abitudini di footing - che fosse venuta a piedi, senza carrozza al seguito, lei che, dal mese di maggio, si aveva l'abitudine di veder passare con la pariglia più curata, il cocchiere più elegante di Parigi, mollemente e maestosamente seduta corne una dea, nell'aria tiepida di una immensa "vittoria" a otto balestre. A piedi, la signora Swann sembrava, soprattutto con il suo passo rallentato dal caldo, aver ceduto a una curiosità, commettere un'elegante infrazione alle regole del protocollo, come quei sovrani che senza consultare nessuno, accompagnati dall'ammirazione un po' scandalizzata di un seguito che non osa formulare una critica, escono dal loro palco durante uno spettacolo di gala e visitano il ridotto mescolandosi per qualche istante agli altri spettatori. Cosi, fra la signora Swann e la folla, quest'ultima avvertiva quelle barriere di un certo tipo di ricchezza, che le sembrano le più invalicabili di tutte. Anche il faubourg Saint-Germain ha le sue, ma meno parlanti agli occhi e all'immaginazione degli "squattrinati". Questi, di fronte a una gran dama più semplice, più facile da confondere con una piccola borghese, meno distante dal popolo, non proveranno quel sentimento della loro ineguaglianza, quasi della loro indegnità, che hanno davanti a una signora Swann. Probabilmente, le donne di questo genere non sono colpite come chi le guarda dal brillante apparato che le circonda, non ci fanno più attenzione, ma è a forza di essere abituate, cioè di aver finito col trovarlo tanto più naturale, tanto più necessario, e col giudicare gli altri esseri secondo che siano più o meno iniziati a quelle abitudini del lusso: in modo che (la grandezza che lasciano splendere in loro, che scoprono negli altri, essendo tutta materiale, facile da constatare, lenta ad acquisirsi, difficile da compensare), se queste donne mettono un passato nel rango più basso è nella stessa maniera in cui elle sono apparse a lui nel più alto, cioè immediatamente a prima vista, senza appello. Forse quella classe sociale particolare che contava allora donne corne lady Israels, già mescolata a quelle dell'aristocrazia, e la signora Swann, che doveva frequentarle un giorno, quella classe intermedia, inferiore al faubourg Saint-Germain, poiché lo corteggiava, ma superiore a quanto non è del faubourg Saint-Germain, e che aveva questo di particolare che, già staccata dal mondo dei ricchi, era ancora la ricchezza, ma la ricchezza diventata duttile, obbediente a una destinazione, a un pensiero artistico, il denaro malleabile, poeticamente cesellato e che sa sorridere, forse questa classe, per lo meno con lo stesso carattere e con lo stesso fascino non esiste più. D'altronde, le donne che ne facevano parte non avrebbero più oggi quella che era la prima condizione del loro regno, poiché con l'età hanno, quasi tutte, perso la loro bellezza. Ora, altrettanto che dall'apice della sua nobile ricchezza, era dal colmo glorioso della sua estate matura e ancora cosi piena di sapore che la signora Swann, maestosa, sorridente e buona, avanzandosi nell'avenue del Bois, vedeva come Ipazia sotto il lento cammino dei suoi piedi, volgersi i mondi. I giovani che passavano la guardavano con ansia, incerti se i loro vaghi rapporti con lei (tanto più che essendo stati appena presentati a Swann, temevano che lui non li riconoscesse) fossero sufficienti da permettere loro di salutarla. E non era che tremando per le conseguenze, che vi si decidevano, chiedendosi se il loro gesto audacemente provocatorio e sacrilego, attentando all'inviolabile supremazia di una casta, non scatenasse catastrofi o facesse discendere il castigo di un dio. Ma faceva solo scattare, corne un movimento ad orologeria, il gesticolare dei piccoli personaggi salutanti che non erano altri se non la piccola corte di Odette, a cominciare da Swann, che sollevava la sua tuba di cuoio verde con una grazia sorridente, imparata nel faubourg Saint-Germain, ma a cui non si univa più l'indifferenza di una volta. Era sostituita (come se fosse in certa misura pervaso anche lui dei pregiudizi di Odette) insieme dalla noia di dover rispondere a qualcuno vestito abbastanza male e dalla soddisfazione che sua moglie conoscesse tanta gente, sentimento misto che traduceva dicendo agli amici eleganti che l'accompagnavano: "Ancora uno! Vi do la mia parola, mi chiedo dove Odette vada a pescare tutta quella gente!". Frattanto, avendo risposto con un gesto del capo al passante allarmato già fuori vista, ma il cui cuore batteva ancora, la signora Swann si voltava verso di me: "Allora, mi diceva, è finita? Non verrete mai più a trovare Gilberte? Son contenta che facciate un'eccezione per me e che non mi mettiate del tutto al bando. Mi piace vedervi, ma mi piaceva l'influenza che avevate su mia figlia. Credo che anche lei lo rimpianga molto. Infine, non voglio tiranneggiarvi, perché non decidiate di non voler vedere più neanche me!". "Odette, c'è Sagan che vi saluta" faceva notare Swann a sua moglie. E, in effetti, il principe, facendo corne in un'apoteosi di teatro, di circo, o in un quadro antico, far fronte al suo cavallo, rivolgeva a Odette un grande saluto teatrale e come allegorico, in cui si amplificava tutta la cortesia cavalleresca del grande signore che inchinava il proprio rispetto davanti alla Donna, fosse pure incarnata in una donna che sua madre e sua sorella non avrebbero potuto frequentare.

D'altronde, in ogni momento, riconosciuta in fondo alla trasparenza liquida e allo smalto luminoso dell'ombra che il suo ombrellino riversava su di lei, la signora Swann era salutata dagli ultimi cavalieri attardatisi, corne cinematografari al galoppo nel sole bianco del viale, uomini di circolo i cui nomi, famosi per il pubblico - Antoine di Castellane, Adalbert di Montmorency e tanti altri - erano per la signora Swann nomi familiari di amici. E, poiché la durata media della vita - la longevità relativa – è molto più grande per i ricordi delle sensazioni poetiche che per quelli delle conseguenze di cuore, da molto tempo sono svaniti gli affanni che avevo allora a causa di Gilberte, ed è sopravvissuto loro il piacere che provo, ogni volta che voglio leggere, in una sorta di quadrante solare, i minuti che vi sono fra mezzogiorno e un quarto e l’una, nel mese di maggio, a rivedermi parlare così con la sognora Swann, sotto il suo ombrellino, come sotto il riflesso di un pergolato di glicini.

3 settembre ‘03