G. Bizzetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Grandezza militare e debolezze umane, vizi privati e pubbliche virtù dei sovrani della Roma imperiale da Giulio Cesare a Romolo Augustolo

 

 

 


 

Introduzione

 

 Questo lavoro a differenza di tutti gli altri che convenzionalmente partono con Ottaviano Augusto inizia con Gaio Giulio Cesare.

Perché nel 31 a.C. (data nella quale Ottaviano Augusto, il primo principe, appunto quello col quale per consuetudine s’inizia, assunse la porpora imperiale) non accadde nulla di sintomatico per cui possa sostenersi che sia stato proprio con lui e proprio allora che la Repubblica veniva a trasformarsi in Principato. Tant’è che ancora a lungo, nel prosieguo, per designare la natura delle istituzioni si continuò a dire “res publica” e per un tempo ancora più lungo il Senato di Roma, che nei sei secoli precedenti aveva condotto prima in Italia e poi nel mondo la politica dell’Urbe, credette di continuare a farlo. Cesare con la sua straordinaria intelligenza e con delle capacità militari e politiche fuori del comune aveva intuito, come già prima di lui con minori capacità e con meno fortuna Mario, Silla e, più degli atri ma meno di lui, Pompeo, che le dimensioni dell’Impero, l’insorgere di nuove istanze, i mutati costumi, le maggiori pretese di tutti, imponevano la necessità di una qualche svolta.

Detta svolta di fatto avvenne quando, dopo la battaglia di Farsalo (48 a.C.), Cesare ebbe ad ottenere, via via, la dittatura a tempo indeterminato, il consolato per cinque anni, la potestà tribunizia a vita, la “praefectura morume, dopo la vittoria di Munda, anche il titolo di “Imperator” che equivaleva a quello di generale della Repubblica. E questa somma di poteri civili e militari di fatto e inequivocabilmente configurava il suo governo come un principato. Egli riordinò lo Stato con una serie di leggi, completò a sua posta il Senato, dedusse colonie, distribuì terre ai suoi veterani, riformò il calendario, disegnò audaci progetti urbanistici in Roma e altrove. Desideroso di pacificare gli animi amnistiò i nemici e adottò a fini successori Ottavio, il futuro Augusto.

Può quindi osservarsi che, quali che fossero i suoi concetti definitivi intorno alle forme da dare al suo governo, a nessuno sfuggiva che egli intendeva conservare e trasmettere a un suo successore la pienezza dell’autonomia che era nelle sue mani.

Queste sue prerogative politiche (non differenti e non minori di quelle che avranno i principi che gli succederanno) sono le ragioni per le quali iniziamo trattando di lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Principi

 

 

1. Gaio Giulio Cesare  – Dal 48 al 44 a.C. (dittatore a vita).

 

Gaio Giulio Cesare fu straordinario in ogni suo fare e tutte le sue scelte, tranne quella di fidarsi dei suoi nemici, furono felici.

La sua visione delle cose fu sempre tempestiva e lucida, la sua intelligenza sempre pronta, così moderno il suo modo di trattare i problemi e così freddo il suo cervello che ebbe sempre ragione, e con molta facilità, di ogni suo avversario, fosse stato esso militare o politico.

Dal punto di vista militare forse gli si possono accostare (e solo dal punto di vista tattico, nemmeno strategico) i soli Alessandro e Napoleone (più il secondo che il primo), ma politicamente non troviamo nessuno che anche lontanamente possa essergli avvicinato.

Quale generale degli eserciti romani in soli cinque anni sottomise le tre parti della Gallia (“Gallia divisa est in partes tres”) che da allora divenne la più provvida, prospera e fedele delle province romane; dissuase a lungo le orde germaniche dall’avvicinarvisi e si spinse anche oltre Manica occupando la parte meridionale della Britannia dove effettuò degli importanti insediamenti civili e militari. Nelle faccende di guerra era un fulmine: sovvertì le logiche del combattere, assunse iniziative mai pensate prima; con geniale spregiudicatezza rovesciò i rapporti di forza che quasi sempre gli erano sfavorevoli, e non ci fu volta che non vinse. I soldati avevano per lui un rispettoso affetto e Cesare mai dovette ricorrere alla autorità per affermare il proprio prestigio. A Farsalo in poche ore e con poche perdite conseguì una vittoria strepitosa sull’esercito di Pompeo (e stiamo parlando delle poderose legioni del grande Pompeo, non di scoordinate tribù barbare) che contava 50 mila fanti e 7 mila cavalieri, mentre lui ne aveva rispettivamente 22 mila e mille. Ma la sera prima della battaglia, mentre nel campo di Pompeo si erano tenuti banchetti, discorsi, bevute e si erano levati brindisi alla certa vittoria, Cesare aveva mangiato un rancio di farro e cavoli coi suoi soldati, nel fango della trincea.

Cesare visse in un periodo nel quale le istituzioni erano cadute nel caos e la repubblica, senza averne coscienza, aveva assolutamente bisogno di un “uomo forte” capace di porre un argine ad un parlamentarismo sfrenato e ormai strenuo e, ripristinando l’ordine e la legalità, di dare forza ed autorevolezza al potere esecutivo. Vi riuscì in pieno, e da solo avviò quel cambiamento che avrebbe dato a Roma l’abbrivo per durare bene, in scenari diversi da quelli nei quali la vecchia Roma repubblicana si era misurata, si era imposta e si era esaurita, per altri due secoli.

Cesare, con una visione moderna e spregiudicata della politica, e avendo costantemente a cuore gli interessi della cosa pubblica, “realizzò un vasto progetto che lungimirantemente aveva abbozzato quando aveva concesso la cittadinanza alla Gallia cispadana. Il Senato non volle mai convalidargli la misura; poi dovette accettare che venisse estesa a tutta l’Italia. Cesare aveva compreso che non c’era più nulla da sperare dai romani di Roma, ormai ammolliti, imbastarditi e incapaci di fornire altro che degli intrallazzatori e dei disertori. Egli sapeva che il buono era solo in provincia, dove la famiglia era rimasta salda, i costumi sani, l’educazione severa. E con questi provinciali di origine contadina o piccolo borghese intendeva riformare i quadri della burocrazia e dell’esercito. La sua vera rivoluzione era questa ed egli cercò di realizzarla attraverso la grande riforma agraria progettata dai Gracchi. Per riuscirvi chiamò a collaborare l’alta borghesia industriale e mercantile, che gli finanziò l’operazione. Grandi capitalisti come Balbo e Attico diventarono suoi banchieri e consiglieri. Cesare spiegò in questa bisogna la stessa energia che aveva spiegato come generale in battaglia. Voleva tutto vedere, tutto sapere, tutto decidere. Non ammetteva sprechi e incompetenze. E per escludere gli uni e le altre il tempo non gli bastava mai. La politica del pieno impiego della manodopera si conciliava benissimo col “mal della pietra” che lo affliggeva. Cesare era un costruttore nato e trascorreva in letizia le sue indaffaratissime giornate.I pettegolezzi dei suoi nemici contro di lui invece d’irritarlo lo divertivano” (Montanelli). 

E come scrittore, come ci testimonia il grande Cicerone - che da buon conservatore gli fu sempre nemico ma che di queste cose se ne intendeva - “tolse a tutti la voglia di scrivere”. Il suo stile di scrittura (Cesare scrive delle sue cose parlando di sé in terza persona) è elegantemente sobrio, privo di fronzoli, ma ricco di tutti i particolari utili ad una chiarissima comprensione dei fatti. E la lettura dei suoi due documentari (il “De bello gallico” e il “De bello civile”) un autentico godimento.

Cesare era un uomo affascinante, brillante, facondo, cordiale. Amò molte donne e ne fu sempre ricambiato. Misurato e spavaldo, coraggioso e prudente, leale e spregiudicato, non cercò mai vendette e mai fu immotivatamente crudele. Faceva tutto con eleganza, anche il regalo del perdono a chi gli aveva portato offesa. Seppe sempre comprendere al volo il rapido volgere delle situazioni e con quelle il mutare degli interessi dei suoi alleati, che, quando rispettarono gli accordi, ebbero sempre il pattuito, e quando per invidia, per errata presunzione o per calcolo gli andarono contro, ogni volta rovinarono.

Nessun voltafaccia lo sorprese. Amici e nemici, tutti subirono il suo fascino, e il suo acerrimo nemico Catone, che era vissuto solo per combatterlo, togliendosi, dopo la disfatta di Farsalo, la vita, gli chiese perdono di tutto il male che gli aveva fatto. Cesare quando lo seppe disse che non gli perdonava “d’avergli tolto, suicidandosi, l’occasione di perdonarlo”. E sempre dopo Farsalo, di quel Bruto e di quel Cassio che in quella battaglia gli erano stati avversari e che qualche anno dopo, alle fatali Idi di marzo, gli avrebbero tolto a tradimento la vita, fece dei governatori di provincia.

Scrive di lui Christian Meier nel suo “Giulio Cesare. Il politico e il diplomatico, lo stratega e il condottiero, l'oratore e lo scrittore”:

 ... Balza agli occhi una ricca fantasia, un'enorme ingegnosità tecnico-tattica. Una sorprendente capacità di capire le situazioni in anticipo e fino in fondo, di cogliere la realtà apparente come apparenza e la realtà misconosciuta come realtà, di scorgere possibilità che normalmente non venivano percepite, e di essere avvedutamente pronto quasi a tutto. Conosceva, infatti, anche il potere del caso e non voleva essere in sua balìa. Famosa è la sua rapidità, la “celeritas caesaris”. Degna di nota la capacità con la quale si adatta ad ogni novità, la capacità di imparare. […] Se questo tempo e il suo protagonista più significativo possono ancora affascinare, ciò dipende dal fatto che è un problema nostro quello che allora là fu rappresentato e la cui serietà là si incontra. Accanto e nella dimensione storica c'è sempre quella antropologica. La grandezza di Cesare, infatti, “se si osa tirare ancora in ballo questa parola patetica” non è “né nell'immacolatezza di un genio luminoso, né nella licenza di una libera amoralità (…) ma proprio nella sua umanità estremamente problematica, che unisce possibile splendore e ineludibile miseria, disgrazia e colpevolezza, e soprattutto (…) nella sua efficacia storica”, nella quale egli ha tanto costruito, ma anche tanto distrutto.

Nato da famiglia aristocratica povera, Cesare ebbe sempre a cuore il bene del popolo e, al di là dei diversi provvedimenti che aveva assunto in suo favore nel governo della cosa pubblica, col testamento gli legò ogni sua personale ricchezza. Opportunamente ridusse il Senato ad un corpo meramente consultivo dopo averne portato i membri da 600 a 900, con l’immissione in quel corpo sclerotico di nuovi elementi scelti in parte tra la borghesia di Roma, in parte tra quella di provincia, in parte tra i suoi vecchi ufficiali celti, molti dei quali erano figli di schiavi (ma poi - commentiamo noi – successe, come succede sempre, che furono i deboli a rendere deboli i forti e non i forti a rendere forti i deboli).  

Fu la magnanimità, o l’eccessiva magnanimità (ma forse la magnanimità è sempre eccessiva) a perderlo. “Forse in questa magnanimità c’era anche un po’ di disprezzo per gli uomini: un carattere che si accompagna quasi sempre alla grandezza. E forse in questo disprezzo sta anche la ragione della sua totale indifferenza ai pericoli che lo minacciavano. Egli non poteva ignorare che intorno a lui si complottava e che la generosità è uno stimolo, non un sedativo all’odio. Ma non riteneva i suoi nemici abbastanza coraggiosi per osare” (Montanelli).

Ma non sempre occorre un leone per uccidere un leone. Spesso basta uno sciacallo.

Nutro per il dittatore Cesare – “uomo unico nella storia umana” (la definizione è del fobico Ceronetti, uno che in vita sua non ha mai amato nessuno) - una ammirazione sconfinata, per cui mi piace concludere questo suo ritratto sottolineando come, nel grande Impero, dopo di lui, si chiamarono Cesare o Sommo Cesare tutti i sovrani assurti al comando più alto per forza di spada o che con la spada dovevano difenderlo (la differenziazione con l’Augusto Sovrano fu successiva, e la si riservò a chi piuttosto governò dal palazzo). E come ancora, in epoche molto successive e quasi contemporanee alla nostra, con denominazioni chiaramente derivate dal suo nome si onorarono gli imperatori sovrani di Prussia (Kaiser) e quelli di tutte le Russie (Czar, Zar).

Ma per dirla con Umberto Eco ora “nomina nuda tenemus”.

Non per questo ritengo che Gaio Giulio Cesare fosse perfetto. Per esserlo gli mancava - per dirla con Indro Montanelli - solo un difetto: quel po’ di sana paranoia che magari ci rende meno belli agli occhi della gente ma che, se perseguita con costanza, il più delle volte ci permette di morire di vecchiaia.

 

 

 

2. Gaio Ottavio (Cesare Ottaviano Augusto) – dal 31 a.c. al 14 d.C.

 

Il brillantissimo Cesare, scavezzacollo di manica larga, dalla generosità irriflessiva, dalla parola pronta e dal gesto vivace, lo prese in simpatia e non avendo figli (il ragazzo era figlio della figlia di una sua sorella) se l’adottò, probabilmente pensando di farne il proprio successore. Dovette essere un amor di contrasto molto forte giacché non era figurabile un personaggio che potesse essergli così diverso. E fu una fortuna perché il giovane Ottavio in quel dato momento venne a rappresentare proprio quel che ci voleva perché finalmente il principato attecchisse.

A differenza di Cesare che aveva scatenato il suo destino con l’ostentazione del potere non meno che col potere stesso, Ottavio aveva una mente fredda, un cuore duro e un temperamento pusillanime che gli fecero tenere sempre la maschera dell’ipocrisia. Le sue virtù e i suoi vizi erano artificiali, ma nulla sfuggiva al suo sguardo intelligente e freddo e la sua regia non trascurava nessuna inquadratura. Era un abitudinario di rara tenacia, sobrio nelle esternazioni, discreto nelle apparizioni, costante nelle applicazioni, freddo nelle esecuzioni, gelido e avaro nei rapporti umani. Senza le idi di marzo sarebbe ugualmente arrivato dove arrivò, ma la prematura morte di Cesare gli fece percorrere una via lunga e impervia.

Col tempo, freddamente e con lucida pazienza, seppe avere ragione di quel Marco Antonio che era il migliore dei generali di Cesare e che, avendo l’appoggio degli eserciti, si pensava, tutti pensavano (e per primo lo pensava lo stesso interessato) che ne avrebbe preso il posto. E quando il suo rivale, col comando dei suoi eserciti, era ancora forte, Gaio Ottavio (che pur avendo solo 18 anni capì che in quelle condizioni e in quella situazione non avrebbe potuto reggere a nessun confronto di forza) gli si alleò, e concluse con lui un accordo che gli servì per allontanarlo pacificamente da Roma e prendere il tempo per rafforzarsi. Nel prosieguo, quando la posizione di Antonio, anche per la scandalosa relazione con Cleopatra, andò a logorarsi, e la sua si era rinforzata sia politicamente che militarmente, lo attaccò, lo sconfisse e lo liquidò.

Tornato a Roma Cesare Ottaviano fece processare e uccidere, incolpandoli dell’assassinio di Cesare, 300 senatori e 2000 funzionari, e ne confiscò tutti i beni. E a caldo, confondendo con sapienza blandizie e minacce, si fece conferire dai senatori superstiti l’autorizzazione a conservare il comando militare anche in tempo di pace e nel cuore stesso dello Stato, creando una pericolosa eccezione alla antica regola che non voleva che le legioni potessero stazionare nel territorio metropolitano.

In questa situazione di preminenza, il cauto e prudente Ottaviano regnò per 49 anni sotto le venerabili insegne della vecchia magistratura ma radunando nella propria autorità tutti gli elementi sparsi della giurisdizione civile. Compresi le dignità di pontefice massimo e di censore. Con la prima acquistò il governo della religione e con la seconda il controllo legale sui costumi e sulle vicende del popolo romano.

In campo militare frenò l’espansionismo repubblicano, persuaso che l’Impero avesse raggiunto i limiti naturali (ad ovest l’oceano Atlantico, a nord il Reno e il Danubio, ad est l’Eufrate e a sud i deserti sabbiosi dell’Arabia e dell’Africa: più di tremila miglia da est ad ovest e più di duemila da nord a sud) che la natura poneva all’intraprendenza degli uomini (l’occupazione dell’isola di Britannia la si deve all’autonoma iniziativa di Agricola, anzi Augusto quando il generale manifestò di volere sbarcare nella vicina Irlanda lo destituì dall’incarico).

Ottaviano non cedette mai ad alcuno la più piccola briciola di potere, non ebbe mai amici e mai ne cercò. Era puntiglioso e abitudinario, ligio agli orari e sobrio come un funzionario di banca (almeno delle banche d’una volta), e si scriveva tutto, non solo i discorsi che doveva pronunciare in pubblico ma anche quelli che teneva in casa con la moglie e con i familiari. Fu sospettoso e più di una volta crudele: per un’indiscrezione fece rompere le gambe al suo segretario. E fidarsi della sua sincerità era tanto pericoloso quanto dare l’impressione di non fidarsene. Anche perché per proteggersi da inesistenti complotti inventò la polizia, vale a dire quei pretoriani, o guardie del principe, che dovevano svolgere una così nefasta parte sotto i suoi successori.

Lo scaltro Gaio Ottavio, cui l’adozione dello zio aveva dato il nome di Cesare e l’adulazione del Senato quella di Augusto, ripristinando la dignità del senato e distruggendone l’indipendenza, instaurò una perfetta e assoluta monarchia mascherata dalle forme della repubblica.

Il suo genio si manifestò nella straordinaria abilità con cui sotto l’apparenza di non modificare nulla ridisegnò completamente lo Stato romano. Le più alte forme della menzogna politica sono due: quella di chi dichiara di aver cambiato tutto allo scopo di non cambiare nulla e quella di chi dichiara di non aver cambiato nulla allo scopo di modificare tutto.

Ottaviano Augusto, che aveva assunto la porpora a 28 anni e la aveva tenuta per 49, fino alla serena morte che lo colse che ne aveva 77, non poteva preferire che il secondo genere. Difficile forse più del primo ma dei due certamente il meno rischioso.

 

 

 

3. Tiberio – dal 14 d.C. fino al 37. “Principe attivo e virtuoso che aveva ricevuto l’educazione di un soldato e possedeva le attitudini di un generale” dice di lui Gibbon, ma era cupo e spietato, taciturno e senza slanci, sprezzante del prossimo e rancoroso.

Governò con rassegnata correttezza, facendo poco ma facendolo bene. Diffidando dei senatori aumentò la guardia pretorile a nove coorti, non rendendosi conto del pericoloso precedente che veniva a creare. E fu proprio con Seiano, suo prefetto del pretorio, che ebbe inizio quel lento processo di disfacimento della capitale, e con essa delle istituzioni che non avrebbe avuto fine. Per frenarlo ci sarebbe voluta la mano ferrea di un gran riformatore, non quella di questo vecchio scettico che detestava il suo lavoro, la città e il mondo intero, e che non reggendo all’uggia del governare preferì trascorrere gli ultimi anni della sua vita nella quiete di Capri, sciaguratamente delegando all’ambiguo Seiano le sue prerogative. “Voi non sapete che mostro sia il potere” (“Nescite quanta belua esset imperium”) rispondeva a chi lo pregava di vincere la riluttanza e di ritornare a Roma.

Assunse la porpora a 56 anni e la tenne bene per 15, male nei rimanenti otto. La morte lo colse che aveva 76 anni, probabilmente liberandolo da un tedio che la bellezza del posto dove si era voluto esiliare non aveva del tutto lenito. Avanti di morire ebbe la forza di punire Seiano dei suoi arbitrii. Noi amiamo Tiberio; per noi fu uno dei più grandi imperatori che Roma abbia avuto e uno dei più calunniati.

 

 

 

4. Gaio (Caligola) – dal 37 al 41. Un satiro crudele, tuttavia non privo di qualche qualità, che tenne in gran disprezzo i senatori e le regole repubblicane. Persiste il luogo comune che fosse pazzo perché aveva fatto senatore il suo cavallo. Ma non è vero, è che odiava così tanto quel tempio dell’inutilità e della conservazione che era il Senato che per dileggio continuamente diceva che “se lo volessi potrei far senatore anche il mio cavallo”. Ma un po’ schizoide lo era di sicuro perché alternava momenti nei quali era simpatico, cordiale e spiritoso ad altri nei quali senza un motivo evidente diventava un pazzo sanguinario. Si narra che una mattina che s’era svegliato con l’allergia dei calvi fece portare tutti quelli che lo erano al circo dove tra il divertimento generale li fece dare in pasto alle belve affamate dalla carestia. Ma ad uno che, profittando di un suo momento di vena buona, gli aveva rimproverato tanta stravaganza rispose “E’ vero, ma credi che i miei sudditi valgano più di me?”.

Aveva assunto la porpora che aveva 25 anni. La tenne solo per quattro perché ne aveva 29 il giorno che il suo prefetto del pretorio, uomo purtroppo senza spirito, mal reagendo all’ennesimo insulto, lo pugnalò mortalmente.

Si perse un bel principe e con quell’empio gesto si instaurò un pericoloso precedente.

 

 

 

5. Claudio – dal 41 al 54. E mentre che c’erano, i pretoriani vollero scegliersi anche il successore. E pro domo propria issarono sul trono il babbeo di casa, quel Claudio già cinquantenne che, svagato e sciancato com’era, con quell’aria perennemente gioconda, tremebondo e balbuziente, sbevazzone e scimunito, con le sue continue insensatezze muoveva tutti al riso dando l’impressione d’essere debole e stupido. Ma si sbagliavano di grosso perché poi Claudio alla prova dei fatti dimostrò a tutti d’essere un signor imperatore. Svetonio sottolinea le sue stranezze e ce lo dipinge come schiavo di ghiottonerie e piaceri, completamente succube dei suoi liberti e delle sue varie mogli, alla cui influenza secondo lo storico sarebbe da attribuirsi l’uccisione di trentacinque senatori e di più di trecento cavalieri. Svetonio che fu il cantore della magnificenza della maestà del senato fa un discorso smaccatamente di parte, la qual cosa ci conferma che effettivamente con Claudio cominciarono ad aversi le prime costanti erosioni del potere dei patres coscripti, e che in realtà si fosse finto pazzo per scampare alla demenza di suo cugino Gaio mentre non lo era affatto (fece costruire il porto artificiale di Ostia alla foce del Tevere e una volta - magari ciò non costituisce prova, ma ci piace dirlo - privò dei diritti civili un greco insigne che s’ostinava a non voler imparare il latino).

Claudio debuttò con una buona mancia ai pretoriani che lo avevano eletto, ma in cambio si fece consegnare da loro gli assassini di Caligola, e li soppresse, per instaurare, disse, il principio che gli imperatori non si ammazzano” (Montanelli).

Anche se non aveva fatto mai il soldato ebbe cura delle faccende di guerra: consolidò la presenza romana in Britannia e, pur se a tarda età, quando scoprì la bella vita e le donne, si prese con accanimento tutti gli arretrati (dei primi 15 imperatori Claudio fu l’unico le cui tendenze in amore fossero del tutto corrette), anche se con queste non sempre ebbe la mano felice, giacché Messalina e Agrippina, le due che sposò, erano altamente immorali e scostumate al massimo. La prima, quando non ne poté più, la fece strangolare; la seconda, che era ancora più dissoluta della prima, lo prevenne e con l’aiuto del prefetto del pretorio Afranio Burro, suo amante, lo avvelenò coi funghi.

Possiamo forse dire, per trovargli un difetto, che un poco dell'antica svagatezza non gli consentì, purtroppo, di osare abbastanza. Aveva assunto la porpora a 51 anni e l’aveva tenuta per 13.

 

 

 

6. Nerone – dal 54 al 68. Scrive Massimo Fini che “nessun personaggio storico, ad esclusione forse di Adolf Hitler e di Giuseppe Stalin, ha mai goduto di così cattiva stampa come Nerone, ritenuto addirittura l’Anticristo da alcuni autori cristiani come Vittorino, Commodiano e Sulpicio Severo. Egli fu, in realtà, un grandissimo uomo di Stato: amante della musica, della poesia, della recitazione, della scienza e della tecnica, si fece promotore delle più ardite esplorazioni e durante i 14 anni del suo regno l’Impero conobbe un periodo di pace, di prosperità, di dinamismo economico e culturale quale non ebbe mai prima. Certamente fu anche un megalomane, un visionario, uno psicolabile schiacciato da una madre autoritaria, castratrice e ambiziosa che gli caricò sulle spalle, a soli 17 anni, l’enorme peso dell’Impero, mentre lui avrebbe forse preferito dedicarsi alle arti predilette. Ma ugualmente fu un monarca assoluto che usò del proprio potere in senso democratico, governando per il popolo contro le oligarchie che lo opprimevano e lo sfruttavano”.

E’ divertente osservare come la misericordia dei cristiani diventi sempre, nell’autotutela, ottusa rabbia e feroce accanimento. Sì, è vero che Nerone dei pochi cristiani delle catacombe (che, non dimentichiamolo, la gente detestava) fece un facile capro espiatorio per un occasionale incendio che aveva distrutto la suburra. Il polacco Sienckiewicz ha fatto inorridire l’onesto mondo descrivendocelo riccio di capelli, rosso di barbetta e fesso di voce che suonava garrulo la cetra nel mentre che li dava in pasto ai leoni. L’immagine è fuorviante quanto disonesta; Sienkiewicz in quanto polacco è un cattolico integralista che fa propaganda alla sua Chiesa e con gente così è inutile ragionare (Stalin diceva che è più facile sellare una mucca che far ragionare un polacco).

In realtà Nerone era solo un artista che le vicende del mondo costringevano a fare l’imperatore. Era un debole e uno stravagante, aveva un temperamento incostante e irrisoluto e un carattere fatuo e malfermo. Si credeva un grande artista e alle prese con problemi più grandi delle sue deboli capacità di concentrarsi, perse il senso della realtà.

Ed è una menzogna anche che nei primi anni di principato si sia segnalato per temperanza e senno. La voce corre sulle penne di uomini che tendenziosamente vogliono, per una sorta di corporativa tutela della categoria, dar lustro al loro “collega” Seneca – sì, proprio il grande filosofo stoico -, che al giovane principe fece da precettore.

A parte che il fatto che il Seneca filosofo non è neanche lontano parente del Seneca politico, rimane che il primo atto del giovane Nerone fu quello di far uccidere Britannico, il figlio quattordicenne di Claudio e di Messalina che riteneva un possibile rivale. Poi fece uccidere Agrippina, che in quanto madre voleva avere parte nelle decisioni di governo. E nel prosieguo, al tempo della congiura dei Pisoni, anche lo stesso Seneca.

A quei tempi l’omicidio politico come atto di preventiva tutela era un fatto di ordinaria amministrazione, non ce ne scandalizzeremo noi che deploriamo che Giulio Cesare non vi abbia fatto ricorso. Né abbiamo ragioni di calcolo che possano indurci a guardare alla storia ora in un modo e ora in un altro. Per cui il povero Nerone noi preferiamo ricordarlo per la coraggiosa riforma monetaria che gli procurò la gratitudine del popolo e, di contro, l’inevitabile malevolenza dei latifondisti e dei senatori.

Poi forse è vero che nel cervello qualcosa gli si guastò, probabilmente fu per colpa d’una qualche malattia venerea. Si perse tra la scostumata madre (Agrippina) e la debosciata moglie (Poppea) e smarrì il contatto con la realtà. Divenne paranoico, si disinteressò del governo, si diede totalmente alla recitazione e al canto, si coprì di ridicolo.

Ma la sua morte lasciò nel popolino un rimpianto che il tempo non estinse ed è certo che per anni, con fiducia, molte generazioni ne abbiano atteso il ritorno. Ciò perché molto Nerone aveva fatto per loro, con elargizioni di grano come mai prima d’allora e neanche dopo, ed era sollecito anche dei loro umori (i giochi, il circo, gli spettacoli gladiatorii, e c’è poco da irridere: da allora ad oggi i costumi e i vizi della gente sono cambiati meno di quanto non si pensi). Promosse e condusse opere di bonifica utili e imponenti. Con un nuovo piano regolatore fissò l’ampiezza delle strade e l’altezza degli edifici, che dovevano essere costruiti almeno in cemento e almeno in parte in materiale antincendio. Per il pensiero che aveva dei miserabili e per la spiccata voglia di abbellire il mondo risanò il suburbio, fatiscente bidonville di quei tempi; bonificò la palude pontina; fece tagliare l’istmo di Corinto. E con coraggio varò e impose una riforma fiscale e monetaria avanzatissima, progredita e giusta in una società troppo oligarchica dove la vita e i bisogni della gente povera (i “capitecenses”) contavano quanto quelli d’un animale. Tanto bastò per alienargli per sempre la benevolenza dei ceti dominanti, di quelli che fanno scrivere la storia, di quelli che nel popolo affamato vedono sempre l’irriducibile nemico di classe. E conseguentemente anche della chiesa cattolica la quale poco cristianamente gli porta un odio feroce e inestinguibile. Sì, non si può negare che alcuni cristiani li fece crocifiggere (la crocifissione allora era la pena consueta per i malfattori comuni e per i ladri di strada) e che, a grande richiesta del popolino che i cristiani (da esso impropriamente confusi con i Giudei) li detestava, qualcuno o più di uno, negli spettacoli circensi, effettivamente lo diede in pasto alle belve, ma quei fanatici, spina piantata in ogni fianco che voglia respirare laicamente, lavoravano nell’ombra per costruire quella metastasi che nel giro di due secoli avrebbe distrutto l’Impero.

In un mondo permeato di plutocratismo capitalista, di cattolicesimo controriformista e di buonismo postcomunista, come può sperare l’infelice Enobarbo di trovare giustizia? Ad onta di quel perdonismo cattolico che tutto assorbe e assolve, egli è stato bollato di sempiterna infamia, tirandosi ogni volta fuori i suoi delitti, ricordandosi ad ogni pie’ sospinto che mentre Roma bruciava lui si sollazzava con lo strumento in mano. Né un solo momento si dimentica che costrinse al suicidio il suo vecchio maestro (il venerabile Seneca, un sordido usuraio, che predicava bene e razzolava male), e che uccise sua madre (quella santa donna di Agrippina). Ritorno a dire che i suoi delitti non furono né maggiori né diversi di quelli di sovrani “virtuosi” come Augusto o come il grande (e santo) Costantino (che senza una ragione plausibile fece uccidere la moglie, il figlio, il cognato e il nipote), e di chiunque allora avesse comando. Non gli si riconosce neppure che non fece una guerra.

Fu un sovrano assoluto, ma erano quelli i tempi. Non possiamo giudicare le cose di duemila anni con gli occhi di adesso. Allora il dispotismo era un fatto del tutto naturale, e lo sarebbe stato fino alla rivoluzione francese. Anche i papi, principi della santissima Chiesa illuminati dallo spirito santo sono – ancora oggi - dei sovrani assoluti. Nerone era un debole e si faceva facilmente condizionare. E non gli importò mai abbastanza di governare. Questi semmai furono i suoi difetti. E li pagò a caro prezzo. Ma erano difetti di natura personale, non d’impronta sociale.

Chi lo combatte, chi lo denigra, chi lo ha dannato “in aeternis” non aveva e non ha certo più a cuore di lui il bene del popolo e dello Stato, e nessunissimo amore per l’arte.

Domizio Enobarbo, detto Nerone (in dialetto sabino “forte”) aveva assunto la porpora a 17 anni e l’aveva tenuta per 14, fino alla morte che per paura e con mano tremante egli stesso si diede all’età di 31 anni.

Per molti anni la sua tomba è rimasta coperta di fiori freschi.

 

 

 

7. Galba – dal 68 al 69. Buono a governare qualche provincia, non I’Impero. Era avaro, non aveva senso politico, non aveva fascino. Appena proclamato imperatore il suo primo gesto fu di ordinare a quanti avevano ricevuto doni da Nerone di restituirli allo stato. Ciò gli costò il trono e la vita perché tra i beneficiati c’erano anche i pretoriani che, incontratolo nel foro dove egli si faceva portare con la lettiga, gli tagliarono la testa, le braccia e le labbra, dopo di che proclamarono suo successore tale Otone che essendo un banchiere che aveva fatto bancarotta fraudolenta prometteva di amministrare le finanze pubbliche con la stessa spensieratezza con cui aveva amministrato quelle private. Così il povero Galba che aveva assunto la porpora a 71 anni poté tenerla per soli sei mesi. Svetonio si duole che con Galba si siano introdotti i pericolosi precedenti che l’imperatore poteva essere eletto anche fuori di Roma e che “un senatore di oscura origine italica poteva raggiungere il posto più alto in assoluto”, ma Svetonio, si sa, è un conservatore oligarca e amico degli oligarchi per il quale qualsiasi novità costituiva un pericoloso salto nel buio.

 

 

 

8. Otone – nel 69. Non aveva né carattere né sangue freddo. Quando capì che nemmeno col tesoro di Priamo avrebbe potuto coagulare il consenso generale o almeno comprarsi la protezione dei pretoriani, quando seppe che i generali Vitellio dalla Germania e Vespasiano dall’Egitto stavano ritornando a Roma per deporlo, scioccamente si diede la morte. Assunse la porpora a 37 anni e la tenne per neanche tre mesi.

 

 

 

9. Vitellio – nel 69. Giunse per primo Vitellio che fu acclamato Augusto. Ma anziché curarsi di Vespasiano che sopravveniva, brutalmente s’abbandonò alla sua passione preferita che era quella dei pranzi luculliani. E per seguitare ad abboffarsi d’abbacchio tralasciò d’aspettarlo ad Anzio, dove, sbarcando le legioni dalle numerose navi, egli avrebbe potuto sorprendere il rivale in una posizione di debolezza. Nel feroce regolamento di conti che ne seguì nella capitale, lo stesso Vitellio, scovato a banchettare in un nascondiglio segreto, fu trascinato con un laccio al collo nudo per la città, bersagliato di escrementi, torturato con ponderata lentezza e alla fine gettato nel Tevere. il Wells lo definisce crudele, golosissimo, corrotto. Aveva tenuto la porpora per 7 mesi.

 

 

 

 

10. Vespasiano – dal 69 al 79. “Il suo cranio era completamente calvo, il volto aperto, rozzo e franco, incorniciato da due orecchie grandi e pelose” (Svetonio). Detestava gli aristocratici e non subì mai la tentazione di farsi passare per uno di loro. I suoi meriti furono più utili che fulgidi, ma (o proprio per questo) come imperatore fu grandissimo: sagace, prudente, equilibrato, scaltro, ironico, diffidente e anche non immotivatamente spietato. Le sue parole d’ordine erano due, disciplina e risparmio. Le sue campagne militari sul Reno, in Britannia, in Oriente e in Africa ristabilirono la sicurezza dei confini.

Nell’amministrazione della cosa pubblica risollevò le finanze vendendo a prezzi salatissimi le cariche (la prassi sarebbe divenuta tristemente consueta, secoli dopo, con i papi). “Tanto – diceva – son tutti ladri, in qualunque modo li promuoviamo”. Per il fisco scelse gli esattori più rapaci e dissanguatori che ci fossero (dovette avere, pensiamo, l’imbarazzo della scelta) e li sguinzagliò con pieni poteri per tutte le provincie dell’Impero. Quando la rapina fu consumata e tutti i deficit furono colmati li richiamò a Roma, li elogiò e confiscò tutti i loro personali guadagni. E meritoriamente, con le eccedenze di bilancio, soccorse le persone più povere.

Riempì le città di gabinetti pubblici (che da allora portano il suo nome) facendosene impietosamente pagare l’uso. Al virtuoso figlio che gli rimproverava questa crudeltà, mettendogli sotto il naso una moneta urlò, “Che, forse puzza?!!”.

Vespasiano fu un uomo sagace, con uno spirito sardonico e con le virtù tradizionali della campagna italica da cui proveniva la sua famiglia. Il suo ritratto sembra corrispondere al suo carattere. La sua morte giunse inattesa e fu dovuta in parte al suo rifiuto di curare seriamente un accesso di febbre e disturbi diarroici. Preso all’improvviso da uno spasmo particolarmente violento, disse: “Un imperatore doveva morire in piedi”, e morì mentre faceva ogni sforzo per alzarsi.

L’humour terragno ben si attaglia al suo carattere, come pure l’altra frase che disse sul letto di morte: “Povero me! Credo che sto per diventare un dio. (C.M. Wells)

Aveva assunto la porpora a 66 anni e l’aveva tenuta per quattro. Morì, di morte naturale, che ne aveva 70.

 

 

 

11. Tito – dal 69 al 71. Quel candido che non si capacitava che si potesse trarre danaro anche dalle vesciche della gente era suo figlio Tito. Il galantomismo, la generosità, la dabbenaggine con Tito s’erano fatti persona, tant’è che ci fu chi – con una piaggeria invero sproporzionata alle necessità - lo chiamò “delizia del genere umano”.

Nei suoi due anni di regno il buon Tito non dichiarò una guerra, non firmò una condanna a morte, non si fece un nemico. Nei suoi due anni di regno Roma fu devastata da un incendio, Pompei dal terremoto e l’Italia intera da una tremenda pestilenza. Tito per riparare i danni prosciugò quel tesoro che suo padre s’era dannato l’anima a costruire. Per assistere i malati si contagiò e a 42 anni perse egli stesso la vita.

Fu rimpianto da tutti tranne che da suo fratello Domiziano che gli succedette sul trono.

 

 

 

12) - Domizianodall’ 81 al 96. Quanto era dabbene Tito tanto era duro e risoluto costui. Taluni dicono spietato, e al riguardo Dione Cassio sostiene che non sia stato estraneo nemmeno alla morte del fratello, del quale era geloso, e che glie l’abbia procurata, o affrettata, quando quello prese l’infezione, coprendolo di neve.

Privo del candore del fratello e di questi più somigliante a quel singolare geniaccio che fu il padre, Domiziano fu, secondo noi, un gran sovrano.

Era un cupo moralista giacché s’era avveduto come il lassismo e il disfattismo stessero portando l’elemento romano alla marginalità e come, nel frattempo, nella società con prepotenza s’innestavano elementi di una equivoca cultura orientale (quali, da un lato, confuse forme di misticismo che sfociavano nel nichilismo e dall’altro la canagliesca furberia tipica dei levantini), che non riconoscevano più nello Stato e nella famiglia l’elemento coagulante.

Fu un fermo e severo custode dell’ordine pubblico e della moralità. Fu anche per questo, cioè perché riteneva che esse ormai fossero un lusso che i romani non potevano più permettersi, che non volle far guerre (anche se le poche, di difesa, che non poté esimersi dal fare le fece egregiamente).

Molti storici sostengono che intorno ai 45 anni egli sia di colpo diventato un pericoloso paranoico e un micidiale assassino. Mise una tassa sui Giudei, già allora forse particolarmente ricchi, fece condannare a morte tutti i potenziali nemici, senza dimenticare anche quell’Epafrodito che, avendo 25 anni prima aiutato a morire il povero Nerone poteva forse averne preso il vizio.

Noi non disponiamo degli strumenti clinici per indagare le cause di questa repentina metamorfosi, né vogliamo fare come certi bardi del democratismo  ad ogni costo che confondendo il passato con il presente hanno creduto di individuarla nella natura stessa di quel potere che “quando non è temperato imputridisce il sangue dei sovrani” (Montanelli).

Siamo della modesta ma ferma opinione che in quei tempi questi non fossero abusi ma prerogative, e che di norma tutti i sovrani, chi di più e chi di meno, se ne avvalevano (che dire per esempio delle collere omicide del grande Alessandro, che forse furono più i generali suoi che uccise che quelli nemici?). A parte il fatto che nella montante corruzione dei costumi morali c’erano anche delle buone ragioni perché i principi se ne avvalessero. Rimane comunque il fatto che, poco tempo dopo, dei congiurati che temevano per la loro vita, aiutati dall’imperatrice sua moglie l’aggredirono che dormiva e con gran fatica lo uccisero.

Montanelli di Domiziano ha scritto che “per 15 anni aveva regnato come il più saggio, e poi come il più nefasto dei sovrani”. Ci sentiamo di sottoscriverne l’affermazione, sia per il rispetto che Montanelli merita e sia perché Domiziano in effetti non durò molto più di quei 15 anni che lo storico loda.  

 

 

 

13. Nerva – dal 96 al 98. Prima ancora di eliminare Domiziano, i membri della congiura si erano assicurati il consenso di Marco Cocceio Nerva, che quindi il giorno stesso venne assunto al potere con la ratifica del Senato. E’ chiamato “il buon Nerva” per l’esclusiva ragione che andò sempre d’amore e d’accordo con il Senato, dalle cui fila veniva e al quale – come abbiamo visto - doveva la nomina. Era imbelle e onesto, ma non era stupido. Anzi, era perfino sospettoso. Tanto che temendo che i suoi ex colleghi gli facessero fare la stessa fine che, con la sua stessa complicità, avevano fatto fare al suo predecessore, cercò di procurarsene col denaro la benevolenza. Dati i tempi e l’avidità di quegli esimi moralisti non ci è difficile supporre che abbia dovuto dare di fondo a pressoché tutto il patrimonio della corona. Si cercò con scrupolosa cura un successore che fosse degno della suprema carica e, soprattutto, dei “desiderata” dei senatori che avrebbero dovuto ratificargliela, e dobbiamo riconoscere che con Traiano ci riuscì benissimo.

Aveva assunto la porpora a 66 anni, e la tenne per due.

 

 

 

14. Traiano – dal 98 al 117. Era il comandante supremo degli eserciti di stanza in Germania, che erano - come dire? - la polpa delle forze imperiali. Era alto e robusto, di costumi spartani e d’un coraggio a tutta prova e senza esibizionismi; aveva la mente di un funzionario ed era un formidabile lavoratore. Nelle sue molteplici attività di comando l’una qualità moderava e sosteneva costantemente le altre. Fu un sovrano temperato e saggio che credette più alla buona amministrazione che alle grandi riforme, che escluse la violenza ma seppe ricorrere alla forza. Fu un conservatore illuminato, fortunato e magnifico, che molto si curò della sicurezza dello Stato e della salute dei cittadini. Soleva ripetere che da imperatore cercava di comportarsi come da privato avrebbe voluto che il suo imperatore con lui si comportasse.

Quando infatuatosi del grande Alessandro e volendone ripercorrerne le orme portò le insegne di Roma fin sulle soglie dell’oceano Indiano, l’Impero raggiunse la sua massima espansione. Le sue conquiste militari lo ampliarono fino alla Dacia, all’Arabia, all’Armenia e alla Mesopotamia, che vennero acquisite in successive campagne dal 101 al 117.

Assunse la porpora a 45 anni e la tenne per 19, fino alla morte che lo colse che ne aveva 64.

 

 

 

15. Adriano – dal 117 al 138. Per giusta antonomasia viene definito il più moderno degli imperatori romani, giacché seppe essere nella più giusta misura pacifista, progressista e cosmopolita, e miracolosamente riunì in sé le molteplici attitudini del soldato, del politico e dello studioso. Moderato e prudente, indietreggiò le armi romane sul vecchio limitare del fiume Eufrate ritenendo troppo lontane e difficilmente difendibili quelle regioni fino alle quali, per la sua infatuazione senile per le gesta del grande Alessandro, il suo predecessore s’era avventurato.

Nel contempo con molta lungimiranza avviò la romanizzazione delle marche di frontiera dell’immenso Impero, incentivando lungo le rive inferiori del Danubio il sorgere di quei molti insediamenti civili che col tempo avrebbero felicemente contaminato l’un con l’altro l’elemento romano e quello barbarico. Tuttavia non smise mai un’attenta vigilanza delle frontiere, e la famosa frase “si vis pacem para bellum”, che pienamente ne rispecchia il carattere pacifista ma non imbelle, la coniò lui.

Non ci fu provincia dell’Impero che non visitò e, marciando a piedi e a testa nuda sulle nevi della Caledonia come nelle afose pianure dell’alto Egitto, tutto volle vedere e di tutto volle rendersi personalmente conto. Ora rigoroso sofista, ora sospettoso tiranno, fu nel complesso un principe magnifico e assoluto che, senza umiliarla, avvilì la sclerotica istituzione senatoriale.

Una naturale inclinazione allo stoicismo, rafforzata dallo studio dei filosofi greci, ne temperò mirabilmente il carattere complesso e contraddittorio. Era mite senza essere arrendevole, era gentile e di buon umore con tutti, ma talvolta fu duro fino alla crudeltà.

In privato irrideva agli dei ma nelle funzioni pubbliche (il sovrano era anche pontefice massimo) erano guai per chi dava a far vedere un solo cenno d’irriverenza. Gli piaceva mangiare bene ma detestava i banchetti. Fu un minimalista molto intelligente ma non rinunciatario e per nulla indifferente alla sostanza del potere, del quale detestava solo le pacchianeria e le perdite di tempo. E l’asserita circostanza che talune volte per trarsi d’impaccio e liberarsi di qualche pericolo, si sia avvalso di certi metodi spicci confermerebbe secondo noi, piuttosto che negarla o diminuirla, la sua grandezza.

Amò le belle arti di sincero amore e innalzò in Roma e altrove edifici la cui originalità e bellezza sfidano il tempo (il Pantheon, la stupenda città di Tivoli, il Castel Sant’Angelo quale suo mausoleo, e altri ancora). Fu rigoroso nel mantenere le distinzioni sociali e il pubblico decoro.

Anche a lui, come al suo predecessore, va ascritto il merito d’essersi scelto un buon successore. Aveva assunto la porpora a 41 anni, e la tenne per 21.

 

 

 

16. Antonino Pio – dal 138 al 161. Invece, i viaggi più lunghi di Antonino Pio furono quelli che lo condussero dal suo palazzo di Roma al rifugio della sua villa di Lanuvio. E forse anche per questo gli storici inclinanti verso la conservazione lo chiamarono Pio, anche se sopra tutto lo fecero perché quest’Antonino santamente risollevò e onorò la casta senatoriale, e non scontentò mai nessuno, né mai mise a morte qualcuno.

Era proprio un bacchettone, anzi un gran bigotto. Ma per da un certo punto di vista era proprio quel che ci voleva, dopo quell’Adriano gran filosofo sì ma anche sovranazzo bizzarro e turbolento.

Il nuovo principe non ebbe mai nemici (o mai ne vide, come mai vide, o volle vedere, le abbondanti corna che la vivace moglie, comprensibilmente stanca d’un marito così noioso, prodigalmente gli piantava sulla fronte).

Era così onesto e bene intenzionato che appena gli dissero che era diventano imperatore versò la sua immensa fortuna privata nelle casse dello Stato. E alla sua morte il suo patrimonio personale era ancora ridotto a zero mentre quello dell’Impero era floridissimo.

Con lui, per la prima volta, i diritti e i doveri dei coniugi furono parificati, a conferma del fatto che i mariti son sempre gli ultimi a sapere delle corna che hanno in testa, la tortura quasi del tutto abolita e l’uccisione di uno schiavo proclamata delitto. In campo civile e militare temperò le più ardite innovazioni prese dal suo predecessore, fu sedentario al massimo e non volle arrischiare guerre neanche quando sarebbe stato necessario farne, tanto che durante il suo principato talune tribù del nord ripresero baldanza.

Aveva assunto la massima carica dello Stato a 52 anni e la tenne fino alla morte per vecchiaia che lo raggiunse che ne aveva 75. Morì sereno sul suo letto, a coerenza di come era vissuto e di come aveva fatto vivere nei suoi 23 anni il regno e l’Impero.

 

 

 

17. Marco Aurelio – dal 161 al 180. Intellettualmente portato alla riflessione, e misurato, ieratico e casto, probabilmente sarebbe divenuto un meritorio maestro dello stoicismo di matrice ellenistica se l’imperatore Adriano, intravistene a tempo le qualità intellettuali e morali, non lo avesse “raccomandato” ad Antonino e questi non gli avesse conferito il rango di Cesare (mentre il sacro titolo di Augusto veniva riservato al monarca, quello di Cesare perché quello di Cesare, che contemplava anche il diritto alla successione, veniva conferito alla seconda autorità dello stato).

E pensatore e filosofo lo rimase sempre.

Giusto e caritatevole col genere umano e indulgente con le imperfezioni degli altri, era severo con sé stesso e si adattò al comandare con stoica rassegnazione ed elevato senso del dovere. I tempi non erano più quelli felici di Traiano e di Adriano perché, incoraggiati dalla arrendevolezza di Antonino, longobardi, quadi, marcomanni, sarmati e persiani avevano rialzato la testa e portavano continue azioni di disturbo sugli insediamenti e sugli accampamenti di confine. Marco Aurelio, infaticabilmente sbattendosi da una parte all’altra dell’Impero, con una campagna di guerra lunga sei anni ripristinò ovunque l’ordine e l’onore di Roma.

Ascetico e malinconico, mite e fiducioso, assorto nel suo sacerdozio di ”primo servitore dello stato”, Marco Aurelio ebbe con la moglie Faustina dei seri problemi coniugali. Non se ne lamentò mai e quando ne rimase vedovo la deificò. La fedifraga era una delle figlie di Antonino Pio – l’asserzione, per quella che è il ruolo che nella congiunzione carnale attiene al padre - è da prendere col beneficio del dubbio - e così come la madre aveva fatto col suo, aveva piantato sulla sovrana testa del marito un numero impareggiabile di corna.

E non solo! Gli regalò anche, con un gladiatore che in quei tempi andava per la maggiore, quel Commodo che, quando gli succedette, purtroppo interruppe la bella sequenza di buoni sovrani che, da Nerva in , durava da più di ottant’anni.

Marco Aurelio a causa della longevità di Antonino assunse la porpora che aveva già 40 anni e la tenne fino alla morte che lo colse che ne aveva 59.

 

 

 

18. Lucio Vero – dal 161 al 169. Imperatore collega di Marco Aurelio, il quale sentendosi, per tutti gli scrupoli che aveva, inadatto a portare sulle spalle da solo il mondo intero, se l’era associato al trono. Costui gli andò dietro alquanto svogliatamente, sospirando ognora una vita più comoda. Tenne la porpora per otto anni, giacché a 39 anni un colpo apoplettico lo spense.

Rimasto solo, il paziente e infaticabile Marco si guardò bene dal ripetere l’esperimento e preferì fare tutto da solo. Le croci che il destino gli dava le portava pure bene, ma da qui ad andarsene a cercare di nuove...

 

 

 

19. Commodo – dal 180 al 192. Il principato ebbe il suo secolo d’oro quando gli imperatori si attennero alla norma di adottare i loro eredi scegliendoli tra i più meritevoli per le attitudini e la moderazione. Ma durò fino a quando il saggio Marco Aurelio con scarsa saggezza e poca lungimiranza incoronò il figlio Commodo che vantava i diritti del sangue (in vero neanche quelli, ma Marco Aurelio non lo sapeva), ma non quelli del merito, e fu da lì iniziò il declino.

Commodo era debole e ben presto divenne vizioso e corrotto; era l’antitesi di suo padre filosofo che traeva forza dall’enfasi stoica del dovere (“il più bel fiore del paganesimo che andava logorandosi” definisce il Wells Marco Aurelio), e rapidamente, quando, morto Marco Aurelio ne prese il posto (morte alla quale fu estraneo, anche se a molti piace far credere il contrario), concluse con i nemici, su tutti i fronti, delle paci così sconsiderate e frettolose che costoro sen ne stupirono.

Ma Commodo non era un codardo. Solo che gli unici combattimenti che prediligeva erano quelli gladiatorii (quando si dice il sangue...). E nell’anfiteatro, dove, temerario e feroce, scendeva lui stesso per misurarsi con altri gladiatori e con orsi, leoni, tigri e coccodrilli, raggiunse i vertici della fama e dell’infamia.

Lussurioso, megalomane, stravagante, sconsiderato, sanguinario, crudele, incapace di pietà e di rimorso nonché giocatore e bevitore accanito, non c’era giorno che al circo non tenesse degni spettacoli. Per questo il popolino delirava per lui come oggi delira per i divi degli stadi di calcio.

Invece a corte, impressionabile e sospettoso com’era, instaurò un clima di invivibilità totale giacché tutto dipendeva dai suoi balzani umori, anche se di fatto aveva ceduto l’amministrazione a pessimi ministri come l’ambizioso Perenne e l’avido Oleandro, disinteressandosene completamente.

Per Gibbon Commodo fu il primo imperatore romano ad essere “del tutto privo dei frutti dell’intelligenza”. Lo uccise, spinto dal timore più che dall’ambizione, e giovandosi di ampie complicità, Leto, il capo dei pretoriani.

Il dissoluto Commodo, che l’infedeltà di una sposa aveva innaturalmente congiunto al nome e alle vicende del più giusto e nobile degli imperatori, aveva tenuto la porpora per 12 anni, dopo averla assunta a 19.

 

 

 

20. Pertinace – nel 193. Il generale Publio Elvio Pertinace quando lo acclamarono Augusto se ne rammaricò apertamente. In effetti non aveva tutti i torti a voler restare sul comodo scranno di senatore, perché a voler governare sul serio c’era da farsi molti nemici, e in quel periodo anche i comandanti degli eserciti, che da un pezzo andavano dicendo di sentirsi trascurati, costituivano una pericolosa incognita.

Ma c’era anche che non se ne sentiva capace. Era pavido e meschino, calcolatore e falso e non ebbe mai né autorevolezza e né autorità. Dopo due mesi lo trovarono morto, ucciso dai pretoriani che ormai erano loro che facevano e disfacevano gli imperatori. Costoro dopo il delitto arrogantemente annunciarono che il trono di Roma era all’asta e che lo avrebbero dato a chi offriva più soldi.

Pertinace aveva assunto la porpora a 67 anni e l’aveva tenuta solo due mesi.

 

 

 

21. Didio Giulio – nel 193. Con 6250 dracme per ogni pretoriano Didio Giulio la spuntò su Sulpiciano. Era un banchiere miliardario e l’ingente cifra che sborsò se pareggiava la sua immensa ambizione non colmava tuttavia l’avidità dei miliziani. Aveva 60 anni ma da sovrano campò solo due mesi. Lo uccisero i pretoriani per il motivo che andremo a dire trattando di Settimio Severo.

 

 

22. Settimio Severo – dal 193 al 211. Quando Settimio Severo, un generale dislocato in provincia, seppe dell’asta corse a Roma e offrì ai pretoriani il doppio di quello che aveva offerto Didio. Costoro non si fecero pregare, inseguirono il malcapitato sovrano anche nella stanza del cesso dove si era precipitato per rincantucciarsi, gli tagliarono la testa e ancora calda la portarono al nuovo offerente, il quale senza fiatare pagò il pattuito.

Settimio Severo, che era un africano di origine ebrea, non era solo un gran generale, ma era un uomo che parlava poco e agiva molto, e in ogni situazione seppe benissimo come cavarsela. Altero e inflessibile, vinta che ebbe la partita per l’acquisizione del comando dell’Impero, mise a morte tutti gli oppositori: veri, falsi, presunti o potenziali che fossero e, considerando l’Impero una sua proprietà personale, trasformò il principato in una monarchia ereditaria di tipo militare. Cassio Dione ci dice che “esaltò la crudeltà, denigrò la clemenza, ed attaccò i senatori, la loro ipocrisia e la loro vita dissoluta e che il senato lo ripagò con la sua avversione”.

Non è altrimenti spiegabile la avversione che la maggior parte degli storici moderni ha di questo grande imperatore se non col fatto che costoro, gli storici moderni, più o meno inconsciamente ritengono che sarebbero stati senatori se fossero vissuti in epoca romana.

Sicuramente occorreva proprio un repulisti di questo genere per potersi allontanare da quella nefasta capitale con qualche possibilità di tornarvi, così come ci voleva il pugno di ferro per indigare la catastrofe che da tutti i lati incombeva.

Settimio Severo che non era uno stoico alla Marco Aurelio o un intellettuale alla Adriano fece onore al suo nome. Era un provinciale diritto e onesto, ma anche un cinico non abituato a farsi, nel disbrigo delle cose, eccessivi scrupoli.

Governò, quasi sempre guerreggiando, per sette anni, e quando si rivolse al Senato fu solo per impartirgli degli ordini. Combatté un seguito di guerre fortunate, non solo per difendere i confini, ma anche per tenere in costante all’erta le guarnigioni e i loro comandanti. Per lui l’esercito era la forza e la salute dell’Impero e di esso si curò più di ogni altra cosa. Istituì la leva obbligatoria esentandone solo gli italiani che riteneva dei rammolliti non più adatti a combattere.

Era probabilmente la verità, ma quest’atto costituì il precedente di una consuetudine che col tempo avrebbe reso l’Impero ostaggio dei generali germanici e danubiani. E al fine d’incentivarli, ai guerrieri barbari che s’arruolavano concedeva a fine carriera la cittadinanza romana.

Il grande Settimio Severo morì, che quasi stava ancora sulla sella del suo cavallo, nel corso d’una campagna in Britannia. Ebbe il tempo di pronunciare la frase “Sono diventato tutto quel che ho voluto e mi sono reso conto che non ne valeva la pena”.

Non facciamo fatica a riconoscere che lo scellerato Commodo ebbe a divertirsi ben più di lui. Ai figli Caracalla e Geta cui lasciava il trono, raccomandò di non lesinare quattrini ai soldati e d’infischiarsi di tutto il resto.

Aveva 57 anni e aveva tenuto lo scettro per 18 anni nei quali, eroicamente e senza clamore, aveva salvato tutto ciò che era possibile salvare.

 

 

 

 

23. Pescennio Nigro – dal 193 al 195. Nell’anno in cui Severo prendeva il potere, gli aristocratici, vagheggiando un impossibile ritorno a quella repubblica che consentiva ai più ricchi le migliori possibilità, spinsero quest’uomo ad autoproclamarsi imperatore. I senatori com’era logico lo sostennero, anche se temendo l’ira di Severo si guardarono bene dall’assumere una posizione chiara. In questa condizione di semi legittimità Pescennio Nigro, che nel 193 aveva 62 anni, durò quasi due anni.

Poiché non mise mai piede in Roma non disponiamo di altre notizie.

 

 

 

24. Clodio Albino – dal 195 al 197. Modesto generale, ambizioso e furbo piuttosto che intelligente, s’appoggiò anche lui al Senato (o il Senato, uscito di scena Pescennio Nigro, s’appoggiò a lui), in opposizione a Settimio Severo che invece s’appoggiava ai soldati. Quando le questioni di siffatto genere vanno a risolversi sui campi di battaglia chi ci perde sono sempre i dilettanti.

Questo usurpatore tanto baldanzoso quanto sprovveduto si proclamò imperatore che aveva all’incirca 40 anni. Alla battaglia fatale ne contava solo due in più.

 

 

 

25. Caracalla – dal 211 al 217. Fu un altro Commodo, né più e né meno. Con la sola differenza che quello era un goliarda assassino, mentre questi fu un assassino goliarda. Seccato di dover dividere, come avrebbe voluto il padre, il potere col fratello, sbrigativamente lo fece assassinare. Quindi condannò a morte 20 cittadini sospetti di parteggiare per lui.

Era un amorale che pensava solo a divertirsi e la sua licenza non conosceva freni. Delegò l’amministrazione della cosa pubblica a sua madre perché anche lui andava pazzo per gli spettacoli circensi e gli scontri con le fiere, e d’altro non voleva curarsi.

Un bel giorno che anche a lui gli venne l’ùzzolo di imitare le gesta di Alessandro Magno, reclutò una falange armata e vi si mise alla testa per correre verso il Gange. Sotto il sole cocente e in mezzo al deserto dell’Arabia i suoi ufficiali posero di brutto fine ai suoi deliri di magnitudine e alle loro sofferenze.

Era salito al trono all’età di 23 anni e vi era durato sei anni. Nel 212 concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero.

 

 

 

26. Geta – nel 211. Minore d’un anno di Caracalla, del quale probabilmente era migliore e col quale avrebbe dovuto dividere le fatiche del governare, fu dai sicari di quello subito assassinato giacché una convivenza in quei tempi non era possibile, e perché in questo genere di situazioni quasi sempre è il migliore (o il meno protervo) che soccombe. Aveva appena 22 anni.

 

 

 

 

27. Macrino – dal 217 al 218. Primo sovrano non proveniente dalla casta senatoriale, portò sempre con sé un acuto senso di inferiorità nei riguardi delle istituzioni d’élite. Per ingraziarsi i ceti aristocratici, cui era estraneo, si giocò il favore dell’esercito, per rimanere alla fine solo e inerme.

Assunse la porpora a 53 anni e la tenne per circa un anno, fino alla mortemanu militari” che gli fu data che ne aveva 54.

 

 

 

28. Eliogabalo – dal 218 al 222. Quegli ufficiali che sotto il sole d’Arabia s’erano liberati di Caracalla, lì stesso e su due piedi nominarono imperatore un ragazzo di 14 anni, tale Eliogabalo, che per essere nipote di Caracalla faceva parte della corte. Pensavano che la sua giovane età li avrebbe preservati almeno per qualche anno non solo dall’arbitrio e anche dall’autorità d’un vero sovrano. Ma non potevano scegliere di peggio.

Eliogabalo già a quell’età era un vizioso, uno smidollato, un sibarita, un esaltato, un pervertito, un pazzo. Nonché omosessuale scostumato e dichiarato. La nonna, che poi era la moglie del grande Settimio Severo e che come madre di Caracalla reggeva di fatto le redini del governo, inorridita, con un pragmatismo che il marito avrebbe certamente apprezzato, lo fece sopprimere insieme con la madre.

Ciò fatto fece nominare al suo posto un altro suo nipote, Alessandro Severo. Il vizioso e depravato Eliogabalo aveva tenuto la porpora (si fa per dire) per quattro anni, in un disgustoso crescendo di insanità morale e mentale.

 

 

 

29. Alessandro Severo – dal 222 al 235. Aveva anche lui 14 anni, ma di suo cugino Eliogabalo era l’esatto contrario. Ascetico, severo, ispirato, misurato e stoico, era del tutto refrattario a versare sangue, fosse anche quello dei nemici di Roma, i quali ne trassero l’impressione di una indecorosa debolezza.

Quando i legionari s’avvidero di stare perdendo, a causa di questo suo esasperato pacifismo, i grossi privilegi che si erano conquistati con Settimio Severo e con l’ultimo Caracalla, lo uccisero e gli uccisero, con tutto il seguito, quella sua nonna che aveva una rilevantissima parte nelle decisioni del giovane sovrano.

Eliminatili, gli ufficiali volendo andare sul sicuro acclamarono imperatore il generale comandante dell’esercito di Pannonia (l’attuale Ungheria, che per essere una zona altamente strategica era presidiata dai soldati e dai generali migliori), Giulio Massimino.

Alessandro Severo finì la sua esperienza mondana che aveva 27 anni, dopo 13 di regno. Con i sistemi di ricambio che si usavano allora, e tenendo conto del fatto che morì di morte violenta, non si può dire che sia durato poco.

 

 

 

30. Massimino I – dal 235 al 238. Fu il primo imperatore barbaro. Era un contadino Trace di indole selvaggia, brutale, incolto e fisicamente enorme, ed era anche un gran generale, valoroso e duro. Ma psicologicamente era fragile. Subì sempre il complesso d’inferiorità delle umili origini, anche per il fatto che non capiva il greco e parlava con fatica il latino. Così che nei tre anni di regno non mise mai piede né a Roma e neanche in Italia.

Per finanziare le guerre impose ai ricchi tante di quelle tasse che costoro gli aizzarono contro un certo Gordiano, proconsole d’Africa.

Il timore riverenziale verso i simulacri del potere capitolino rese Giulio Massimino sempre incerto e a volte anche inerte. Stupisce che un bestione siffatto avesse di queste remore. Il lettore consideri che al dito, a mo’ di anello, s’infilava il bracciale della moglie.

Peccato, avesse riservato ai senatori, che nel sostegno alle classi conservatrici e nella fronda ai prìncipi trovavano ormai le sole ragioni del loro perpetuo agitarsi, lo stesso trattamento che riservava ai sarmati e agli sciiti, Massimino avrebbe liberato il principato dal peggiore dei suoi nemici e magari sarebbe morto di vecchiaia.

Assunse la porpora che aveva 45 anni e la tenne per soli tre.

Morì ucciso da dei soldati che s’erano venduti ai senatori, nel momento che stava avendo la meglio su due usurpatori di ispirazione senatoria (Balbino e Pupieno).

 

 

 

31. Gordiano I – nel 238. I senatori, che volevano eliminare l’imperatore Massimino, spinsero, promettendogli la continuità sul trono, questo povero vecchio e suo figlio a contrapporglisi.

In sostanza per ragioni di tornaconto e di difesa dei loro privilegi quei reverendissimi padri eliminavano un generale onesto e valente come Massimino per sostituirlo con due uomini docili e inutili.

I Gordiano assunsero la porpora brunastra degli usurpatori che avevano 79 anni il padre e 46 il figlio.

Gordiano I morì suicida quando, perduta la battaglia risolutiva con Capellino, un sinistro generale di Massimiano, s’avvide che i suoi autorevoli mandanti, voltategli le spalle, cercavano altre comparse.

Dacché si era insediato erano trascorsi solo 22 giorni. Appena il tempo che Massimino armasse un paio di divisioni.

 

 

 

32. Gordiano II – nel 238. Mediocre e pigro, il giovane Gordiano era assolutamente inadatto agli alti comandi. Ombra del padre, durò anche lui 22 giorni.

Assunse la porpora che aveva 46 anni, fino alla morte che gli venne nel corso della stessa battaglia finita a disfatta.

 

 

 

33. Balbino – nel 238. E a Balbino e a Pupieno si rivolse, rapido e mai soddisfatto, il Senato quando vide che l’odiato Massimino aveva avuto facilmente ragione dei Gordiani. Massimino stava per avere ragione anche di questi due replicanti quando il Senato, ricorrendo a metodi più economici e più risolutivi, ingaggiò un sicario che glie lo uccise a tradimento.

Così Balbino, bellamente, senza sforzo e né merito e, forse, senza neppure volerlo, dovette acconciarsi ad interpretare la sua nuova parte, in un periodo nel quale i rapporti tra i senatori e i pretoriani, che nel frattempo si erano fatti più potenti e prepotenti delle S.A. di Rohm, per avidità personale e per interesse di casta, si facevano tra di loro e facevano ai principi una lotta mortale.

Balbino aveva assunto la porpora che aveva 70 anni e la tenne per 99 giorni, fino alla morte che, siccome era uomo espressione del Senato, gli diedero, com’era naturale che nel gioco delle parti avvenisse, i pretoriani, espressione del Palazzo.

 

 

 

34. Pupieno – nel 238. Diarca con Balbino, ne condivise la triste sorte. Sobrio e severo, tenebroso e cupo, aveva forse caratteristiche migliori del suo collega, del quale avrebbe fatto meglio a sbarazzarsi e correre da solo.

Assunse la porpora a 64 anni e la tenne anche lui, come quello, per 99 giorni.

 

 

 

35. Gordiano III – dal 238 al 244. Giovine gentile che quando fu ben guidato ebbe successo e quando fu mal guidato ebbe la morte.

L’avevano eletto i pretoriani dopo l’eliminazione degli Stanlio e Ollio di cui sopra. Indossò la porpora che aveva 13 anni e, tutelato dall’onesto Timesiteo, la tenne per sei. Lo uccisero i legionari, perché in quel rapido e tetro declinare dell’onore e della legge, anche i militari s’erano messi a concorrere in queste macabre giostre da palio.

E avendo anche loro gustato l’inebriante sapore dell’impunità non intendevano lasciare la scena.

 

 

 

36. Filippo I (Filippo l’Arabo) – dal 244 al 249. Era uno dei caporioni della congiura di cui sopra; un pericoloso criminale che, per ascendere al trono, dapprima si sbarazzò di Timesiteo e dopo, presone il posto, strangolò con le sue stesse mani il sovrano medesimo. Fece di tutto per durare, ma erano tempi pericolosi anche per i peggiori, nei quali, se nelle faccende interne ci si poteva aiutare col pugnale e col veleno, in quelle esterne ci volevano quelle capacità militari che una mezza figura abietta e torbida come lui non possedeva.

Morì in battaglia a 45 anni, dopo cinque anni di (insanguinato) trono.

 

 

 

37. Decio Traiano – dal 249 al 251. Era un probo senatore che mai, stranamente, si era mostrato avverso o sleale coi sovrani in carica e forse fu per questo che i legionari gli offrirono la porpora che era stata di Filippo. In effetti, data la pericolosità dei tempi, egli nutriva qualche comprensibile riluttanza a lasciare la sinecura senatoriale; tuttavia pur se con qualche onesta titubanza alla fine si risolse. I tempi stavano diventando veramente difficili perché il fanatismo dei cristiani minava le fondamenta dell’Impero, mentre la sfrontatezza dei barbari ne minacciava le mura. Decio, cauto e determinato, s’appellò ad una sorta di patriottismo di Stato col quale, con durezza e con un forte impegno morale, cercò di contrastare il catastrofismo generale e di arginare le difficoltà.

Ascese alle preoccupazioni di governo e al comando supremo degli eserciti all’età di 59 anni, e li tenne per due.

Fu un sovrano e un generale di grande valore, energico in guerra e generoso in pace e lo si ricorda con onore anche per essere stato il primo imperatore a morire ucciso da un nemico straniero (il che, tutto considerato, era da preferire alla grama sorte che era toccata a tanti dei suoi predecessori).

Gli fu fatale lo disastroso scontro di Forum Tenebronii con i goti di Chiva, il quale, dopo la clamorosa vittoria, si prese l’ardire nominare, lui barbaro, straniero e nemico di Roma, nella persona di Prisco che ignominiosamente accettò, il nuovo imperatore.  

 

 

 

38. Ostiliano – nel 251. Il Senato il titolo, per un giusto riguardo alla memoria di Decio, lo conferì a Ostiliano, che del defunto imperatore era il figlio e l’Augustus minor, anche se, per quella perniciosa e mai spenta vocazione alla collegialità, rango pari e pari poteri concesse a Treboniano Gallo.

Treboniano riconobbe al giovane Ostiliano sia il rango che le prerogative, e anzi glie ne diede delle ulteriori, non parendogli vero d’aver trovato un utile idiota di così bella qualità che si dannasse l’anima per lui, e andasse a rattoppar falle qua e la, mentre lui, Imperator maximus, se ne stava tutti i giorni a Palazzo a gozzovigliare tra mimi, nani e ballerine.

Come suo padre Decio, Ostiliano era un buon soldato e un onest’uomo. A mio parere pero non depone a suo favore il fatto che abbia consentito a Treboniano, il suo “par” tale sperequazione e sopratutto che gli abbia permesso di sopravvivergli.

Il buon Ostiliano morì di peste, come quel galantuomo di Tito; fu il primo imperatore, dopo 40 anni, a morire di morte naturale.

 

 

 

39. Treboniano Gallo – dal 251 al 253. Il miope, ottuso e avido Gallo occupandosi solo dei suoi personali trastulli e del quieto vivere, aveva rimesso come abbiamo visto alle fatiche del povero Ostiliano i pericoli alle frontiere e la spregiudicata invadenza dei barbari. E quando, pochi mesi dopo, Ostiliano gli morì, l’imbelle Treboniano con l’oro, con molto oro, più e più volte, si comprò la loro non belligeranza.

Com’era inevitabile, questa politica di arrendevolezza anziché acquietarli, imbaldanzì i barbari; così tanto che ritennero di potere unire all’oro della mercede i frutti della razzia e della violenza.

Per cui, ad un certo punto le legioni dovettero per muoversi, ma i soldati non volendo essere guidati da un fellone di tal specie (che essi forse immotivatamente ritenevano responsabile della morte di Ostiliano) sprezzantemente gli lacerarono il mantello reale, gli strapparono le insegne della sovranità e lo scacciarono dal campo. L’indegno era pervenuto alla massima magistratura dell’Impero a 45 anni per durarvi solo due miserabili anni.

 

 

 

40. Volusiano – 251 al 253. Figlio di Treboniano Gallo. Quando il padre fu eletto imperatore lui fu nominato Cesare e quindi Augusto minore.

Divise col padre gli agi del potere anziché, come sarebbe stato più giusto, con Ostiliano le fatiche del campo e delle marce.

Per cui fu col padre giustamente ucciso.

 

 

 

41. Emiliano – nel 253. Ritornati all’antica spada, Emiliano, governatore e comandante militare (i due aspetti in quel tempo coincidevano) della Pannonia e della Mesia, radunate le forze disperse e risollevato lo spirito delle truppe, subitamente attaccò, sorprese e mise in rotta i barbari,  inseguendoli fin al di là del Danubio. E sconfisse e mise in rotta anche Treboniano Gallo giacché l’inetto con alcuni fedelissimi e un esercito raccogliticcio andava cercando sui suoi ex soldati e sul nuovo generale una personale rivincita.

Emiliano condusse le due operazioni con una brillantezza e una rapidità tali che i soldati lo acclamarono imperatore sul campo.

Nella prolusione che tenne al Senato per la ratifica della nomina, Emiliano assicurò tutti che con la fedeltà e il valore dei suoi soldati avrebbe liberato l’Impero di tutti i barbari, fossero essi del nord o dell'Oriente.

Emiliano che non era un facilone era persuaso che debellare i barbari fosse più facile che eliminare la corruzione che permeava l’intera società; e della corruzione e del decadimento della pubblica morale se ne preoccupava così tanto che volle conferire ad un magistrato di sua fiducia (un uomo giusto e severo che poi sarebbe diventato l’imperatore Valeriano) il ruolo di pubblico censore, conferendogli i più ampi poteri.

Aveva visto giusto: era più facile sconfiggere i goti che sradicare i vizi pubblici e privati, per cui presto si trovò senza un partito che lo sostenesse.

E così presto finì che gli stessi uomini che lo avevano elevato al trono e quelli che lo avevano applaudito non esitarono, onde eliminare l’incomodo, a macchiarsi del sangue di un principe che appena quattro mesi prima era stato oggetto della loro parzialità. Durò 88 giorni, aveva solo 46 anni.

 

 

 

42. Valeriano – dal 253 al 260. E’ difficile capire perché quelli che avevano eliminato Emiliano abbiano scelto a succedergli proprio chi del defunto imperatore aveva condiviso la preoccupazione più grande. Né comprendiamo perché Valeriano, che sapeva quanto Emiliano avesse sacrificato la vita a questa pia illusione, abbia accettato.

Sapeva che non c’era giorno che i senatori non tessessero segrete fronde, sapeva che gli eserciti erano governabili solo col pugno di ferro, sapeva che la parzialità dei pretoriani era irriducibile, sapeva che i romani, quando il rancore teologico dei cristiani non li rendeva ostili, rimanevano corrivi e indifferenti.

Cosa poteva fare un povero imperatore, e per giunta onesto? Valeriano era bene intenzionato e anche abbastanza motivato, ma francamente riteniamo pressoché miracoloso che in quella situazione sia riuscito a durare sette anni.

Come Marco Aurelio, al quale per probità e misura in qualche modo somigliava, si rese conto della necessità di dividere le fatiche del governare con un’altra persona, per cui si associò al trono il figlio Gallieno.

Ma la debolezza di padre, e forse l’ambizione della moglie Egnatia Mariniana, purtroppo in quella occasione prevalsero sulla rinomata sua attitudine di censore, giacché Gallieno, così come Commodo prima di lui, era un depravato.

L’imperatore Valeriano nel corso di una campagna militare lungo l’Eufrate cadde prigioniero dal re persiano Sapore. Ostentando una crudeltà pari allo smisurato orgoglio, Sapore, non curandosi né del rango dell’augusto prigioniero né della maestà di Roma, con ostentato scherno espose il povero Valeriano, svestito della porpora imperiale ma con addosso delle vistose catene, allo sciovinismo dei suoi sudditi inebriati e furenti, quale esempio perenne di grandezza perduta e quale segnale della sua sfida alla potenza di Roma.

E ogni volta che saliva a cavallo – ci narra Gibbon col suo stile lugubre e solenne - il monarca persiano metteva il piede sul collo di un imperatore romano”.

Lo sventurato Valeriano languì fino alla morte in una prigionia senza speranza. 

 

 

 

43. Gallieno – dal 253 al 268. Gallieno era un maestro nelle scienze strane e inutili: era un oratore facondo e un poeta raffinato, un abile giardiniere, un ottimo cuoco, ma fu uno spregevolissimo principe. Era fatuo, stravagante, indolente, realmente incapace di comprendere la gravità delle cose.

Fu indifferente alle rovine che i goti, scendendo dalla Scandinavia all’Ucraina e poi risalendo per l’Eusino, la Propontide, l’Ellesponto l’Egeo la Grecia e l’Illiria, portarono fin quasi alle porte dell’Italia, né lo preoccupò il fatto che in ogni provincia dell’Impero scaturissero frotte di usurpatori (ben 19 nel suo tempo) e che, soprattutto, tutti lo sopravanzano per credito e valore.

Erano per lo più luogotenenti di Valeriano, il suo gran padre, che a buon diritto ritenevano che la eliminazione di quel principe ignavo e traditore dovesse venire giudicata più che un gesto di empietà come un atto di patriottismo nei confronti dello Stato.

Gallieno morì a 40 anni, per mano di un suo ufficiale.

 

 

 

44. Postumo – Questo Postumo fu attivo durante il principato di Gallieno ed è passato ai libri di storia per avere usurpato al suo sovrano le provincie di Spagna, Gallia e Britannia (cioè l’intera prefettura della Gallia) che luogoteneva, e delle quali, assecondando istanze separatiste che andavano lì affermandosi, si proclamò sovrano in indipendenza da quello centrale.

Alla sua morte, avvenuta otto anni dopo, lo scisma rientrò naturalmente. Stupirebbe la lunghezza dello iato se non avessimo conosciuto l’indolenza e l’inettitudine di Gallieno; con un imperatore come Settimio Severo lo scisma sarebbe rientrato in due mesi, il tempo di muovere le legioni.

 

 

 

45. Claudio II (Il Gotico) – dal 268 al 270. Era stato lui ad assassinare Gallieno, e per premio gli succedette.

Durò solo due anni, dai 54 ai 56 anni, quando morì di peste. Aveva dimostrato di possedere doti politiche e militari non comuni.

 

 

 

46. Quintilio – nel 270. L’Impero era allo sfascio in quegli anni caotici. Le Gallie secedevano, non c’era un sovrano che non avesse uno o più concorrenti, e quando maggiore era la debolezza dei primi maggiore risultava il numero dei secondi. Questo Quintilio doveva essere un tipo assai compassionevole e ingenuo se è vero che, quando scoprì d’averne uno anche lui, non resse all’idea e s’ammazzò. Durò 2 mesi.

Di più non ne meritava, perché se possiamo capire che chi colpito da malattia incurabile possa giungere a un certo momento a por fine ai suoi giorni, non ci riesce di comprendere perché debba farlo anche chi può trovare la salvezza nell’esercizio del potere di cui gode. 

 

 

 

47. Aureliano – dal 270 al 275. Ma forse Quintilio una ragione d’aprirsi le vene la vide nel fatto che l’uomo che gli correva contro era un soggetto in vero straordinario, il migliore dell’intero terzo secolo. Questi era l’illirico Domizio Aureliano, figlio d’un contadino.

Indossata la porpora, subito, a mezzo di ripetute vittorie che conseguì rincorrendo i suoi nemici in tutte le contrade dell’Impero, ripristinò il prestigio delle aquile legionarie e l’avito timore di Roma. E a Roma e nel corpo dell’Impero pose in essere con risolutezza provvedimenti efficacissimi.

Uno di questi, in vero il meno fortunato, merita di venire raccontato perché determinò una costumanza che sarebbe rimasta a lungo nelle pratiche di potere. Risultandogli evidente che il cristianesimo,  in ragione del suo fanatismo di matrice giudaica costituiva un corpo estraneo allo stato, e che la sua sistematica ostilità ai sovrani inculcava nella gente scetticismo e rassegnazione, quando non ostilità, l’infaticabile Aureliano pensò di debellarlo.

A tale scopo pensò a una nuova religione che non predicasse come il cristianesimo cose buone per l’altro mondo e dannose per questo, ma che, secondo la nuova moda, fosse monoteista. E con un senso pratico sicuramente superiore alla fantasia proclamò unico dio il sole, perché (e in effetti non gli si può dare torto) è dal sole che ai viventi discendono il bene, la forza e la salute. E ad un non meglio identificato dio sole fece innalzare sontuosissimi templi. Dopo di che solennemente e seriosamente dichiarò queste fandonie religione la sola religione dello stato (nel passato presso i Babilonesi e gli Egizi il disco del sole era stato divinizzato, ma in Europa era la prima volta che una qualsiasi forma di monoteismo assurgeva al rango di religione di stato), e proclamò se stesso e i suoi successori gli unici rappresentanti di quel Dio. Confidava che la nuova credenza ridestasse nelle persone quella fiducia nel sovrano e quella fedeltà nello stato che avrebbero potuto dare una sferzata alle coscienze.

La cosa più memorabile è che da questa sua iniziativa derivò quel suffisso “sovrano per grazia di Dio” che per ben 15 secoli, fino alla rivoluzione francese, tutti i regnanti avrebbero applicato a sé stessi e che – ancora peggio - per quasi duemila anni sarebbe servito alla chiesa cattolica per abbarbicarsi attorno ai loro troni.

Non se lo godette molto a lungo, il povero Aureliano, il suo sole, perché i vescovi immediatamente lo scomunicarono e i senatori lo dichiararono decaduto. E il popolino, aizzato dai preti, lo accoppò facendone scempio.

Questo valido e originale personaggio visse la sua ribalta dal 56° al 61° anno di età.

“Gioca coi fanti ma lascia stare i santi” gli avremmo consigliato, se ci fosse capitato di incontrarlo. 

 

 

 

48. Tacito – dal 275 al 276. Il Senato, proclamato decaduto Aureliano, diede il suo posto a costui, che essendo 75/enne e non avendo nulla da perdere, accettò. E difatti sopravvisse soli sei mesi, riuscendogli – forse solo per questo - di morire sul suo letto.

Anche se discendeva dal grande storico, nulla ci ha tramandato.

 

 

 

49. Floriano – nel 276. Fratello minore di Tacito, pretese di succedergli ma i soldati, sul punto d’affrontare a sua difesa l’usurpatore Probo, cambiarono idea, lo uccisero e gli preferirono il rivale.

 

 

 

50. Marco Aurelio Probo – dal 276 al 282. Probo di nome e di fatto, era uno dei migliori generali del grande Valeriano, ma era purtroppo anche un inguaribile sognatore. Vinte quattro o cinque battaglie contro i vandali e gli alemanni, ingenuamente credette d’aver vinto tutte le guerre e che una nuova età dell’oro fosse vicina, per cui fece scendere i soldati dai cavalli e bucolicamente gli mise la zappa in mano. Ma i soldati, che trovavano molto più redditizie le razzie, non ci stettero e lo accopparono.

E’ troppo basso il terreno, e la schiena, a star chinati a lungo, duole assai.

Era divenuto imperatore a 44 anni e vi era durato per sei.

Una sana e costante cattiveria più che un diritto spesso è un dovere.

 

 

 

51. Caro – dal 282 al 283. Ogni mattina che s’alzava dal letto avrebbe dovuto pregare il suo dio che lo guardasse dagli amici, ché dai nemici lui sapeva guardarsi abbastanza. Prevalse molte volte sui Persiani e su tutti i nemici esterni, per finire, poveraccio,  trucidato nel sonno dal consuocero.

Durò 15 mesi e fu un imperatore tutt’altro che cattivo.

 

 

 

 

 

52. Carino – dal 283 al 285. Non godette di una buona reputazione e probabilmente non senza una ragione, se alla seconda battaglia che pure stavano vincendo i suoi generali lo fecero fuori.

Era un inetto e uno sregolato e durò all’incirca un anno.

 

 

 

53. Numeriano – dal 283 al 284. Uomo mite e poeta, fu issato sul trono da quella canaglia del suocero che per governare per il suo tramite gli aveva ucciso il padre (cioè Caro).

I poeti, si sa, tengono la testa nelle nuvole e raramente s’avvedono dei pericoli.

Così undici mesi dopo avvenne che Apro (era questo il nome di quel farabutto), deluso dello scarso entusiasmo che il giovane ci metteva nell’assecondare i suoi criminosi disegni, uccise anche lui.

Il grande Diocleziano, che sopravveniva, estirpò la malapianta.

 

 

 

54. Diocleziano – dal 284 al 305. Indro Montanelli - sempre alquanto schizzinoso quando ha da giudicare qualcuno – lo ha definito “l’ultimo vero imperatore romano” e Gibbon di lui ha scritto “che il regno di Diocleziano fu più illustre di quello di ogni suo predecessore come la sua nascita fu la più umile e oscura”.

Diocleziano era nato da genitori che erano stati schiavi nella casa di un senatore romano, e che nutrisse fortissime ambizioni lo si vide da come avesse brigato, assolta la leva e ritornato a Roma, per ottenere la carica di prefetto del pretorio, avendo compreso quale grande ruolo costoro avessero non tanto nel fare gli imperatori quanto nel disfarli. E quando a 35 anni divenne sovrano capì che se voleva restare vivo e governare liberamente doveva allontanarsi al più presto e il più possibile da quel covo di vipere che erano Roma e il pretorio.

Se ne allontanò così tanto che, adducendo l’inoppugnabile ragione che da lì potevano difendersi meglio le frontiere orientali, perennemente minacciate dai Persiani, trasferì la capitale dell’Impero a Nicomedia sulla Propontide (così si chiamava allora il mar di Marmara).

Mentre a curare le vicende occidentali lasciò Massimiano, il migliore dei suoi generali, il quale come sede si scelse Milano, che rispetto a Roma offriva il vantaggio di essere più vicina ai confini settentrionali e assai meno turbolenta.

A sé stesso e al collega, Massimiano conferì il rango di Augusto, cioè di sovrano. Augustus, letteralmente “colui che aggiunge”, era l’appellativo che si dava alla massima autorità dello stato, mentre il titolo d’onore di “Imperator”, letteralmente “allargatore dell’Impero” era appannaggio del o dei comandanti supremi degli eserciti, cioè dei Cesari (i successori designati).

In principio i titoli di Augusto e di Cesare (cioè di sovrano e di generale comandante degli eserciti) collimavano, ma nel prosieguo, avendo perso gli Augusti sovrani la voglia e l’attitudine a combattere, si scissero. Fu così che nacque la “tetrarchia”, la quale pel modo com’era congegnata doveva risolvere in maniera quasi indolore l’annoso problema delle successioni: divenuti Augusti, i due Cesari ne avrebbero scelti altri due, e così via.

Diocleziano e Massimiano erano non soltanto conterranei e commilitoni ma anche amici d’una vecchia e solida amicizia. Massimiano era figlio di contadini ed era rozzo e incolto nei modi di fare e nel pensare; incurante delle leggi, eccelleva solo nel combattere dove era imbattibile. Insensibile alla pietà e senza timore alcuno delle conseguenze, Massimiano fu scaltramente usato dall’astuto e prudente Diocleziano per il compimento di quelle azioni sporche e deplorevoli delle quali l’amico benefattore non voleva sporcarsi o caricarsi, a dimostrazione del fatto che la forza bruta può trionfare sulla ragione ma mai può avere ragione della scaltrezza.

E così avvenne che di quella felice diarchia Massimiano fu il braccio e Diocleziano la mente, per formare insieme, male assortiti com’erano, o proprio perché lo erano (c’è da lusingarsi del fatto che mai una volta il truculento Massimiano abbia disconosciuto l’ascendente e la supremazia intellettuale del collega), formarono una coppia perfettamente funzionale.

Associatosi al trono Massimiano, Diocleziano volle nominare i due Cesari, stabilendo che a vent’anni esatti da allora, lui stesso e Massimiano ad essi avrebbero consegnato i loro troni.

I prescelti furono, per la parte orientale dell’Impero, Galerio che pose la sua residenza a Mitrovizza in Illiria, e, per quella occidentale, Costanzo Cloro il quale invece si stabilì a Treviri in Germania. Per celebrare il patto e dargli l’auspicata durevolezza Diocleziano volle che i due Cesari sposassero uno sua figlia e l’altro la figlia di Massimiano. In questo modo per la prima volta si costituì quel complesso sistema di interrelazioni e di reggenze collegate che fu chiamato “tetrarchia” e che tra sussulti e sbandamenti di vario genere accompagnerà l’agonia dell’Impero.

Ma per fortuna allora il vero sovrano, il capo effettivo, era Diocleziano (con un po’ di arditezza e fatta salva qualche lieve differenza potremmo dire che Diocleziano era una sorta di Cavour e Massimiano un tipo alla Garibaldi), e quella provvida testa avviò su tutto l’Impero una serie di riforme di stampo così assolutistico che nulla avrebbero invidiato ai famigerati piani quinquennali del suo collega Stalin.

Diocleziano volle il pieno controllo dei mezzi di produzione e dei prezzi, la moneta fu vincolata ad un tasso d’oro che rimase invariato per oltre mille anni, i contadini vennero fissati al suolo e divennero servi della gleba e gli operai e gli artigiani vennero ingabbiati in organizzazioni corporative dalle quali non potevano uscire.

Questa sorta di soviettizzazione dell’economia, che ingabbiò quell’Impero dissanguato ed esausto in una sorta di busto d’acciaio e che generò una burocrazia occhiuta e onnipotente, in quella particolare situazione si rivelò proficua. L’economia si risollevò e con ciò rinacque la fiducia, si ricostituì un po’ d’ordine e Massimiano con i due Cesari (nel mentre che Diocleziano s’occupava di politica e d’amministrazione) se ne giovò per riportare le insegne romane in Britannia e in Persia.

Diocleziano a livello organizzativo si occupò anche delle questioni militari, e lo fece da par suo, escogitando delle innovazioni originali e di grandissima importanza.

Divise le legioni in mobili e stanziali, destinando nelle prime le ultime leve, i soldati più forti e fisicamente più idonei a combattere. Soldati che poi, mano a mano, col passare degli anni, venivano trasferiti nelle stanziali. Con questo sistema le forze di movimento guadagnarono in snellezza e sveltezza, e con quelle definite stanziali (che comunque costituivano un organismo di difesa di prim’ordine) munì il così detto “limes”, e romanizzando il territorio favorì il sorgere nella sua parte meridionale di città dove romani e barbari si contaminarono, si sposarono, avviarono commerci, intrapresero insieme.

In campo religioso Diocleziano s’applicò d’estirpare la mala pianta del cristianesimo, che voracemente e pericolosamente cresceva, sostenendo la riforma pagana voluta da Aureliano. Inevitabilmente Diocleziano (cui, come abbiamo detto, neanche lo stesso Massimiano poté mai negare il rango di “primus inter pares”) finì per illustrare la sovranità che rappresentava col culto di sé stesso, anche se – occorre dargliene atto – non perse mai il senso della misura.

Nell’anno 304 volle celebrare la memorabile ricorrenza dei vent’anni di regno, la forza delle riforme, il successo delle armi e la salute dell’Impero, con la gran pompa di una volta.

E a Roma, tutti insieme, il fasto, la gloria e la fortuna ressero il trionfo a lui che incedeva solenne, a Massimiano che con deferenza gli camminava al fianco, ai due Cesari che li seguivano indietro di due passi. Mentre in Africa, nella Britannia, lungo il Reno, il Danubio e il Nilo e ai confini con la Persia la pax romana regnava concorde.

Agli occhi dei posteri questo trionfo, che in quanto a fasto richiama quello degli Scipioni, ha acquistato un significato particolare per una ragione purtroppo non gloriosa: fu l’ultimo a cui Roma assistette.

Diocleziano interiormente era un uomo di spirito, pieno di equilibrio e di senno, queste cose le faceva per necessità, conscio di quanto gli uomini siano più sensibili alle esteriorità del potere che al potere stesso. E per lui il potere era stato più un mezzo che un fine.

Difatti nel corso del 21/mo anno, ancora 55/enne, come aveva promesso di fare quando accingevasi all’immane compito di riformare uno stato malato, rimise spontaneamente le insegne del comando e si ritirò nella natia Dalmazia dove trascorse i suoi ultimi 9 anni di vita facendo il contadino.

Gibbon ne fa il panegirico accostandolo a Carlo V non tanto perché anche quello al culmine della potenza sul mondo volle spontaneamente abbandonare le lusinghe della gloria e ogni preoccupazione di governo, ma quanto perché tra i due imperatori c’è una straordinaria somiglianza di carattere “essendo in ambedue le capacità politiche superiori al genio militare e le virtù il risultato della volontà ben più che della natura”.

 

 

 

55. Massimiano – dal 286 al 305 quale imperatore associato a Diocleziano e dal 307 al 308 da solo. Era ottuso e brutale quanto Diocleziano era intelligente e pieno d’idee, ma non dobbiamo dimenticare che nelle opere d’armi e nel comando degli eserciti fu eccellente non meno di quanto Diocleziano lo fu nella trattazione degli affari e nell’amministrazione, e in tutte le legioni dell’Impero non c’era un soldato che non stravedesse per lui.

Un soldato col temperamento, la forza e i gagliardi appetiti di Massimiano non poteva piegarsi a lungo a quella inattività cui il freddo Diocleziano lo aveva sadicamente costretto. Per cui alla morte di Costanzo (al quale 15 mesi prima lui stesso aveva lasciato lo scettro e il trono) il vecchio leone, in collera con Galerio perché questi per la sua successione aveva preferito Severo a suo figlio Massenzio, fece risentire al mondo il suo ruggito. E anche in quelle situazioni che certamente erano meno chiare e più pericolose delle precedenti, non fosse altro perché si stava combattendo una guerra civile, Massimiano, tranne che su Costantino, prevalse di nuovo su tutti.

Non possiamo dilungarci a narrare l’evoluzione dei rapporti tra il vecchio leone e l’astro nascente; essi conobbero più fasi e ce ne fu anche una nella quale trovarono un felice accordo (fu dopo l’uscita di scena dell’infelice Severo, quando Massimiano rivelando una insolita ma opportuna prudenza offrì allo scalpitante Costantino e lo scettro che era stato di Severo e una delle sue figlie). Però un accomodamento durevole era impensabile; l’orgoglio del primo e l’ambizione del secondo non lo consentivano.

Quando non molto tempo dopo la situazione si deteriorò, la parola ritornò alle armi e l’orgoglioso e indomito vecchio fu sconfitto, Costantino – bontà sua - un po’ per un fatto di rispetto e un po’ per il fatto che quello era sempre suo suocero gli diede il privilegio di scegliersi la morte che preferiva.

Secondo il costume degli antichi padri Massimiano avrebbe dovuto tagliarsi le vene, invece, orgogliosamente, in coerenza col suo temperamento titanico, si strangolò con le sue stesse mani.

Così purtroppo Massimiano concluse, all’età di 68 anni, la sua vicenda politico-militare.

Ci sia consentito di dire che se, ipoteticamente, Massimiano e Diocleziano si fossero potuti fondere insieme per farne un soggetto solo, probabilmente sarebbe venuto fuori un nuovo Giulio Cesare.

 

 

 

56. Carausio – dal 286/287 al 293. Il solito generalaccio barbaro (dei mari, questo) che ad un certo punto se la pensò e si autoproclamò imperatore. Usurpatore non riconosciuto, dovette limitarsi ad esercitare la sua potestà tra le due sponde della brumosa Manica. Non era un inetto, ma, quando su quelle sue acque dove la faceva da padrone, Massimiano gli diede scacco, i suoi stessi uomini lo uccisero.

Il suo palcoscenico era stata la Britannia, per una recita solitaria durata sei anni.

 

 

 

57. Costanzo I – dal 305 al 306. (Costanzo Cloro, Cloro per pallore del viso). Era il Cesare di Massimiano e uno dei tetrarchi dell’Impero costruito da Diocleziano. Anche se di indole mite e amabile, si mostrò sempre coraggioso, attivo e pieno di risorse. Militarmente s’era portato molto bene presidiando con autorevolezza i territori a destra del Reno che le più eterogenee orde di barbari con suicida e omicida ostinazione di continuo assalivano. Secondo la volontà espressa da Diocleziano e condivisa da Massimiano, al tempo stabilito Costanzo divenne Augusto sovrano dell’impero d’occidente (e l’altezzoso e severo Galerio dell’altra).

Sceso di cavallo e salito sul trono, Costanzo continuò a mostrare l’equilibrio e il coraggio di sempre, e anzi, in più; poté giovarsi dei consigli e dell’aiuto del figlio Costantino, il quale già nella giovinezza mostrava gli inequivocabili segni della sua forte inclinazione al potere.

Un’improvvisa morte, dovuta probabilmente a cause naturali, gli evitò lo scontro col collega Galerio che stava attivamente brigando per riunire sotto di sé le due parti dell’Impero.

Come sovrano Costanzo fu meno fortunato che come Cesare, giacché si spense in Britannia solo quindici mesi dopo avere ricevuto il titolo di Augusto e 14 anni dopo che aveva ricevuto da Diocleziano quello di Cesare.

 

 

 

58. Galerio – dal 305 al 311. L’equilibrio di potere istituito da Diocleziano durò finché fu sostenuto dalla mano ferma e abile del fondatore. La quale mano, giova ripeterlo, era stata assai felice anche nella scelta dei due Cesari, giacché anche Galerio, pur se caratterialmente diverso da Costanzo, possedeva delle eccellenti qualità. E se quel gran riformatore poté applicarsi a quella sua monumentale riorganizzazione dello stato e degli apparati e portarla a compimento, fu anche perché questo suo Cesare con infaticabile opera, con le sue ragguardevoli capacità e con la sua spada gli aveva tolto ogni preoccupazione di natura campestre.

Galerio era molto severo, molto altezzoso e molto ambizioso, e coltivava saldo nella mente il progetto di riunificare le due parti dell’impero. Per cui quando assunse i pieni poteri pretese di assumere nei rapporti con l’altro sovrano quel ruolo di primus che Diocleziano aveva esercitato su Massimiano.

E uno dei suoi primi atti in questa direzione fu che pretese di scegliere non solo il suo ma anche l’altro Cesare. Quale suo Cesare preferì tale Massimino Daia che era un suo giovane nipote, cui affidò il governo della Siria e dell’Egitto, terre i cui abitanti, indolenti ed effeminati i primi, torvi e feroci i secondi, non si amalgamavano con i costumi e la lingua di Roma. E per il Cesare di Costanzo tale Severo, un suo devotissimo, cui affidò la luogotenenza dell’Africa e dell’Italia. Per sé tenne la parte migliore, e cioè quell’intera fascia di terre ad est dell’Italia e ad ovest della Siria che costituiva quasi i tre quarti dell’Impero.

La cosa principale era che Galerio, essendo Massimino Daia e Severo “suoi” e Costanzo Cloro quasi per morire, di fatto comandava su tutto. Gli equilibri di potere sono sempre instabili quando le reciproche deterrenze tendono a modificarsi, a meno che, come avvenne con Diocleziano e Massimiano, non si tratti di equilibri apparenti e una delle parti abbia in un modo o in un altro abbia prevalso sull’altra.

Orfano di Diocleziano, il potere cercava in Galerio un’altra mano forte, e Galerio che sapeva di avere le qualità che aveva non si fece pregare. Alla morte di Costanzo, che sopravvenuta da lì a poco era valsa ad evitare una guerra civile, egli puntualmente devolse al docile e modesto Severo i territori che erano stati di Costanzo, anche se a malincuore dovette accettare l’auto-nomina a Cesare di quel Costantino figlio di Costanzo ed astro nascente nel panorama politico e militare del tempo, delle cui ambizioni e della fretta di realizzare i suoi cospicui disegni già più volte abbiamo accennato.

Fu un grande imperatore, Galerio; forte e duro proprio come lo si doveva essere in quei tempi e in quelle situazioni. In campo militare aveva forza e determinazione sufficienti per smorzare, così come smorzò, qualsiasi voglia di insubordinazione; ci sfuggono tuttavia le ragioni perché non abbia stroncato sul nascere la arrogante e palesemente minacciosa pretesa di Costantino di succedere al padre. In campo amministrativo, sociale e religioso continuò con un pugno se possibile ancora più duro di quello di Diocleziano l’imponente opera da questi avviata.

Purtroppo durò solo sei anni, perché – così abbiamo letto da qualche parte – “il Dio dei cristiani per punirlo delle persecuzioni gli fece venire un cancro all’intestino”.

“Così che” – ma questa è roba nostra – “la cancrena che dal di dentro metastatizzava l’Impero potesse continuare a compiere più liberamente la sua opera di distruzione”.

Signori, s’accingeva a prendere la scena il Grande Costantino, colui che di quel Dio sarebbe stato il vessillifero e il primo legittimatore.

 

 

 

59. Severo II – dal 306 al 307. Severo era in Occidente il Quisling di Galerio. A prescindere dalle sue (poche) qualità, la sua nomina non piacque al collerico Massimiano che la reclamava per suo figlio Massenzio. Per cui questo Massenzio,  che allora si trovava a Roma, ritenne di poter trarre profitto della guerra che i pretoriani e i senatori, in combutta tra di loro, portavano ai tetrarchi pel fatto del trasferimento della capitale a Milano e a Nicomedia.

Era il 307 e nel rumore delle amate spade l’irruente e irrequieto Massimiano trovò il pretesto che cercava per abbandonare quello stato di inattività cui, due anni prima, si era di controvoglia piegato.

Ma quando Severo mosse l’esercito i suoi veterani, che per anni avevano servito con Massimiano, si rifiutarono di marciare contro il loro vecchio comandante, gli si rivoltarono e lo uccisero. E spiccatagliela dal busto devotamente gli portarono la sua testa.

Durò appena un anno, il modesto e ingenuo Severo in un ruolo troppo più grande di lui.

 

 

 

60. Massenzio – dal 306 al 312. Era inevitabile che Costantino e Massenzio prima o poi si scontrassero. Ed era inevitabile che nello scontro, che ebbero nei pressi del ponte Milvio, il crudele, rapace, effeminato, pusillanime e depravato Massenzio soccombesse. L’agiografia cattolica pretende che Costantino abbia vinto per avere fatto dipingere sugli scudi dei suoi soldati una grande croce e aver fatto scrivere sugli stendardi la frase “In hoc signo vinces”. Si tratta di vere e proprie corbellerie. Costantino vinse perché era il più capace, il più intelligente e il più pronto. L’avventura di Massenzio, un uomo incapace di governare tanto in pace quanto in guerra, durò sei anni solo grazie all’aiuto del grande Massimiano, se no sarebbe durata sei mesi.

Aveva 27 anni quando fu proclamato Augusto e 33 quando lo uccisero.

 

 

 

61. Costantino I il Grande – Imperatore associato dal 306 al 323, unico dal 323 al 357. Era nato nella Mesia superiore (più o meno la parte settentrionale della Bulgaria) ed era figlio (illegittimo) di Costanzo Cloro.

Alto e maestoso, Costantino era abile in tutto quel che faceva; intrepido in guerra e affabile in pace. In tutta la sua condotta lo spirito attivo della gioventù era temperato da una abituale circospezione, e sebbene la sua mente fosse tutta presa dall’ambizione appariva freddo e insensibile alle attrattive del piacere” (Ammiano Marcellino).

E per godere della prosa lutulenta di Gibbon e delineare al meglio il carattere e le attitudini di Costantino, riportiamo un brano della sua opera “Declino e caduta dell’impero romano”. “La morte di Costanzo fu seguita immediatamente dall’ascesa al trono di Costantino. Le idee di eredità e di successione sono tanto familiari che la maggior parte degli uomini le considera radicate non solo nella ragione ma nella natura stessa. L’immaginazione umana trasferisce prontamente gli stessi principi della proprietà privata alla sfera pubblica, e ogni qualvolta un padre virtuoso lascia dietro di sé un figlio i cui meriti sembrano giustificare la stima e le speranze del popolo, si fa sentire con forza irresistibile l’influenza congiunta del pregiudizio e dell’affetto. Il fior fiore degli eserciti occidentali aveva seguito Costanzo in Britannia, e le truppe nazionali furono rinforzate da una schiera numerosa di alemanni che obbedivano agli ordini di Croco, uno dei loro capi ereditari. La convinzione della propria importanza e la certezza che la Britannia, la Gallia e la Spagna avrebbero accettato la loro designazione furono diligentemente inculcate alle legioni dai sostenitori di Costantino. Ai soldati fu chiesto se avrebbero potuto esitare un solo istante tra l’onore di porre alla loro testa il degno figlio del loro amato imperatore e l’ignominia di attendere supinamente l’arrivo di qualche ignoto straniero, al quale il sovrano dell’Asia avrebbe potuto compiacersi di offrire gli eserciti e le province dell’Impero d’occidente. Si lasciò comprendere anche che tra le virtù di Costantino la gratitudine e la generosità avevano un posto di rilievo, e quel principe astuto non si mostrò alle truppe finché queste non furono pronte a salutarlo con il nome di Augusto e di Imperatore. Il trono era l’oggetto dei suoi desideri; era, quando pure non fosse stato mosso dall’ambizione, la sua unica ancora di salvezza. Conosceva benissimo il carattere e le opinioni di Galerio e sapeva che, se voleva vivere, doveva decidere di regnare. La doverosa, perfino ostinata resistenza di cui Costantino diede prova era intesa a giustificare la sua usurpazione, e egli non cedette alle acclamazioni dell’esercito finché non ebbe il materiale necessario per una lettera che inviò immediatamente all’imperatore d’Oriente. Lo informava del triste evento della morte del padre, rivendicava con modestia il proprio diritto naturale alla successione e lamentava rispettosamente che l’affettuosa violenza delle sue truppe non gli avesse permesso di sollecitare la porpora imperiale in modo regolare e costituzionale. Le prime reazioni di Galerio furono di sorpresa, di delusione e d’ira, e poiché gli riusciva difficile frenare le sue passioni, minacciò ad alta voce di dare alle fiamme tanto la lettera quanto il messaggero. Ma a poco a poco il suo rancore si placò, e quando ricordò le alterne vicende della guerra, quando ebbe soppesato il carattere e la forza del suo avversario, acconsentì a accettare l’accomodamento onorevole che la prudenza di Costantino gli aveva lasciato aperto. Senza condannare o ratificare la scelta dell’esercito britannico, accettò il figlio del defunto imperatore come sovrano delle province transalpine, ma gli diede soltanto il titolo di Cesare e il quarto rango tra i principi romani, mentre conferì il posto vacante di Augusto al proprio favorito Severo. L’apparente armonia dell’Impero veniva così preservata, e Costantino che già possedeva la sostanza del potere supremo, attese senza impazienza l’occasione buona per conseguirne gli onori”.

Qui arrivati dobbiamo necessariamente sorvolare su alcune intricate e nel caso specifico non molto significative vicende (l’esarchia e il suo progressivo ridursi) al fine di giungere alla fase del regolamento di conti con Massenzio.

Incoraggiato dai senatori, lo scontro, stupidamente, arrogantemente, lo cercò Massenzio, e Costantino che deliberava con prudenza e mai si faceva cogliere di sorpresa, agì con prontezza e vigore. L’avanzata di Costantino contro Massenzio che si era acquartierato a Roma fu rapida e inesorabile. Tra la resa di Verona e la vittoria finale non passarono più di 58 giorni. Lo scontro avvenne in una pianura a poche miglia dalla capitale che da allora (per il molto sangue che ne colorò le pietre e i terreni) prese il nome di “Saxa rubra” (oggi vi sorge la sede della Rai), dove i combattenti galli di Costantino, più temprati e abituati a combattere, ebbero ragione degli indisciplinati italiani di Massenzio, che l’indole, il gran numero, le possenti e pesanti armature e un comandante borioso e risibile condussero ad una cruenta sconfitta. Massenzio scampò alla strage ma non all’ira dei romani che, acciuffatolo sul ponte Milvio da dove cercava di riparare nella città, lo uccisero e ne gettarono il cadavere nel Tevere.

Uscitone vittorioso, Costantino fu subito riconosciuto dai pavidi senatori, i quali sotto sotto avevano brigato per Massenzio quale Augusto anziano (anziano nel senso di primo), mentre dietro richiesta dello stesso Costantino il rango immediatamente inferiore venne conferito a Licinio che, pur se con fatica, nel frattempo era prevalso su Massimino.

A Licinio Costantino assegnò la parte occidentale dell’impero, la meno ricca, la più turbolenta e come pegno del patto gli diede in sposa sua sorella Costanza.

L’accordo non durò molto, perché Licinio detestava il cognato ritenendolo un pallone gonfiato, e più d’una volta, prima subdolamente e poi, via via, sempre più apertamente, brigò per creargli dei problemi.

Uno di questi consistette nel fatto che per fare un dispetto al cognato che s’era fatto paladino della nuova religione sostenne quel paganesimo di Aureliano e di Diocleziano che se pure non attecchiva costituiva sempre un buon collante per coloro che detestavano il fanatismo dei cristiani e i loro paladini.

Poi, in un inarrestabile crescendo, si mise a sobillare di fronda quel Bassiano (un uomo di notevoli ricchezze cui Costantino aveva dato in sposa un’altra sua sorella) fomentandone il malcontento per via d’una nomina che non gli arrivava.

Il vigile Costantino che non aspettava altro, prima sistemò l'infido Bassiano buttandolo a marcire nel fondo di una segreta, dopo di che marciò contro Licinio.

Per dirla con Gibbondue cruentissimi scontri diedero a Costantino più diritto ma non più forza e a Licinio forse un po’ di moderazione ma non la distruzione”.

Fatto sta che fu sancito un armistizio che tolse a Licinio il possesso della Pannonia, della Dalmazia, della Macedonia, della Dacia e della Grecia, che si congiunsero ai domini di Costantino, cosicché egli ora dominava l’Europa dalla Caledonia all’estremo limite del Peloponneso.

L’impari pace durò 8 anni, nei quali i due contendenti si prepararono per quell’ultimo scontro che nelle intenzioni di ciascuno doveva lasciare il rivale sul terreno e il vincente padrone di tutto.

Attaccò Licinio, al quale l’acquisita prudenza non aveva tolto l’antico rancore, con un poderosissimo esercito di 150 mila fanti e 15 mila cavalieri e una flotta di 350 triremi. Costantino disponeva di poco più di 100 mila uomini e di una modesta flottiglia. Ma i suoi soldati sovrintendendo alle martoriate frontiere renane e danubiane avevano una costante abitudine ai combattimenti, mentre, regnando in quegli anni con i Persiani una lunga quanto inconsueta pace, quelli di Licinio avevano disimparato a combattere.

Lo scontro, di terra, avvenne a Adrianopoli dove Costantino e i suoi soldati fecero strage dell’esercito del rivale, che riparò a Bisanzio, e poi, quando anche Bisanzio si arrese, in Bitinia. Dove l’inesauribile Licinio, uomo dalle infinite risorse, sempre sconfitto e mai domo, tenacemente convinto di dover vivere da unico padrone del mondo o di morire e perdere tutto (“aut Caesar aut nihil”) in breve tempo riuscì ad armare un nuovo esercito di 60 mila uomini.

Ancora sconfitto riparò a Nicomedia, in Cappadocia, per preparare un’ennesima resistenza. A questo punto la povera Costanza con molto senso pratico intercedette presso il fratello, facendosi garante del fatto che il marito avrebbe deposto la porpora e per sempre ogni ambizione. Licinio, nonostante quel bel “aut Caesar aut nihil” che storicamente gli è sopravvissuto, sollecitò il perdono delle sue colpe, depose sé stesso e la sua porpora ai piedi del suo signore e padrone, e dinanzi a lui chinò il capo.

Costantino con ingiuriosa pietà lo sollevò da terra, lo ammise alla tavola imperiale e subito dopo lo fece rinchiudere in una fortezza di Tessalonica, dove poco dopo, tradendo la promessa che aveva fatto alla sorella, gli mandò il boia.

Così, con un gratuito delitto e nel nome di Cristo misericordioso, il grande Costantino riunificò l’impero che di romano ormai aveva solo il nome, rimanendovi l’unico padrone per quasi trent’anni, al culmine di una carriera dove l’abilità, l’astuzia, il valore e la prudenza, mescolandosi tra di loro nel modo migliore, avevano dato sempre il risultato giusto.

Sulla tanto strombazzata sua predilezione per il cattolicesimo si sono scritte, per malafede e convenienza, enormi sciocchezze. L’unica bussola di Costantino fu il calcolo e l’unica sua guida l’intelligenza. Egli scelse nell’ambito del cristianesimo il cattolicesimo solo perché i vescovi cattolici stavano sconfiggendo, con la politica e con la forza, l’ariana e tutte le altre eresie.

Il merito di Costantino consistette nell’avere intuito che, se si voleva avere un poco di pace sociale, quella nuova religione, così “ebraica”, così ostile, bisognava metabolizzarla.

Così fece, guadagnandosi quel titolo di Grande col quale è passato alla storia. Non convince questo giudizio così assoluto e perentorio, non convince perché gli è venuto da quella chiesa cattolica che dal suo arbitrio ha ottenuto più di quel che meritasse e le spettasse. 

Costantino a partire dal 315-316 cristianizzò le leggi dell’impero secondo la visione cattolica; nel 318 riconobbe ufficialmente la giurisdizione episcopale; nel 321 autorizzò le chiese a ricevere eredità; nel 320 consacrò la festività domenicale, fino ad allora celebrata come giorno del sole, al dio dei cattolici; Dal 331 fece dono alla chiesa cattolica di grosse tenute, la così detta “donazione di Costantino” (vedi del prosieguo la citazione da Dante Alighieri) che è la solidissima radice della frondosa pianta della ricchezza della chiesa cattolica), nonché di edifici sparsi lungo tutto l’impero, ordinò la costruzione di decine di lussuose chiese la cui costruzione fu finanziata col pubblico. Nel 340 i vescovi assunsero incarichi statali.

Come riferisce Karlheinz Deschner, “nei processi la testimonianza di un vescovo aveva più valore di quella dei “cittadini illustri”, ed era incontestabile; inoltre ai vescovi fu affidata la giurisdizione nei processi civili. Qualsiasi litigio poteva essere risolto dal vescovado, che avrebbe emesso una decisione “santa e venerabile”.

Insomma quando morì, Costantino aveva consegnato, a papa Silvestro e ai suoi successori, il potere temporale su Roma, sull’Italia e sull’occidente.

Nefasto avvenimento del quale ancora oggi piangiamo le conseguenze e che Dante condanna nel XIX canto dell’Inferno con questi versi: “Ahi, Costantin di quanto mal fu madre non la tua conversione ma quella dota che da te prese il primo ricco parte”.

Di converso prodighi di lodi e di benemerenze sono stati e continuano ad essere nei suoi riguardi i santi vescovi e i cardinali della chiesa di Roma. Non paghi d’averlo fatto “grande” nonostante che frequentasse le pratiche pagane, che sia stato crudele e sanguinario, che abbia massacrato intere popolazioni, che abbia goduto di giochi circensi durante i quali fiere e orsi affamati sbranavano centinaia di nemici (non sto scandalizzandomene, lo facevano tutti; mi scandalizza che non se scandalizzino loro!), che abbia sgozzato il figlio, strangolato sua moglie e assassinati il suocero e il cognato, gli han fatto, come se tutto questo non bastasse, gli han fatto santa, dico santa, la troia che lo generò.

Parlo di quella Elena canonizzata in “santa Elena” che era una pagana che aveva lavorato come ostessa (stabularia) in una taverna dei balcani, che aveva vissuto more uxorio con Costanzo Cloro per poi convivere in situazione di bigamia quando Costanzo sposò l’imperatrice Teodora; l’aristocrazia romana conosceva Costantino come “figlio della concubina” e lo stesso sant’Ambrogio scrisse che “Gesù Cristo nella sua infinita misericordia aveva elevato santa Elena dal fango al trono”.  

La medesima capacità di calcolo Costantino la usò nel difficile rapporto con i barbari germani, che istituzionalizzò facendone il (forte) nerbo degli eserciti imperiali e portandoli a difendere Roma anziché ad attaccarla. Si guadagnò alcuni anni di pace, ma consegnò, legato anche stavolta nelle mani e nei piedi, l’impero ai germani.

Noi pensiamo che queste sue due decisioni abbiano segnato, nel cuore dell'impero romano d’occidente, il trionfo della barbarie e della religione.

L’unico merito che siamo disposti a riconoscergli è quello d’avere fatto costruire su 7 colli da cui domina le sponde dell’Europa e dell’Asia quella splendidissima capitale che è Istanbul che dal suo nome chiamò Costantinopoli, dove trasferì la capitale dell’mpero.

Costantino il Grande ascese al trono all’età di 21 anni e dominò la scena, prima da co-imperatore e poi da padrone unico, per 51 lunghi anni, esempio massimo di longevità.

Secondo Gibbonnel lungo e incontrastato meriggio del suo regno [Costantino] parve degenerare in un monarca crudele ma dissoluto i cui vizi contrastanti e pur conciliabili della rapacità e della prodigalità contribuirono a provocare la segreta ma universale decadenza dell’Impero”.

La solennità delle parole del grande storico e la gravità del senso sono suffragate dai numerosi delitti di congiunti del sangue dei quali egli senza motivo e senza alcuna utilità si macchiò (oltre a un Licinio ormai inerme, Costantino fece uccidere Crispo, il migliore e il più valoroso dei suoi figli, dei cui successi era geloso, la moglie Fausta e il giovane nipote, sol perché era figlio di Licinio).

E sono suffragate dal fatto che per darne una ad ognuno dei suoi figli divise l’Impero in cinque fette. E dal fatto, atto estremo di quell’opportunismo che ne aveva permeato la politica, che prima di morire si fece battezzare.

 

 

 

62. Licinio – dal 308 al 324. Freddamente crudele e smodatamente ambizioso, s’ingegnò sempre, prima in dipendenza a Galerio e poi pel soddisfo d’una sua viscerale antipatia che il tempo non fece che accrescere, a contrapporsi a Costantino, che pure gli aveva concesso la sovranità sulla parte occidentale dell’Impero e gli aveva dato una sua sorella.

Più grande (d’età) di lui, non ne sopportava la potenza, la prepotenza e la supponenza, e l’odio lo accecò così tanto da fargli ritenere ogni volta, e nonostante le tante sconfitte, di poterne disporre.

Lo combatté con così tanta suicida ostinazione che, per liberarsene, Costantino dovette ricorrere ad un disonorevolissimo delitto.

Licinio ascese al trono che aveva 58 anni e vi durò 16 tormentatissimi anni.

 

 

 

63. Massimino II – dal 310 al 313. Rozzo, crudele, collerico, invidioso, sfortunato (che, come sosteneva il generale Bonaparte, negli uomini d’arme è sempre il difetto più grave), sceglieva sempre il partito peggiore e le posizioni meno vantaggiose. Fu generale di Diocleziano e Cesare di Galerio e poi, per tre anni, Augusto “esarca”. Tenne, più male che bene, la scena per 16 anni, dai 58 ai 74 anni. Una ingloriosa e atroce morte lo colse quando, per sottrarsi a Licinio che gli aveva distrutto l’esercito e lo inseguiva, si ritirò dietro la catena del Tauro dove cadde ammalato della calura di agosto e morì.

 

 

 

64. Valente (Valeriano Valente) – Nel 316. Non ha meritato, poveraccio, neanche quell’ordinario, modesto, primo che valga a distinguerlo da quello sciaguratissimo suo omonimo che fu attivo tra il 364 e il 378. Era un buon comandante di soldati, dux limitis nella regione danubiana, e l’imperatore Licinio, che nella sua diuturna, inarrestabile, drammatica, interminabile lotta all’odiato Costantino aveva bisogno di uno come lui, lo legò a sé conferendogli il rango di Augustus minor.

Ma 30 giorni dopo quella cooptazione il grande Costantino, vincitore sul campo di battaglia, poco cavallerescamente ne chiese a Licinio la eliminazione.

Mors tua, vita mea”, avrà pensato Licinio, altrettanto poco cavallerescamente acconsentendo.

Ancora non sapeva, l’infelice, quale mostro sanguinario il grande Costantino fosse.       

 

 

 

65. MartinianoNel 324. Non dissimile di quella di Valente fu la sorte di questo Martiniano. Perché, come a Valente, molto gli nocque lo stare nella parte avversa a Costantino. Perché questo Costantino era uno che a differenza del suo Dio non perdonava mai niente a nessuno.

Sconfitto per la seconda volta, perduto il povero Valente, Licinio leccatesi metà delle ferite e convintosi che fosse ora di sguainare di nuovo la spada, quale nuovo Augustus minor pensò a questo Martiniano che conosceva bene e del quale si fidava perché era stato suo “magister officiorun”, cioè gran ciambellano o capo di gabinetto.

- “Ribaldo, cosa hai da dire a tua discolpa?

- “Niente, mio signore. Andiamo con chi ci paga; a maggior ragione io, che il mio mi dava mezzo trono. E poi come potevo immaginarmelo che quel gran bastardo di Costantino sarebbe diventato così importante nei libri di storia?”.

- “Rinnegato da Dio, non potevi non saperlo! Non potevate non accorgervi, tu e Valente il minore, dell’aureola di luce che a quel santissimo figlio di puttana gli brillava sopra il testone. Per cui siete condannati, entrambi, a non apparire sui libri di storia scritti ad majoram gloriam Dei”.

Cercò di resistergli Martiniano, ma come Licinio fu costretto ad arrendersi.

Fu chiuso in una segreta in Cappadocia, dove, poco dopo, inerme, Costantino lo fece scannare.   

 

 

 

66. Costanzo II – dal 336 al 371. Il grande Costantino in un attimo, col suo scelleratissimo testamento, disfece il capolavoro che con tanto accanimento aveva costruito, condannando con lo stesso atto i suoi figli ad uccidersi fra di loro.

Il più risoluto di essi era Costanzo che, per non stare con le mani in mano e magari per sgombrare un po’ il campo, prima che la festa iniziasse fece scannare i due più piccoli, giacché contrariamente a quel che pensava il padre l’Impero non gli sembrava abbastanza grande per tutti e cinque.

Fatti fuori i due più piccoli, Costanzo si prese tutta la parte orientale dell’impero compresa la Tracia che pur confinando ad oriente con lo stretto dei Dardanelli veniva considerata zona occidentale, sistemandosi a Costantinopoli; a Costante che era il più piccolo egli assegnò l’Africa, i Balcani e l’Italia che era il solito covo di vipere e che nessuno voleva. E a Costantino II diede quella che era chiamata la prefettura delle Gallie, cioè la Spagna, la Gallia e la Britannia.

E se aspettava che i due fratelli venissero alle mani perché uno dei due subito dopo togliesse il disturbo non dovette aspettare molto.

Difatti nel giro di tre anni Costantino II e Costante regolarono i loro conti, con scorno del primo che ci rimise la pelle, e pieno profitto del secondo che poté annettersene i domini, così che con possedimenti che comprendevano quasi tutta l’Europa e il nord Africa divenne potente quasi quanto il fratello.

Era quindi solo una questione di tempo e sarebbe certamente venuto il momento che Costanzo e Costante se la sarebbero dovuta vedere direttamente tra di loro.

Ma così non avvenne, perché Costanzo oltre che essere astuto e sbrigativo era anche un tipo fortunato, perché capitò che un bel giorno in Gallia il fratello cadde vittima di un’imboscata tesagli da un suo ufficiale barbaro (Magnezio), così che anche Costante uscì di scena.

Fu così che Costanzo II, che del grande Costantino era il terzogenito, eliminato col pretesto che gli aveva ucciso il caro fratello anche Magnezio restò l’incontrastato protagonista sulla scena.

Solitario, pessimista, sospettoso, incapace di indulgenza, senza slanci, senza calore umano, malinconico e taciturno, senza vizi né abbandoni, Costanzo II tenne di sé sempre un concetto altissimo che illustrò con freddo e crudele distacco. Sulla “vexata quaestio” della natura del Cristo, divergendo dalle posizioni che erano state di suo padre, appoggiò l’arianesimo e questa sua presa di posizione, dato il fondamentale ruolo egli che ricopriva, avrebbe potuto incidere seriamente sulla storia a venire.

Ma un banale incidente lo tolse di mezzo quando stava marciando alla testa di un poderoso esercito per lavare l’onta che un suo generale (Giuliano, Giuliano l’Apostata), levandosi da sé al rango più alto, gli aveva proditoriamente inferto.

Aveva 44 anni e aveva tenuto il regno per 24. Sono persuaso che un personaggio così tetro e sospettoso a William Shakespeare sarebbe molto piaciuto.

 

 

 

67. Costante I – dal 336 al 350. Era il quarto figlio di Costantino, quello cui erano toccati i Balcani, l’Italia e l’Africa.

Depravato, dissoluto, avido, avaro, “spremeva i sudditi con le tasse, li irritava con le sue testardaggini e li scandalizzava con i suoi costumi” (Ammiano Marcellino); cattolico ortodosso e, per sua personale disgrazia, anche sprezzante dei soldati. I quali naturalmente non glie la perdonarono (cfr. Magnezio).

Ristette sulla scena dai 17 ai 30 anni.

 

 

 

68. Costantino II – dal 337 al 340. Era, come si è detto, uno dei tre figli superstiti di Costantino, quello cui toccò il versante atlantico del continente. Fu, nel furioso contendere che i tre fratelli ingaggiarono il primo a perire.

Costantino II – citiamo ancora il capolavoro di Gibbon - guidò contro il fratello Costante una banda tumultuosa adatta alla rapina più che alla conquista, e riuscì soltanto a subire una sconfitta e a trovare la morte”.

Era collerico e irriflessivo, non poteva durare a lungo. Entrò in scena a 20 anni e ne uscì per sempre all’età di 23.

 

 

 

69. Magnezio – dal 350 al 353. Barbaro, generale di Costante. Cavalcò il malcontento dei soldati per il loro scostumato sovrano e per la dinastia dei Costantinidi. Eliminato Costante si autoproclamò sovrano secessionista della parte occidentale dell’impero.

Costanzo, che di avversari e di usurpatori non voleva sentire parlare neanche per scherzo, gli mosse prontamente guerra. Sconfitto, per scampare alla sorte che il diritto e la norma riservano agli usurpatori, Magnezio che era nato in Britannia ed era stato un buon generale nonché un volenteroso sovrano si uccise.

Apparve sulla scena che aveva 47 anni e ne uscì che a 50; Forse avrebbe meritato più fortuna.

 

 

 

70. Napotiano (o Nepoziano) – nel 350. Figlio di Entropia, sorellastra di Costantino, e quindi nipote del Grande (da qui il nome).

Proclamato, per le mene di questa, Augusto (350), represse sanguinosamente la rivolta dei seguaci dell’usurpatore Magnesio. Ma pochi giorni dopo, vivo sempre nei loro cuori l’odio per i Costantinidi, venne ucciso da dei soldati sopravvissuti.

 

 

 

71. Costanzo Gallo – nel 351. Costanzo II non aveva avuto figli da nessuna delle tre mogli e ai suoi fratelli non aveva dato il tempo di farne. Per cui dalla vasta progenie di Costantino, e da quel bagno di sangue, emergevano, abbastanza lontani, solo due ragazzi, Gallo di dieci anni e Giuliano di sei.

Il primo che Costanzo proiettò sulla scena, nominandolo Cesare d’oriente, fu il maggiore, Gallo.

Paranoico, impulsivo, dalla intelligenza opaca e dall’indole aspra e solitaria, l’ebbrezza del potere e l’altezza del compito lo persuasero che nel comandare pagassero solo la forza, i delitti e i massacri, sicché nel giro di pochi anni scannò non solo singoli uomini ma intere popolazioni.

Costanzo, temendo che la sua ottusa sanguinarietà potesse sollevargli contro se non la popolazione l’esercito (e delle due eventualità questa era certamente la peggiore), con delle prove false di cospirazione e di tradimento inscenò un processo farsa e lo fece decapitare.

Gallo morì all'età di ventinove anni; aveva regnato come Caesar d'oriente per quattro.

Al gran burattinaio non rimase quindi che Giuliano, il più piccolo.

 

 

 

71. Giuliano II (conosciuto come Giuliano l’Apostata) – dal 361 al 363. Scoccò pertanto l’ora di Giuliano, il quale di Gallo era l’esatto contrario. Quanto quello era ottuso, smidollato e violento, così Giuliano era cauto, intelligente e determinato. Era molto giovane e non aveva alcuna esperienza di eserciti e di governi, ma osservando e partecipando, in poco tempo seppe farsene di utilissime. Era stato da poco nominato Cesare che Costanzo, che ne aveva intuito le qualità e voleva saggiarne l’affidabilità, gli conferì l’impegnativo incarico di stornare dai territori imperiali i franchi e gli alamanni che in sempre maggiore numero e con crescente tracotanza attraversavano il Reno. Giuliano li annientò, soffocò la ribellione dei residenti, ristabilendo ovunque, anche nella lontana Britannia, l’autorità imperiale e l’ordine.

Costanzo, che era tetro e sospettoso quanto si vuole non era stupido s’avvide subito che quel ragazzo aveva qualità e temperamento da vendere e considerò che a lasciargli troppa corda c’era il rischio che gli facesse quel che lui aveva fatto ai suoi fratelli, per cui, col pretesto che gli servivano più truppe per contrastare i persiani e considerando – gli mandò a dire - che con le sue brillanti vittorie aveva pacificato quei territori, gli trasferisse 4 intere legioni (dei celti, dei petulanti, dei batavi e degli eruli) e i 300 giovani più valorosi di ognuno dei rimanenti reparti, e che tutti costoro si portassero al più presto al confine con la Persia.

Nella buona sostanza lo disarmava.

Giuliano lì per lì non seppe come decidersi; sapeva che la richiesta dello zio era formalmente ineccepibile ma capiva anche che a capo d’un esercito fantomatico avrebbe finito la sua vita o da prigioniero nel campo dei barbari o da accusato nel palazzo di Costanzo.

Una autentica sollevazione popolare provvide a scongiurare le due eventualità; tutti i soldati, gli esodanti e quelli che rimanevano, al grido ritmicamente scandito di “Giuliano Augusto!”, con turbolente acclamazioni e con minacciosa sollecitudine lo acclamarono imperatore. Il povero Giuliano che aveva alti i sentimenti di prudenza e di lealtà, e aveva chiara anche la cognizione che quella dello zio era una speciosa congiura ordita per danneggiarlo, ponderate bene le cose ritenne più agevole cedere alla violenza dei soldati anziché abbandonarsi alla protezione del suo sovrano. Per cui, deciso a mantenere la carica che aveva assunto e nello stesso tempo desideroso di evitare all’Impero le calamità di una guerra civile, inviò a Costanzo, anche per proteggere la propria reputazione dall’accusa di perfidia e di ingratitudine, un’epistola nobile e moderata, che firmò col modesto appellativo di Cesare, ma con la quale gli sollecitava in maniera rispettosa e perentoria la conferma del titolo di Augusto, rivendicando in pratica che quell’autorità che da tempo esercitava nelle province della Spagna, della Gallia e della Britannia venisse chiamata col nome giusto.

Costanzo minacciato dal solito Sapore lì per lì abbozzò, ma si guardò bene dall’approvare la condotta di Giuliano e di ratificare il nuovo stato. Come se volesse concedergli una chance di salvezza gli rispose che s’accontentava che il presuntuoso ragazzo facesse espressa rinuncia al nome e al rango di Augusto conferitogli dai ribelli, che riprendesse la sua precedente carica di ministro limitato e dipendente, che lasciasse i poteri dello stato e dell’esercito nelle mani di quegli ufficiali che venivano nominati dalla corte imperiale, e che fiducioso affidasse la sua incolumità alla benevolenza del suo sovrano.

Giuliano riunì le truppe e lesse alla moltitudine l’altezzosa risposta di Costanzo, dopo di che con la più lusinghiera deferenza si disse pronto, se i soldati lo avessero voluto, a rinunciare al titolo di Augusto. La sua debole proposta fu messa impetuosamente a tacere e le acclamazioni di “Giuliano Augusto!” rimbombarono tra il cielo e la terra. Lo scontro armato non era più evitabile.

Nascondendo il tormento della propria anima sotto la maschera del disprezzo, Costanzo si dichiarò risoluto a tornare in Europa e a colpire Giuliano (non parlò mai di quella spedizione militare se non nei termini di una partita di caccia), ma per quell’imponderabile che governa il destino degli uomini, durante la marcia di avvicinamento al rivale improvvisamente morì, risparmiando con una morte tempestiva e in effetti alquanto prematura (aveva solo 44 anni) a Giuliano la crudele alternativa, che egli pateticamente lamentava, di distruggere o di venire distrutto, e all’impero romano la calamità di una guerra civile.

All’apertura del testamento qualcuno si stupì nel vedere che l’iroso Costanzo aveva designato suo unico erede proprio quel Giuliano che andava a combattere.

Non pensiamo che al mutare delle cose Costanzo non avesse avuto il tempo di cambiare nel testamento il nome del beneficiario, piuttosto, riteniamo, stimandone il carattere e l’intelligenza, che non l’abbia fatto perché stimava quel suo ribelle nipote come l’unico effettivamente degno di succedergli.

Giuliano intelligentemente stette al gioco, negò che col sovrano ci fossero stati dei dissapori, negò che stessero per affrontarsi una guerra fratricida, e piangendo sulla bara calde lacrime gli tributò solennissime esequie.

Fu una bellissima commedia che sanciva in maniera spettacolare e giusta il passaggio del testimone tra Costanzo II che grande lo era stato e Giuliano che grande lo stava diventando. Così Giuliano, che era di piccola statura, di maniere schive, che vestiva con molta semplicità e nei pasti era frugale e vegetariano, a 32 anni acquistava l’indiscusso possesso dell’impero.

In tale compiti disprezzò gli onori, rinunciò ai piaceri e assolse con incessante diligenza i doveri della sua elevata carica. Possedeva una tale duttilità di pensiero, e un’attenzione tanto ferma, da potere usare – come Napoleone dopo di lui – la mano per scrivere, l’orecchio per ascoltare e la voce per dettare, seguendo contemporaneamente e senza sbagliare i fili di tre idee diverse.

Uomo di cultura e di formazione filosofica, Giuliano tra le folle, in questa porzione di mondo, non ha il rilievo che merita, anzi il dispregiativo “l’Apostata” (il rinnegato) lo marchia d’infamia da secoli.

Gli esegeti di scuola cattolica lo hanno accusato di avere restaurato il paganesimo. Ma è una menzogna, così come è una menzogna che abbia perseguitato i cristiani, anche se certamente non li amava. Non li amava perché fin da ragazzo era stato messo a scuola presso un altezzoso vescovo cattolico che più che da educatore gli aveva fatto da carceriere, che aveva fatto il possibile e l’impossibile per piegarne la viva curiosità e mortificarne l’orgoglio. Non li amava anche perché quando se ne affrancò prese, per ovvia reazione, a nutrirsi di studi classici, riempiendosi la mente di cultura ellenistica e delle opere dei filosofi greci (e non c’è nulla di più lontano dal cattolicesimo delle idee degli epicureisti greci).

I suoi “delitti” furono che da sovrano riconobbe uguali diritti e libertà di credenza a tutti i culti, e che, non accettando la pretesa delle gerarchie ecclesiastiche di condizionare la politica dello Stato, eliminò gli onori e le indennità clericali, proibì i lasciti alla chiesa, li escluse dallo studio della grammatica e della retorica, li destituì dalle alte cariche civili e militari e li costrinse a risarcire i danni per i templi pagani che avevano distrutto (il che spesso equivaleva ad abbattere le chiese costruite nello stesso punto).

Ideologicamente Giuliano era un agnostico, e in effetti avendo letto Seneca e Zenone non poteva non esserlo. Varò coraggiose riforme in molti campi e in quello monetario fece di tutto per imbrigliare la fortissima inflazione.

Era coraggioso e intrepido, di viva intelligenza e di grande capacità di applicazione, coltissimo e facondo.

Il suo genio era meno potente e sublime di quello di Cesare, né possedeva la consumata prudenza di Augusto. Le virtù di Traiano appaiono più costanti e naturali delle sue e la filosofia di Marco Aurelio più semplice e coerente. Ma nessuno dei predetti possedette tutte le qualità che Giuliano illustrava e riuniva nella sola sua stessa persona.

Morì colpito da un dardo in una scaramuccia di guerra contro Sapore, durante una campagna che aveva diretto con grande vigore e con successo iniziale.

Durò solo 16 mesi, ed è stupefacente il molto che ben fece in un così breve periodo (dai 29 ai 31 anni). Apostata o non apostata, emerge chiaro che il gran Dio della chiesa di Roma non fu dalla sua parte.

 

 

 

72. Gioviano – dal 363 al 364. Era uno degli ufficiali di Giuliano, gli era leale, come lui era parco nei gusti e nelle affettazioni, era anche prudente, ma di Giuliano non possedeva l’intelligenza e neanche il coraggio. La guerra stava andando per le lunghe e non prometteva niente di buono. Le legioni, attratte dall’astuto Sapore  che senza mai accettare una battaglia continuamente indietreggiava discendendo il Tigri stavano spingendosi troppo lontano.

La inattesa morte di Giuliano suscitò disorientamento e indecisione, e in molti subentrò lo scoramento. Alcuni ufficiali interpretando o credendo di interpretare lo stato d’animo dei soldati chiesero di ripiegare.

Per cui Gioviano, che i soldati lì per lì avevano innalzato al supremo rango, concluse, per ragioni che uno studioso di psicologia saprebbe indagare meglio di noi, con Sapore un armistizio vile e vergognoso col quale, a pagamento d’una vittoria che il rivale non aveva conseguito, gli cedette l’Armenia, la Mesopotamia e l’inespugnabile città di Nisibis.

La notizia del trattato suscitò a Roma e dovunque una vivissima indignazione, ma Gioviano, che nel frattempo si era affrettato a riabilitare il cristianesimo poteva contare sull’influente appoggio delle autorità vescovili che erano come galvanizzate dall’essersi riuscite a sbarazzarsi senza muovere un sito dell’Apostata, per cui nonostante il grave atto di fellonia Gioviano riuscì a cavarsela e a conservare il trono.

Il vile trattato con i persiani e questo ancora più vile patteggiamento con le autorità vescovili furono gli unici atti del suo breve regno.

Perché morì di morte apparentemente naturale qualche mese dopo. Era stato un buon soldato ma i suoi tre anni di principato costituiscono una delle pagine meno pregevoli nella turbolenta storia di Roma. 

 

 

 

73. Valentiniano I – dal 364 al 375. Alla morte di Gioviano l’esercito dovette fermarsi e procedere ad una nuova elevazione.

Il prescelto fu un altro ufficiale, Valentiniano, un pànnone che si era guadagnato i suffragi dei suoi commilitoni per la sua reputazione di buon soldato, per l’abilità e l’esperienza in campo militare e per il suo rigido attaccamento non solo allo spirito ma anche alle forme dell’autodisciplina.

Appena eletto Valentiniano conferì al fratello Valente il governo della parte orientale dell’impero (ricca e quasi pacifica, se non fosse stato per le periodiche sortite di Sapore), trattenendo per sé, con capitale di nuovo a Milano, la parte occidentale.

Quello delle armi era il mestiere che fino ad allora  Valentiniano aveva saputo far meglio e non può stupire che lo abbia assolto in maniera tanto egregia. Stupiscono piuttosto le innovazioni che con grande lungimiranza introdusse nel campo dell’amministrazione civile, non meno rilevanti ed  incisivi ma di quelli certamente più rivolti al sociale) di quelli che più di mezzo secolo prima il grande Diocleziano aveva introdotto nel corpaccione molle dell’impero.

Valentiniano pose in opera provvedimenti innovativi e benefici per la salute del popolo: condannò l’esposizione dei neonati; istituì nei 14 distretti di Roma altrettante condotte sanitarie che dotò di medici di provata esperienza cui assegnò un regolare stipendio e dei giusti privilegi. Nella principale città di ogni provincia organizzò scuole di retorica e di grammatica greca e latina dove il nome, la professione e il domicilio degli studenti venivano debitamente riportati in un registro pubblico, così gettando il primo abbozzo della forma e della disciplina di una università moderna, e dove agli studenti s’imponeva – lo rileviamo con ammirazione – un’età massima (il 20/mo anno) per il completamento degli studi. Amministrò le finanze tartassando fino all’inverosimile latifondisti, proprietari terrieri, osti e commercianti e il molto che ne ricavò lo spese per migliorare le condizioni di vita dei militari, per assoldarne di nuovi e per rassicurare i confini dell’Impero, per ammodernare la burocrazia e per dare assistenza ai bisognosi. E in un’epoca di controversie religiose mantenne sempre una costante e moderata imparzialità: nessun tipo di culto fu da lui proibito se non quelle pratiche criminose e segrete che abusavano del nome di religione per i loschi fini del vizio e della dissolutezza.

Pose però un limite alle ricchezze e all’avidità del clero così come alla lussuria degli ecclesiastici e dei monaci, cui proibì di frequentare le case delle vedove e delle vergini.

Creò l’embrione di uno stato di diritto e si curò anche della felicità e della virtù domestica. Durante il principato di Valentiniano buone leggi proteggevano i cittadini dal potere arbitrario e dall’eccessiva povertà.

Nella amministrazione della giustizia Valentiniano fu animato da un giustizialismo feroce, quasi selvaggio, che il temperamento collerico e gli scoppi d’ira amplificavano spaventosamente; ciò nonostante ai giudici raccomandò sempre temperanza ed equità, arrivando al punto d’istituire presso i tribunali un corpo di difensori d’ufficio.

Pretese però che nessuno che fosse stato condannato per un delitto potesse commetterne un altro; con i rei e con i malfattori non ebbe mai un barlume di misericordia, ma nessuno può sostenere che la sua intolleranza sia sconfinata nel sadismo o nella crudeltà gratuita.

Parimenti severo fu anche nel rapporto con i soldati. Era difatti sua opinione che essi dovessero imparare a temere l’indignazione del loro comandante più delle minacce di morte che derivavano loro dagli scontri col nemico. Occorre dargli atto che il potere non gli diede mai alla testa, che aborrì il lusso e non amò mai le ostentazioni.

Molti benpensanti lo criticano per la faccenda degli scoppi di collera e per la feroce caparbietà con la quale s’applicò nel punire i rei (ma in tema di esecuzioni capitali non vediamo che cosa avrebbe potuto insegnare alla democratica Inghilterra del XVIII secolo o alla civile e libera America del XIX secolo), ma a nostro parere Valentiniano fu un imperatore assolutamente esemplare ed è forse il nostro preferito.

Il suo carattere era saldo e dritto, la sua intransigenza soprattutto rigore morale; era colto e scriveva bene. Nessuno può negare che sotto la sua frusta e grazie al suo impegno il benessere dei cittadini e la sicurezza crebbero notevolmente.

Salì sul trono che aveva 43 anni per morire 11 anni dopo, a 54 anni, per un malaugurato colpo apoplettico dovuto ad uno dei suoi famosi attacchi d’ira.

In una stasi momentanea della guerra – riportiamo ancora da Gibbon - gli ambasciatori dei quadi furono condotti in presenza di Valentiniano per chiedere clemenza. In risposta, l’imperatore insultò... la loro meschinità, la loro ingratitudine, la loro insolenza. I suoi occhi, la sua voce, il colorito e i gesti esprimevano la violenza di una furia sfrenata, e mentre tutto il suo corpo era scosso da una passione convulsa, gli scoppiò all’improvviso un grande vaso sanguigno, e Valentiniano cadde senza una parola tra le braccia del suo seguito”.

Che ingiuria alla buona costumanza, che sventura per l’impero e il popolo romano!

 

 

 

74. Valente – dal 364 al 378. Era il fratello di Valentiniano, aveva 36 anni e nessuna qualità degna di considerazione se non quella di un conveniente e devoto  attaccamento al fratello, cui riconobbe l’autorità e la superiorità di genio.

Era pavido quanto Valentiniano era coraggioso, e se la fissazione di quello fu il giustizialismo quella di Valente era un’ansia per la sua incolumità così radicata e fatale che ne cangiò la naturale pavidità in pericolosa paranoia, facendone un sanguinario assassino che soddisfò i propri angosciosi sospetti mandando indiscriminatamente a morte colpevoli e innocenti.

Se nelle pratiche interne il principio dominante del suo governo e di tutte le sue azioni fu quello di una cupa e continua mattanza, in quelle esterne il suo nome viene ancora ricordato per la memorabile disfatta di Adrianopoli che consegnò l’Impero romano ai goti.

Il fatto avvenne nel 378, quando i goti di Fritigerno, schiacciati dai terribili unni che, spinti a loro volta dagli spaventosi tartari, sopravvenivano dall’Asia centrale, sconfinarono e a migliaia, a milioni, dilagarono al di qua del Danubio implorando al sovrano protezione e asilo.

Valente che non seppe organizzarsi né per ospitarli e nemmeno per respingerli li tenne tutti i giorni sull’acqua dove a migliaia morirono per gli stenti e la fame oppure affogando miseramente, così che per la sua insipienza, la sua viltà e la sua arroganza essi si trasformarono da esuli supplicanti in un popolo rancoroso e ostile.

Fino a quando, spaventato da quelle lacere moltitudini rumorosamente supplicanti che non potevano né avanzare e né più retrocedere, non si rivolse al collega d’occidente (suo nipote Graziano, giacché Valentiniano era morto) cui chiese di unirsi a lui per debellarli quali comuni nemici.

Se non che, prestando orecchio ai suggerimenti adulatori degli eunuchi e essendo ansioso di guadagnarsi la facile gloria di una conquista sicura, improvvisamente si risolse ad affrontare quelle preponderanti e lacere schiere senza attendere i richiesti e attesi rinforzi, onde evitare che il contributo e l’aiuto del suo giovane collega potessero far velo a quell’impresa che, egli al cospetto di quelle moltitudini lacere e denutrite, vedeva come una vittoria facile e sicura.

L’esito della battaglia di Adrianopoli, drammaticamente fatale per l’impero, può essere descritto in poche parole: la fanteria, 40.000 uomini, fu circondata e massacrata, la cavalleria fuggì e il sovrano abbandonato dai suoi cavalieri ci rimise la vita.

Valente aveva sciaguratamente regnato per 26 anni, e compiendo gratuiti delitti e facendo solo danni.

 

 

 

75. Procopio – dal 365 al 366. Grazie alla sua parentela con Basilina, madre dell’imperatore Giuliano II (che abbiamo una invincibile riluttanza a chiamare L’apostata), questo Procopio che nella guerra persiana aveva avuto da Giuliano posizioni di un qualche rilievo salì ai gradi più elevati. Morto Giuliano, l’imperatore Goviano lo esautorò privandolo tanto dei privilegi quanto delle prospettive di carriera. Non digerendo l’affronto due anni dopo, nel 365, Procopio si fece proclamare imperatore a Costantinopoli, e contro Valentiniano e Valente si insediò nella Tracia, in Bitinia e nell’Ellesponto.

Ma non molto tempo dopo, per ragioni che non conosciamo, abbandonato dai suoi generali e tradito dai suoi tribuni, fu consegnato a Valente che senza starci a pensare due volte lo fece decapitare.

Non lo compiangiamo, è la fine che meritano gli usurpatori quando i loro piani non s’affermano.

Sottile è però, troppo sottile, quasi invisibile, il confine che corre tra il trono e cippo del boia, tra la gloria e l’esecrazione, tra la vita e la morte, e non sempre è il merito a fare la differenza. Ci chiediamo cosa avesse in più di questo Procopio quel sanguinario pusillanime di Valente che con o senza una qualche parvenza di diritto ritenne di poterlo affidare alle cure del boia.

 

 

 

76. Graziano – dal 367 al 383. Valentiniano era un tipo molto previdente e alla continuità della dinastia ci teneva, per cui, per uscire al più presto dall’incertezza, conferì al figlio Graziano che aveva otto anni, il rango di Augusto minore. Ma siccome sapeva quanto fosse rischioso quel mestiere volle sistemare ben a tempo anche la questione della successione al successore, facendo sposare il figlio, quando questi compì i 15 anni, con Costanza, che di anni ne aveva appena il giusto per potergli dare l’erede, la quale Costanza era figlia postuma di Costanzo II e della ambiziosissima Giustina. Per accrescere ancora di più la confusione si ci mise anche che la predetta donna Giustina che, non paga dell’essere suocera dell’Augusto minore e consuocera del maggiore, volle che anche al suo piccolo (che la signora aveva avuto dall’usurpatore Procopio e che si chiamava pure lui Valentiniano) fosse concesso lo stesso rango di Graziano, anche se se l’era appena tolto dal seno.

Così che quando il vecchio Valentiniano, felicemente ricco di eredi e di successori, per quella malaugurata botta di sangue calò nella fossa a succedergli sul trono fu Graziano che pure aveva solo 16 anni.

Era un tipo assai prudente, il ragazzo, anzi, siccome consideriamo che a vent’anni non sia lecito a nessuno esserlo troppo, ci assale il forte sospetto che fosse sopra tutto un gran fifone.

Ce lo conferma il fatto che quando coi suoi soldati giunse a poche miglia da Adrianopoli e seppe che quello sciagurato di Valente vi si era fatto massacrare dalle malconce truppe di Fritigerno si guardò bene dal dare battaglia, anche se è lecito pensare che potendo fruire del vantaggio della sorpresa e di altre situazioni propizie avrebbe potuto facilmente conseguire una piena vittoria. Invece fece bellamente dietro-front e se ne tornò a casa. A quel pusillanime poteva andar bene uno scontro a due contro uno, mai uno contro uno, nemmeno quando quelli che doveva attaccare erano impreparati a sostenere un altro urto e si trovavano in una posizione di forte instabilità.

E lentamente camminando, il fellone ebbe a considerare che siccome lo zio Valente facendosi ammazzare e facendosi distruggere l’esercit aveva dato via libera ai goti, lui un impero di quella fatta da solo non poteva tenerlo, né poteva dividerlo col Valentiniano figlio di donna Giustina e dell’usurpatore Procopio che, pur se già “Augusto minore” di fatto ancora giocava con le spade di legno e con i cavalli a dondolo.

Per cui Graziano conferì i territori e (soprattutto) i problemi che erano stati di Valente, cioè quelli di natura militare, a un Fabio Teodosio che era un suo generale e che essendo figlio d’un grande di Spagna gli sembrava idoneo a portarne il carico.

Mentre a sé stesso furbescamente riservò gli agi del Palazzo e gli affari di stato. E non solo. Siccome era uno che non metteva un dito nell’acqua tiepida, prudentemente s’asservì a quell’Ambrogio vescovo, che, in quella Milano che a poco a poco stava sopravanzando Roma nel governo della cosa pubblica e nel controllo dei territori, con piglio autoritario e con le certezze del vincitore dirigeva gli affari mondani della sua chiesa e quelli spirituali del sovrano.

Desolati ci limitiamo ad evidenziare che l’imperatore Graziano aveva assunto la co-reggenza dell’Impero a 8 anni, la reggenza piena (si fa per dire) a 16, e che morì, per mano di un certo Massimo che in Britannia aveva issato la bandiera della ribellione, che ne aveva appena 24.

Stupisce, sgomenta, addolora che da un uomo orgoglioso, coraggioso e impulsivo come Valentiniano sia potuto derivare derivato questo spregevole pusillanime.

 

 

 

77. Valentiniano II – dal 375 al 392. Era nato da Giustina e da quel Procopio che, avendo tentato un golpe ai danni di Valente e avendoci rimesso il collo, ha dato al mondo l’ennesima conferma di come sia più facile salire sui letti delle regine che sui troni dei re.

Il piccolo Valentiniano aveva solo quattro anni quando, in forza delle mene dell’ambiziosa madre, l’ansioso Valentiniano I cui gli eredi non parevano mai troppi, lo elevò, insieme col figlio Graziano, che di anni ne aveva appena il doppio, al rango di Augusto minore.

Ma il povero, piccolo, Valentiniano II nel gran fiume della storia ci è rimasto con la stessa saldezza di un tappo di sughero in un gurgite ribollente. Rimpallato come una palla di stracci da Giustina, da Graziano, da Magno Massimo e da Teodosio, avversato da quell’Ambrogio che non gli perdonò una pallida simpatia per l’arianesimo, girando in questo cieco e tragico tourbillon, aveva 21 anni quando andò a sbattere, per inabissarsi per sempre, sul suo scoglio fatale.

Detto scoglio portava il nome di Arbogaste - un franco arrogante e invadente, idolo delle truppe, che governava in suo nome e pertanto  avrebbe dovuto proteggerlo e che invece lo scannò nel sonno. Consumato l’infanticidio, Arbogaste fece indossare la porpora sovrana ad un suo protetto di nome Flavio Eugenio (Flavio Massimo).

 

 

 

78. Teodosio I – dal 379 al 395. E’ detto “il Grande” solo perché fece sempre ciò che quel volpone di Ambrogio gli diceva di fare. D’altronde era stato proprio il vescovo Ambrogio, oggi patrono ma allora padrone di Milano, a “suggerirlo” a Graziano, quando questi gli chiese consiglio su con chi sostituire Valente.

Di fatto fu tenendo il piedone destro sulla testa di Graziano e quello sinistro su quella di Teodosio (e quindi entrambi i santi piedi sull’intera carcassa dell’impero) che Ambrogio seppe meritarsi la sua preclara santità.

Di conseguenza Teodosio, quale principe sovrano dell’impero romano d’occidente, fece alcune cose d’un certo peso: avvantaggiò spudoratamente i preti, che ripristinando la turpe pratica delle donazioni e dei legati testamentari arricchì oltre ogni ragionevole misura; stroncò con un furore degno di causa migliore anche il più piccolo segno di eresia (a farne le maggiori spese fu l’arianesimo, tant’è che da allora e per molto tempo per trovare un ariano si doveva risalire l’intera Germania), quindi, sempre per suggerimento di Ambrogio, concesse agli alamanni un territorio e un’autonomia statuale che costituirono l’embrione di quello che nei tempi a venire sarebbe stato il regno di Baviera (stato eminentemente cattolico, anche adesso), insomma, fu un castigo di Dio.

Ebbe anche la fortuna, come era capitato ai più grandi, di riunire in sé le due corone; successe quando, sentendosi a buon diritto prediletto da Dio, si persuase a osare finalmente una impegnativa guerra contro quel Arbogaste e quel Flavio Massimo che, in combutta tra di loro, erano stati uno l’eversore e l’altro l’usurpatore del povero Valentiniano II.

Data ai due la sorte che meritavano, Teodosio il grande poté finalmente entrare da trionfatore a Milano. Dove dopo appena cinque mesi, all’età di 48 anni, e dopo 16 di regno, morì di idropisia.

Ma i guasti che aveva fatto erano purtroppo irridemibili.

 

 

 

79. Magno Massimo – dal 383 al 388. Il governatore della Britannia Magno Massimo si ribellò a Graziano in ragione – diceva – dell’indecoroso e vile asservimento di questi alle gerarchie cattoliche, cosa che secondo lui – e invero non aveva affatto torto a dirlo - mortificava la corona.

E con una congiura che nel Palazzo trovò subito un certo seguito lo eliminò.

Ciò fatto inviò una rassicurante missiva a Teodosio con la quale lo pregò di starsene tranquillo là dov’era perché lui non lo avrebbe disturbato, ché la parte occidentale dell’impero gli bastava e gli avanzava. Anzi – continuava - per dargli conferma della moderatezza e della lealtà dei suoi propositi, spontaneamente regalava l’Italia al piccolo Valentiniano.

A Teodosio questo Magno non è che andasse molto a genio ma non trovando la risolutezza necessaria a muoversi gli fece buon viso. Tanto che Magno Massimo si rassicurò e, ad onta delle assicurazioni di moderatezza e continenza che gli aveva date, si mise silenziosamente a rinforzarsi. E più si rinforzava più si persuadeva d’essere stato un po’ troppo rinunciatario e precipitoso a mollare l’Italia a Valentiniano, per cui cominciò a dar segni d’insofferenza.

L’astuta Giustina, fiutato il vento e sentito odore di bruciato, presi con una mano il piccolo Valentiniano e con l’altra una figlia già mezzo cresciutella, se ne partì di gran carriera per Costantinopoli dove chiese tutela e riparazione a Teodosio. Irrimediabilmente avanti negli anni ma rotta a tutte le emergenze la donna non si fece scrupolo d’apparecchiare al timido sovrano, per vincerne le titubanze, le fresche grazie della giovinetta (Galla); Teodosio ci cascò come un merlo e per passione fece ciò che per calcolo non avrebbe mai fatto.

Gibbon enfaticamente scrive che “la celebrazione delle nozze regali rappresentò la certezza e il segnale della guerra civile”.

Guidate da Simmaco, le sue poderose legioni sconfissero in Pannonia quelle di Magno, che, catturato, venne decapitato.

Non ci rammarichiamo della fine di Magno perché, nonostante che anni prima avesse dato mostra d’indignarsi della eccessiva acquiescenza di Graziano ai vescovi cattolici, quando fu lui a diventar sovrano, da buon spagnolo mise stabilmente il suo braccio armato al servizio della chiesa.

Pur tuttavia ci pare un segno di inequivocabile e ulteriore decadenza il fatto che con la vittoria di Teodosio le ragioni di stato abbiano ceduto a quelle dell’alcova.

 

 

 

80. Vittore – dal 387 al 388. Figlio dell’imperatore Magno Massimo, suo correggente dal 387. Fu ucciso da Arbogaste nel 388.

 

 

 

81. Flavio Eugenio (Flavio Massimo)dal 392 al 394. Fu proclamato imperatore da Arbogaste dopo la morte di Valentiniano II, ma, avverso al vescovo Ambrogio, non fu riconosciuto da Teodosio.

Fu anche per questo che cercò l’appoggio dell’elemento pagano, suscitando in esso speranze di rinascita.

La lotta con Teodosio, che assunse il carattere di guerra di religione, si concluse con la battaglia sulle rive del Frigido, dove Eugenio, fatto prigioniero, fu ucciso dai suoi stessi soldati.

Con lui fu ucciso anche Arbogaste, il suo puparo.

 

 

 

82. Arcadio – dal 395 al 408. Teodosio alla sua morte aveva lasciato un impero di nuovo unificato e due figli, Arcadio e Onorio. Ad Arcadio che aveva 18 anni toccò la parte orientale, e ad Onorio, che ne aveva 11 quella occidentale. Arcadio fu plagiato prima da Flavio Rufino e poi da Eutropio, loschissime canaglie.

Con Arcadio a Costantinopoli e con Onorio (o meglio, con Stilicone) a Ravenna, la divaricazione tra le due parti dell’impero divenne frattura.

Arcadio fu un essere del tutto inutile. Morì di morte naturale a 31 anni.

 

 

 

83. Onorio – dal 395 al 423. Asceso al trono a 11 anni (il fatto che ai figli minori toccasse sempre l’occidente la dice chiara sulle diverse condizioni delle due parti), anche da cresciuto Onorio si rivelò un essere perfido, pavido e imbelle.

Cosicché per quasi dieci anni la storia dell’impero d’occidente la fece il generale Flavio Stilicone, contro quei goti ai quali l’insipienza di Valente e la pavidità di Graziano avevano spalancato il giardino dell’impero.

I goti che derivavano il loro nome dal luogo di provenienza (il Gotland, nella Scandinavia meridionale) erano uomini splendidi e combattenti coraggiosissimi, che il peregrinare per un intero secolo in  tutta l’Europa orientale, le continue lotte per la sopravvivenza e comandanti via via migliori avevano notevolmente dirozzato.

Stilicone e il loro capo Alarico si combatterono in numerose battaglie, e Stilicone da buon tedesco le vinse tutte senza mai vincere la guerra.

Compì autentici prodigi mostrando un genio militare, uno spirito di sacrificio e una capacità d’applicarsi pari a quelli di Annibale. Non lo debellò, ma ne fermò tutte le avanzate; non lo mise in fuga durevole, ma lo braccò continuamente. E pur rintuzzandone ogni volta le velleità gli lasciò sempre aperta una via d’uscita, come fece ad Asti quando in una cruentissima battaglia gli distrusse i due quinti dell’esercito per poi, sul più bello, fermarsi e consentire ad Alarico e ai superstiti di mettersi in salvo rivalicando le Alpi senza affanno.

Il primo istante della salvezza è dedicato alla gratitudine e alla gioia ma il secondo è scrupolosamente occupato dall’invidia e dalla calunnia. Il clero e i ministri, ebbero dal sovrano l’ordine di biasimare la politica di Stilicone  che tante volte aveva sconfitto, tante volte aveva accerchiato e altrettante volte aveva lasciato fuggire l’implacabile nemico della repubblica. Ma la vera colpa di Stilicone era rappresentata dal suo orgoglio e dalla sua potenza” (Gibbon).

Puntualmente Olimpio, anima nera di Onorio, accusò Stilicone di tradimento e di connivenza col nemico. E Onorio, che pativa la popolarità e l’ascendente del suo coraggioso e leale generale, oltre che suocero, accolse le accuse del perfido ministro, attirò Stilicone in una trappola e lo fece arrestare.

Condannato a morte nel corso di un processo farsa Stilicone non si difese e dignitosamente diede al boia il collo.

La morte del generale segnò la fine dell’impero (“le barriere che per tanto tempo avevano separato le nazioni barbare da quelle civilizzate della terra – scrisse solennemente Gibbon - da quel momento furono abbattute al livello del suolo”) e l’Italia fu calpestata e umiliata.

Anche perché il mediocre e stolido Onorio affidò la difesa del territorio non più a generali e ai soldati bensì alla chiesa cattolica e ai suoi vescovi (a sant’Agostino, sopratutto), col risultato pratico che Roma un tempo miraggio irraggiungibile il cui nome sbigottiva il mondo e che da solo aveva incusso soggezione a tutti venne violata da tutti e, nell’ambito del cristianesimo, il cattolicesimo trionfò.

Del pernicioso Onorio, che morì di idropisia a 40 anni, rimane da dire che non sentendosi abbastanza sicuro a Milano (secondo lui troppo vicina ai confini) nel 404 trasferì il trono e la corte a Ravenna, che era protetta dalle paludi e dalla quale si poteva fuggire per mare.

 

 

 

84. Attalo Prisco – nel 409. Uomo di paglia contrapposto ad Onorio prima da Alarico e poi da Ataulfo, abbandonato infine dai goti, cadde nelle mani di Onorio che, risparmiatagli la vita, lo mandò in esilio.

Colpisce quest’eccesso di clemenza in quell’Onorio che per molto meno aveva fatto scannare il più valoroso e fedele dei suoi generali; ciò ci fa pensare che questo Attalo doveva essere proprio un uomo innocuo e un imbecille.

 

 

 

85. Costantino III – Imperatore rivale nelle provincie occidentali dal 407 al 411. Addirittura costui la mattina del giorno che fu fatto imperatore era un semplice soldato, ma di ciò che accadeva in quel caos assoluto più nulla più può stupirci.

Stanziato nella Britannia con atto unilaterale tolse alla impotente Ravenna quella terra, la Gallia e la Spagna, cioè quella porzione dell’impero che veniva chiamata “protettorato delle Gallie”.

Ma nulla poté opporre agli alani, ai longobardi, ai vandali, ai franchi, agli svevi, ai visigoti (goti evoluti, o occidentali) e agli ostrogoti (goti selvaggi, o orientali) che gli invasero tutti i territori e di tutto divennero i padroni.

Durò quattro anni.   

 

 

 

 

86. Teodosio II – Imperatore d’Oriente dal 408 al 450. Figlio di Arcadio, questo Teodosio venne nominato imperatore all’età di sette anni, per cui degli affari di governo si occuparono prima un certo Antemio, prefetto di corte, e successivamente la sorella del giovane sovrano, la principessina Pulcheria, più grande del fratello di soli due anni, ma che già a 14 anni mostrava di possedere più sensibilità per la libidine del potere che per quelle di tipo tradizionale, tant’è che come la grande Elisabetta per non distrarsi e per non soggiacere ad alcuno si tenne caparbiamente vergine. In forza di tanta graziosa provvidenza, riposando gli affari di Stato sulle immacolate ma ferrigne ginocchia della principessina sua sorella, Teodosio poté immergersi negli studi di teosofia e di giurisprudenza che amava particolarmente e restarvi immerso tutti gli anni che visse.

E’ rimasto famoso il codice di diritto che porta il suo nome (il così detto Digesto Teodosiano), che fu benemerito perché normalizzò ciò che prima era affidato all’arbitrio e alla discrezione dei giudici, anche se a dire il vero da un punto di vista strettamente etico non fu granché innovativo.

Assorto in queste cose Teodosio durò la bellezza di 42 anni. Durante il suo principato, se ancora ha un senso adoperare questo termine, in Gallia si formò il regno gotico-burgundico, in Spagna quello celtico, in Britannia quello degli angli e dei sassoni e Genserico, il re dei Vandali, nel 435 viene riconosciuto re di Numidia e di Mauretania.

 

 

 

87. Costanzo III – Imperatore associato in Occidente nel 421. Un generale rimbambito che l’imperatore Onorio s’era dovuto associare al trono al fine di ripagare sua sorella Galla Placidia (che altre non era che il bellissimo frutto di quel matrimonio che Giustina aveva combinato tra la sua bella Galla e quel Teodosio quella volta che, una ventina d’anni prima, era andata a chiedergli aiuto per le sue questioni con Magno), alla quale lo aveva imposto come marito quando la giovane era rimasta vedova di Alarico (era venuto anche il tempo che i generali barbari impalmavano impunemente le giovani principesse romane).

Garbatamente il povero vecchio, malato di suo e incapace anche di capire gli avvenimenti, sette mesi dopo tolse il disturbo, felicemente lasciando campo libero e letto franco alla consorte della quale torneremo a trattare.

 

 

 

88. Giovanni – Imperatore dell’Occidente dal 423 al 425. Pur se di origine gotica era solo un impiegato civile. La sua presenza, in quei tragici scenari, si può paragonare a quei cappelli che si lasciano sulle sedie dei cinema quando ci si deve assentare per qualche minuto e si vuole che il posto non venga preso da altri.

Di lui Procopio ci dice che aveva governato con moderazione e gentilezza. Ma la moderazione e gentilezza erano proprio ciò che meno ci voleva in quei tempi perigliosi.

Difatti tali non furono i suoi assassini che, mandati da Costantinopoli, dopo avergli tagliato la mano destra e prima di finirlo lo misero sulla groppa di un asino e lo fecero esibire in un circo.

Essi dichiararono nulli tutti gli atti dell’anno e mezzo di governo di Giovanni, sgangheratamente sghignazzando che non potevano essere suoi “perché i somari non firmano atti”.

 

 

 

89. Valentiniano III – Imperatore dell’occidente dal 425 al 455. Uscito di scena Giovanni, con Valentiniano III (cui furono padre e madre l’imperatore Costanzo III e la principessa Galla Placidia) si ritorna alla dinastia dei Valentiniani.

Questa Galla Placidia fu una donna di grandi capacità e di esemplare risolutezza, che seppe sempre il fatto suo. E non dovette cavarsela davvero male se è vero che nella sua turbolenta carriera di donna poté permettersi il lusso di giacere solo con dei re sia romani che barbari, consanguinei o non consanguinei che fossero.

Alla morte di Onorio, Teodosio risentito del fatto che certi maneggioni della corte di Ravenna anziché a lui quel trono l’avevano dato ad un pubblico impiegato come Giovanni, su richiesta di Galla Placidia che proprio per questo qualche anno prima s’era fatto un viaggio fino a Costantinopoli, nominò Augusto sovrano dell’impero d’occidente il piccolo Valentiniano, cosicché due anni dopo quando Giovanni uscì di scena l’intraprendente signora poté finalmente tornare a Ravenna, salire sul trono, assidersi sulle gambe il marmocchio e al posto di quello dirigere le cose del mondo, o almeno quelle che poteva.

Ebbe molto fiuto la signora Galla anche nello scegliersi l’”uomo forte”; difatti scelse il generale barbaro romanizzato Ezio che era stato un valente ufficiale di Silicone, il quale per la sua regina compì prodigi di valore assoluto, riuscendo a tenere i terribilissimi vandali e gli unni di Attila lontani da Ravenna.

Siccome passando gli anni i grandi diventano vecchi e purtroppo i piccoli grandi, successe che la regina madre morì e il piccolo Valentiniano, divenuto per la serie “anche le malepiante crescono”, maggiorenne restò solo su quel gran trono che aveva assaggiato tramite le ginocchia della sua gran madre. E quando finalmente poté trastullarsi con le leve del comando fece cose poco commendevoli. Perché la prima cosa che lo sciagurato giovane fece fu quella di riservare al valente e generoso Ezio la stessa fine che una quarantina d’anni prima quell’altro scellerato di Onorio (un uomo del tutto privo di onore!) a conferma del fatto che agli imbecilli la storia non insegna mai nulla aveva fatto fare al povero Silicone.

Mosso dalla invidia, dalla gelosia e da suprema stupidità, privo dei buoni consigli della madre, della quale non gli pareva vero d’essersi affrancato, diede ingenerosa morte a quell’Ezio che aveva trasformato la fiducia che la regina madre aveva riposto in lui in fedeltà alla corona.

Morto anche il valoroso generale (a proposito dell’uccisione di Ezio pare che un ministro abbia trovato il coraggio di dire al sovrano “che con la mano sinistra si stava tagliando la destra”), il governo passò, siccome la santità della chiesa di Roma si è costruita attorno ai troni secolari), nelle mani di papa Leone I.

Il quale, narrano i suoi agiografi, solo con l’agitargli il crocifisso dianzi, indusse il ferocissimo Attila ad abbassare i suoi torvi occhi gialli e ad andare a ricoverarsi con i suoi unni e con la coda tra le gambe in Ungheria.

Lo sciagurato Valentiniano III, principe prima inutile e poi dannoso, fu ucciso a 36 anni, durante una gara di tiro con l’arco.

 

 

90. Marciano – Imperatore d’oriente dal 450 al 457. Alla morte di Teodosio la potente principessina Pulcheria scelse come imperatore quest’onesto e intelligente generale, che fu anche un buon sovrano.

Salì al trono a 58 anni e ne discese che ne aveva 65. Quando morì di morte naturale le fu sepolto accanto a Galla Placidia e riteniamo che a una sistemazione migliore non avrebbe potuto ambire.

 

 

 

91. Petronio Massimo - Imperatore d’Occidente nel 455. Sicario di Valentiniano, gli succedette sul trono e nel talamo.

Ma siccome nelle pratiche di letto il nuovo sovrano non si dimostrò tanto abile e deciso quanto lo era stato nel tiro con l’arco la bellissima regina Licinia Eudocia pel dispetto e la delusione si offrì al re vandalo Gaiserico che nel frattempo aveva messo casa a Cartagine e che subitaneamente si mosse per impalmarla.

Allorché giunse a Roma la notizia del suo arrivo (era stato l’imperatore Valentiniano III a riportare, qualche anno prima, dopo la morte della madre, la capitale dell’impero sopra i colli fatali), il popolino, ben memore di cosa i vandali avevano combinato alla città 30 anni prima, inferocito afferrò Petronio Massimo, lo sminuzzò e gettò i pezzi nel Tevere.

La sua grama avventura era durata due mesi.

 

 

 

92. Avito – Imperatore d’occidente dal 455 al 456. Gallo romano, si condusse bene sia da generale che da sovrano. Così bene che presto si guadagnò l’odio e la persecuzione di quella sclerotica e velenosa accolita dei senatori che una malintesa tradizione di riverenza e il gran nome ancora proteggeva. Né comprendiamo come, nel marasma di quei tempi tempestosi e con tutto quel va’ e vieni di avventurieri, assassini, re, di imperatori e usurpatori, nessuno mai si sia presa la briga di spazzarli via in malo modo.

Il buon Avito morì dopo appena 15 mesi di regno, probabilmente per mano di un sicario di Maioriano.

 

 

 

93. Libio Severo (Severo III) – Imperatore d’occidente dal 461 al 465. Dopo aver visto che la sopravvivenza di Maioriano non era più compatibile con i suoi interessi e aver provveduto ad eliminarlo, l’insonne e prudente Ricimerio (che, anche se era barbaro, comprendeva bene che un bestione come lui, alto due metri e largo uno, con dei baffoni e i capelli del colore della pannocchia, che con fatica ruminava qualche parola di latino) non poteva sedersi sul trono che era stato di Marco Aurelio e di Traiano, rivolse la sua attenzione, dopo tre mesi di ricerche d’un acconcio uomo di paglia, su questo oscuro funzionario di provenienza lucana del quale nulla si sapeva (tant’è che da Costantinopoli Leone si guardò bene dal riconoscerlo), il quale si prestò al gioco meglio del suo predecessore, restando prono a Ricimerio in tutte le situazioni.

Ma come capita agli sciocchi acquisì delle benemerenze che non gli valsero a nulla, perché nel momento che il re barbaro cercando un appeasement politico con Leone s’avvide che gli conveniva sacrificarlo lo sacrificò senza pensarci mezzo minuto.

Questo fantoccio ristette sulla scena per quattro anni, il doppio - tanto per dire – di quel grande imperatore che fu, o che certamente avrebbe potuto essere, se non fosse morto prematuramente, Giuliano II.

 

 

 

94. Leone I (Il Grande). Imperatore d’Oriente dal 457 al 474. Un altro “grande”, ovviamente da non confondere – se non altro perché quello era un papa e questo un ex soldato trace divenuto imperatore - con quel Leone I (Magno) che aveva salvato Ravenna da Attila.

Morto il buon Marciano, questo malvagio, rapace e dannatamente bigotto barbaro dovette la porpora al potentissimo prefetto Aspar, che presso la corte di Costantinopoli ricopriva la carica di “magister militum”, che all’incirca equivaleva a quella che nei primi due secoli dell’impero era stata quella di prefetto del pretorio.

Erano due emeriti farabutti lui e questo Aspar, ed era certo che prima o poi uno dei due ci avrebbe rimesso il collo.

Per primo si mosse Aspar, che s’era subito pentito della sciocchezza d’aver messo la corona sulla testa di un altro anziché sulla sua, e con tutti i mezzi cercò di rimediare all’errore.

Ma la spuntò Leone che, vista la mala parata, fece il gran gesto di gettare la spada e la corona ai piedi del patriarca di Costantinopoli, vicario allora del papa di Roma, e di chiederne la protezione, instaurando così una prassi che ancor di più vincolava l’impero alla chiesa e, nei i secoli a venire, i troni agli altari. Il prezzo che Leone dovette pagare non fu pesante, almeno per uno come lui. Molto cristianamente gli fu chiesto di eliminare dalla faccia della terra i seguaci del monofisitismo, una setta che negando al Cristo la natura umana minava alla base le fondamenta della Chiesa.

Un altro motivo perché la spuntò fu che Aspar era ariano e i cattolici vedevano gli ariani come il fumo negli occhi.

L’arianesimo in effetti stava diffondendosi a macchia d’olio e rischiava di diventare per la chiesa ortodossa l’eresia più pericolosa, perché negando al Cristo la consustanzialità di padre e di figlio ne metteva in discussione la natura divina.

Alla morte di Libio Severo, nel 465, Leone si proclamò imperatore anche d’occidente, affidando Roma a quell’Antemio Procopio del quale presto diremo.

Aveva 56 anni questa canaglia, quando assurse al trono. Lo tenne per 17 anni per morire a 73 di dissenteria.

 

 

 

95. Maioriano - Imperatore d’occidente dal 457 al 461. Fu fatto e fu disfatto dal potente generale germano Ricimerio (il quale per un’antica e ancora non del tutto dissolta soggezione verso la romanità o, più probabilmente, per non creare un pericoloso precedente del quale i suoi pari avrebbero potuto profittare a suo danno, ritenne che non essendo “civis romanus” non avrebbe potuto assumere in prima persona l’alta incombenza).

Maioriano non dovette essere privo di meriti. Lo provano tre cose. La prima è che fu per maritarsi con lui (e quindi per scacciare dal trono e dal suo letto quel Petronio Massimo che riluttantamente aveva sposato) che la fiera Licinia Eudocia aveva fatto venire da Cartagine re Alarico; la seconda è che Ricimerio lo fece trucidare (sostituendolo col più arrendevole Libio Severo) “perché” – ha scritto Ammiano Marcellino – “s’indignò che volesse comandare sul serio”; la terza è che anche Sidonio Apollinare e Edward Gibbon ne parlano bene.   

 

 

 

96. Antemio – Imperatore d’occidente dal 467 al 472. Dopo l’appeasement di cui sopra, la scelta del generale Ricimerio, dell’imperatore Leone e del re dei vandali Gaiserico cadde sullo scaltro Antemio. Che come abbiamo visto trattando del secondo Teodosio era uno dei funzionari meglio inseriti nella corte di Costantinopoli, e nel tempo, con l’ingegno, la pazienza e con una tutta una serie di matrimoni di convenienza s’era costruito un così fitto reticolato di buone relazioni che gli avevano fruttato molti cospicui interessi.

Fu per questo che la sua nomina a sovrano dell’altra parte dell’impero (quella d’oriente restava salda nelle mani del suocero) fu accompagnata dall’approvazione generale e prontamente benedetta anche dai lontani senatori capitolini, ai quali non parve vero di poter riecheggiare decisioni così tanto solenni.

Fu così che, dopo la consacrazione, solenne e soddisfatto, Antemio e la sua corte si misero in viaggio per l’Italia.

Pensava di durare chissà quanto, ma così non fu. Non fu così perché il successo, come si suole dire, gli aveva dato alla testa, giacché prima s’impuntigliò di dare una lezione a quel Gaiserico che pure aveva contribuito a farlo nominare sovrano (che offeso di tanta ingratitudine gli distrusse la flotta al largo della Sardegna e per buona aggiunta gli fece sbaragliare l’esercito dai suoi amici svevi e burgundi), e poi, siccome non c’è niente di peggio di quando le cose prendono a girar male, commise l’errore, quando gli occorse di trovare un generale cui affidare l’esercito, di non ricordarsi di Ricimerio, (cui ai tempi della sua resistibile ascesa aveva dato in sposa la figlia Alipia) e Ricimerio, genero o non genero non solo era il tipo giusto per quell’incarico ma ci teneva maledettamente ad averlo. Ed essendo tipo discretamente vendicativo presto anche le loro relazioni si deteriorarono.

Antemio fu udito rammaricarsi d’avere dato in sposa l’amata figlia “ad un barbaro come Ricimerio”, in quale dal canto suo definiva il suocero “galatacioè turco, giacché anche allora dare del turco a qualcuno costituiva offesa.

Anche se negli scenari politici di oggigiorno corrono insulti ed epiteti che quelli di poco sopra ci sembrano non più che dei motteggi di casti seminaristi, il dissidio degenerò e ne sortì che l’Italia si trovò praticamente divisa in due parti, con il “turco” che regnava a Roma e nel centro sud e il “barbaro” a Milano e nel nord della penisola.

Ovviamente non poteva durare perché Ricimerio era uno che le offese le lavava solo col sangue, per cui due anni dopo marciò alla volta di Roma e vi pose l’assedio. Dopo tre mesi la città capitolò e con essa capitolò, mozzata dal boia, la testa di Antemio.

Per confermarci - qualora che fosse ancora bisogno - che chi troppo se la monta spesso va’ a finire che la testa la perde.

 

 

 

 

97. Olibrio – Imperatore d’occidente nel 472. Questo notabile della corte d’occidente fu il quarto sovrano che Ricimerio si fece a proprio uso e consumo. Era un tipo fedele ed affidabile, tanto che quando scese a Roma per regolare i suoi conti con l’infedele Antemio Ricimerio se lo portò con sé.

Durò sei mesi, fino a quando il suo patrono, vomitando sangue, non morì. E Oliario, fedelmente, per il dispiacere lo seguì nella tomba.

 

 

 

98. Glicerio – Imperatore d’occidente dal 473 al 474. La morte del gran regolatore Ricimerio provocò un vuoto di potere che resero ancora più forti l’anarchia e la violenza. Ogni re barbaro voleva un suo uomo di paglia, e siccome ognuno metteva il veto nelle scelte dell’altro per quattro mesi non ne venne nominato alcuno. Questo Glicerio, che riportò la corte a Ravenna, era quello che i re burgundi Gundobado e Chilperico in quella particolare situazione e dopo quei quattro mesi di stallo riuscirono ad imporre ai colleghi.

Ma da Costantinopoli, Leone I che non aveva partecipato alla decisione e che si riteneva essere il règolo del mondo non lo riconobbe.

Decise anzi di sostituirlo con quel tale Giulio che è passato alla storia col nome di Giulio Nepote, nepote nel senso di nipote, giacché nipote, per via della basilissa effettivamente gli era.

Questo Giulio Nepote armò una flotta, prese terra ad Ostia e presentatosi tutto in armi al Senato e al popolo di Roma si proclamò legittimo imperatore di Roma “per mandato del collega d’oriente”.

Al povero Glicerio, siccome Gundobado nel frattempo era morto e Chilperico si trovava in altre faccende affaccendato, non restò che arrendersi.

La docilità e la prontezza con cui lo fece gli valsero la vita.

Uscì dalle cronache mondane per entrare nel monastero di Salona in Francia. Da effimero imperatore era durato soli 295 giorni.

 

 

 

99. Giulio Nipote - Imperatore d’occidente dal 474 al 475. Eccoci dunque al nipote, venuto a Roma “per mandato del collega d’oriente”.

Cotanta parentela gli valse il servile beneplacito dei senatori, ma non (purtroppo per lui) quello di Oreste, il potente “magister militum”, il quale non doveva essere un tipo da poco se negli anni precedenti s’era fattivamente speso come segretario del tremendissimo Attila. Ciò perché Oreste, che della sovranità di Leone se ne infischiava, aveva deciso di innalzare sul trono d’occidente il proprio figlio Romolo, per cui presto portò una sua forza armata ad assalire Ravenna, dove Giulio era andato a stabilirsi. Il quale Giulio alla notizia dell’assedio non avendo fiducia nella asserita inespugnabilità della città fuggì per mare e si rifugiò nei suoi possedimenti in Dalmazia, da dove negli anni successivi con maniere tenui e petulanti cercò di recuperare il trono. Ma Odoacre, re degli unni, erede di Attila e nuovo padrone dell’Italia, solidale con Oreste che, come abbiamo visto, di Attila era stato uno dei più stretti collaboratori, non gli diede mai spago.

Anzi nel 480, stancatosi, lo fece assassinare.

 

 

100. Zenone – Imperatore d’Oriente dal 474 al 491. Costui l’imperatore Leone se l’era preso così tanto a cuore che se l’era portato con sé da dalle zone del Caspio dove lo aveva trovato, fino a Costantinopoli.

Gli ispirava anche una certa fiducia se, nel prosieguo, per bilanciare la potenza di quell’Aspar, che con la prepotenza e con la forza dei suoi alani gli condizionava e la politica e la sovranità, gli affidò ruoli sempre più importanti.

Fino a conferirgli il rango di Augustus minor e di associarselo al trono.

Aspar che come abbiamo visto era un’emerita canaglia, cercò immediatamente di farlo assassinare, per cui Zenone prudentemente s’eclissò, confidando che la costanza del sovrano e sopra tutto il tempo avrebbero lavorato a suo vantaggio.

Per cui dovette rimanerci alquanto male quando venne a sapere che invece Leone aveva conferito la posizione che prima era stata sua ad uno dei figli di Aspar che di nome faceva Ardaburio, cui per sovrappiù aveva promesso in sposa la propria figlia minore Leonzia.

Lo trassero dall’impaccio le morti violente, sopraggiunte poco dopo, non solo di Aspar ma anche di quell’Ardaburio che in vece sua doveva diventare il genero e il successore di Leone.

Nonostante la provvidenza che glie ne derivò, a queste due morti Zenone risultò estraneo, e questo – consentiteci di dirlo - lo diciamo più che a suo disdoro che a suo onore. Zenone rassicurato, poté quindi rimettere piede a Costantinopoli e lì impalmare Elia Arianna, la figlia maggiore di Leone, col quale si era riappacificato.

Ma non solo. L’uscita di scena, poco dopo, dello stesso basileo (basileo era l’appellativo d’onore che, per contrapposizione alla declinante latinità, grecizzando i bizantini davano ai sovrani), la protezione dell’autoritaria suocera Elia Verina, la prematura morte del figlio che il vecchio sovrano s’era associato sul trono gli aggiustarono ogni cosa fino a restituirgli il sorriso e quella sovranità che prima gli era stata promessa che poi gli era stata sottratta, e che lui non aveva mai fatto nulla di cospicuo né per meritarla e né per difenderla.

Questi intrighi, questi scenari da basso impero (è proprio il caso di dirlo) ci impediscono di esser brevi come fortemente vorremmo, ma la turbolenta storia del principato di Zenone è sintomatica di come le cose fossero degenerate anche alla corte di Costantinopoli.

Semplificando al massimo possiamo aggiungere che la potente Elia Verina, che aveva fortemente favorito il rilancio del genero facendoli ritrovare le fortune smarrite, mal tollerando che, divenuto sovrano, egli per le mene di governo  s’appoggiasse non a lei ma alla moglie (e propria figlia) Elia Arianna ordì d’eliminarlo per porre sul trono un bellimbusto di nome Patrizio che gli fungeva da amante e del quale confidava di poter disporre senz’impacci. Una soffiata mise sull’avviso Zenone che per salvarsi la pelle anche stavolta non trovò di meglio che darsela a gambe (ma stavolta, per la serie “anche i cretini imparano” si trascinò dietro il tesoro imperiale).

Due anni dopo, tramontate che furono le fortune del bel Patrizio e quelle di quel Basilisco che della malefica vecchia era il fratello e che con Patrizio aveva armato la congiura, l’inossidabile Zenone poté di nuovo fare ritorno nella capitale e risedersi su quel trono che già era stato suo.

E poco dopo, quando il deposto Giulio Nepote venne a chiedergli un esercito che valesse a rimettergli, in Italia e a Ravenna, le cose a posto, Zenone, che pure detestava Odoacre (per il fatto che questi da buon tedesco aveva sempre tenuto per il suo connazionale Aspar) per quieto vivere si voltò dall’altra parte.

Zenone fu un sovrano codardo e di bassa moralità; la sua qualità migliore fu la velocità nella corsa. Il suo regno durò fino al 491 e non vale la pena di seguirne le poco commendevoli vicende. Anche perché nel 476 nell’altra parte del mondo lo sciro Odoacre sanzionava la fine di quello che era stato l’impero romano d’occidente.

 

 

 

101. Basilisco – Imperatore rivale in oriente tra il 475 e il 476. Era, come abbiamo visto trattando di Zenone, il fratello di quella vecchia bagascia della Verina, vedova di Leone e gran burattinaia del palazzo imperiale di Costantinopoli. Per cui non dobbiamo stupirci se questo Basilisco, responsabile di una disfatta militare di proporzioni immani (fu sotto il suo comando che le armi congiunte degli due imperi furono sbaragliate dai vandali) fu fatto imperatore. Pare anzi che a farlo nominare comandante supremo delle forze imperiali congiunte sia stato il perfido Aspar che, segretamente parteggiando per i suoi amici barbari, aveva tutto l’interesse che a guidare quegli eserciti fosse messo un inetto); questo tanto per far capire che tipo fosse questo Aspar.

Divenuto sovrano, Basilisco fece uccidere alla inesauribile vegliarda, quasi per ringraziarla della briga che s’era presa a farlo nominare imperatore, quel Patrizio che ne era l’ostinato amante.

Quindi – in un crescendo di sciagurate iniziative - nominò magister militum un tale Armato, che la gente per le guance rubizze chiamava Pirro, che nel suo curriculum vitae poteva scrivere solo di essere l’amante della regina. E per soprammisura gli affidò anche le opere di difesa da opporre al rientrante Zenone.

Armato naturalmente lo tradì, spianando la strada a Zenone, così che, senza merito né fatica, l’ex fuggiasco poté rientrare a Costantinopoli e riprendersi il posto.

L’imbelle e imbecille Basilisco e i suoi poveri figli furono murati vivi in un serbatoio d’acqua asciutto, e lì lasciati morire di fame e di sete.

Non è difficile comprendere con chi la vedova, opportunamente risparmiata, abbia avuto a consolarsi. “Lento a comprendere e facile da ingannare” lo definisce il Grant e la definizione ci pare giusta.

Lo sciagurato durò un anno. Se l’impero non riusciva ad esprimere più che questo era giusto che scomparisse.

 

 

 

102. Romolo (Augustolo) – Imperatore d’Occidente tra il 475 e il 476. A questo bambino, quando nacque, l’ambizioso padre (quell’Oreste già segretario di Attila e sotto Giulio Nipote potente magister militum) volle imporre, per una di quelle tragiche bizzarrie che la storia ogni tanto si diverte a comminarci, il prestigioso nome del fondatore di Roma. E di sicuro non presumeva che quello dell’inoffensivo ragazzo, nel suo tenue passaggio sulle tenebrose vicende del V secolo, avrebbe finito per significare, piuttosto e ironicamente, la fine della gloriosa storia di quella Roma che l’altro Romolo, dodici secoli prima, con il suo fortunato nome aveva battezzato.

Il diminutivo Augustolo gli venne dato o per spregio o, come taluni vorrebbero, per la giovanissima età. Ma, a parte la questione del nome, appare chiaro che in quella situazione, con lui o con un’altro sarebbe stato la stessa identica cosa.

Il precipitare era Stato lungo e penoso, ma per fortuna la fine era vicina.

I capi dei diversi eserciti barbari, che via via erano andati sistemandosi chi in una provincia e chi in un’altra, e che ormai avevano il pieno controllo militare e amministrativo del territorio, avevano stretto tra di loro un patto di non belligeranza e si stancarono di fare e disfare imperatori che non duravano più di tre mesi e davano loro soltanto delle preoccupazioni. Così che finalmente si decisero di far da soli

Nell’agosto del 476 Odoacre si assise in Pavia e, deposto Romolo, assunse il titolo di re d’Italia.

L’Italia non solo di fatto ma formalmente diveniva una provincia del regno di Germania.  

 

 

 

Fine

                                                                                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 13/2/2001 – 26/3/2001

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Revisione (formale) del 28 maggio 2010