G. Bizzetti
imperivm
Grandezza militare e
debolezze umane, vizi privati e pubbliche virtù dei sovrani della Roma
imperiale da Giulio Cesare a Romolo Augustolo
Introduzione
Questo lavoro a differenza di tutti gli altri che
convenzionalmente partono con Ottaviano Augusto inizia con Gaio Giulio Cesare.
Perché nel 31 a.C. (data nella quale Ottaviano Augusto, il
primo principe, appunto quello col quale per consuetudine s’inizia, assunse la
porpora imperiale) non accadde nulla di sintomatico per cui
possa sostenersi che sia stato proprio con lui e proprio allora che la
Repubblica veniva a trasformarsi in Principato. Tant’è
che ancora a lungo, nel prosieguo, per designare la
natura delle istituzioni si continuò a dire “res publica”
e per un tempo ancora più lungo il Senato di Roma, che nei sei secoli
precedenti aveva condotto prima in Italia e poi nel mondo la politica dell’Urbe,
credette di continuare a farlo. Cesare con la sua
straordinaria intelligenza e con delle capacità militari e politiche fuori del
comune aveva intuito, come già prima di lui con minori capacità e con meno
fortuna Mario, Silla e, più degli atri ma meno di
lui, Pompeo, che le dimensioni dell’Impero, l’insorgere di nuove istanze, i mutati costumi, le maggiori pretese di tutti,
imponevano la necessità di una qualche svolta.
Detta svolta di fatto avvenne quando, dopo la battaglia di Farsalo (48 a.C.), Cesare ebbe ad ottenere, via via, la dittatura a tempo indeterminato, il consolato per
cinque anni, la potestà tribunizia a vita, la “praefectura
morum“ e, dopo la vittoria di Munda, anche il titolo di “Imperator” che equivaleva a
quello di generale della Repubblica. E questa somma di poteri civili e militari di fatto e inequivocabilmente configurava il suo governo
come un principato. Egli riordinò lo Stato con una serie di leggi, completò a
sua posta il Senato, dedusse colonie, distribuì terre ai suoi veterani, riformò il calendario, disegnò audaci progetti urbanistici
in Roma e altrove. Desideroso di pacificare gli animi amnistiò i nemici e
adottò a fini successori Ottavio, il futuro Augusto.
Può quindi osservarsi che, quali che fossero i suoi concetti
definitivi intorno alle forme da dare al suo governo, a nessuno sfuggiva che
egli intendeva conservare e trasmettere a un suo
successore la pienezza dell’autonomia che era nelle sue mani.
Queste sue prerogative politiche (non differenti e non
minori di quelle che avranno i principi che gli succederanno) sono le ragioni
per le quali iniziamo trattando di lui.
I Principi
1. Gaio Giulio Cesare – Dal 48 al 44 a.C.
(dittatore a vita).
Gaio Giulio Cesare fu straordinario in ogni suo fare e tutte
le sue scelte, tranne quella di fidarsi dei suoi nemici, furono felici.
La sua visione delle cose fu sempre tempestiva e lucida, la
sua intelligenza sempre pronta, così moderno il suo modo di trattare i problemi
e così freddo il suo cervello che ebbe sempre ragione, e con molta facilità, di ogni suo avversario, fosse stato esso militare o
politico.
Dal punto di vista militare forse gli si possono accostare
(e solo dal punto di vista tattico, nemmeno strategico) i
soli Alessandro e Napoleone (più il secondo che il primo), ma
politicamente non troviamo nessuno che anche lontanamente possa essergli
avvicinato.
Quale generale degli eserciti romani in soli cinque anni
sottomise le tre parti della Gallia (“Gallia divisa est in partes
tres…”) che da allora divenne la più provvida,
prospera e fedele delle province romane; dissuase a lungo le orde germaniche
dall’avvicinarvisi e si spinse anche oltre Manica occupando la parte
meridionale della Britannia dove effettuò
degli importanti insediamenti civili e militari. Nelle faccende di guerra era
un fulmine: sovvertì le logiche del combattere, assunse iniziative mai pensate
prima; con geniale spregiudicatezza rovesciò i rapporti di forza che quasi sempre gli erano sfavorevoli, e non ci fu volta che
non vinse. I soldati avevano per lui un rispettoso affetto e Cesare mai dovette
ricorrere alla autorità per affermare il proprio
prestigio. A Farsalo in poche ore e con poche perdite
conseguì una vittoria strepitosa sull’esercito di
Pompeo (e stiamo parlando delle poderose legioni del grande Pompeo, non di
scoordinate tribù barbare) che contava 50 mila fanti e 7 mila cavalieri, mentre
lui ne aveva rispettivamente 22 mila e mille. Ma la sera prima della battaglia,
mentre nel campo di Pompeo si erano tenuti banchetti, discorsi, bevute e si
erano levati brindisi alla certa vittoria, Cesare aveva mangiato un rancio di
farro e cavoli coi suoi soldati, nel fango della
trincea.
Cesare visse in un periodo nel quale le istituzioni erano
cadute nel caos e la repubblica, senza averne coscienza, aveva assolutamente
bisogno di un “uomo forte” capace di porre un argine ad un parlamentarismo
sfrenato e ormai strenuo e, ripristinando l’ordine e la legalità, di dare forza
ed autorevolezza al potere esecutivo. Vi riuscì in pieno, e da solo avviò quel
cambiamento che avrebbe dato a Roma l’abbrivo per durare bene, in scenari
diversi da quelli nei quali la vecchia Roma repubblicana si era misurata, si era imposta e si era esaurita, per altri due secoli.
Cesare, con una visione moderna e spregiudicata della
politica, e avendo costantemente a cuore gli interessi della cosa pubblica, “realizzò
un vasto progetto che “lungimirantemente aveva abbozzato quando aveva
concesso la cittadinanza alla Gallia cispadana. Il
Senato non volle mai convalidargli la misura; poi dovette accettare che venisse estesa a tutta l’Italia. Cesare aveva compreso che
non c’era più nulla da sperare dai romani di Roma,
ormai ammolliti, imbastarditi e incapaci di fornire altro che degli
intrallazzatori e dei disertori. Egli sapeva che il buono era solo in
provincia, dove la famiglia era rimasta salda, i costumi sani, l’educazione
severa. E con questi provinciali di origine contadina
o piccolo borghese intendeva riformare i quadri della burocrazia e
dell’esercito. La sua vera rivoluzione era questa ed egli cercò di realizzarla
attraverso la grande riforma agraria progettata dai
Gracchi. Per riuscirvi chiamò a collaborare l’alta borghesia industriale e
mercantile, che gli finanziò l’operazione. Grandi capitalisti come Balbo e
Attico diventarono suoi banchieri e consiglieri. Cesare spiegò in questa
bisogna la stessa energia che aveva spiegato come generale in battaglia. Voleva
tutto vedere, tutto sapere, tutto decidere. Non ammetteva sprechi e
incompetenze. E per escludere gli uni e le altre il
tempo non gli bastava mai. La politica del pieno impiego della manodopera si
conciliava benissimo col “mal della pietra” che lo affliggeva. Cesare era un
costruttore nato e trascorreva in letizia le sue indaffaratissime giornate.I pettegolezzi dei suoi nemici contro di lui
invece d’irritarlo lo divertivano” (Montanelli).
E come scrittore, come ci testimonia il grande Cicerone -
che da buon conservatore gli fu sempre nemico ma che di queste cose se ne
intendeva - “tolse a tutti la voglia di scrivere”.
Il suo stile di scrittura (Cesare scrive delle sue cose parlando di sé in terza
persona) è elegantemente sobrio, privo di fronzoli, ma ricco di tutti i
particolari utili ad una chiarissima comprensione dei fatti. E la lettura dei
suoi due documentari (il “De bello gallico” e
il “De bello civile”) un autentico godimento.
Cesare era un uomo affascinante, brillante, facondo,
cordiale. Amò molte donne e ne fu sempre ricambiato. Misurato e spavaldo,
coraggioso e prudente, leale e spregiudicato, non cercò mai vendette e mai fu immotivatamente crudele. Faceva tutto con eleganza, anche
il regalo del perdono a chi gli aveva portato offesa. Seppe sempre comprendere
al volo il rapido volgere delle situazioni e con quelle il mutare degli
interessi dei suoi alleati, che, quando rispettarono gli accordi, ebbero sempre il pattuito, e quando per invidia, per errata
presunzione o per calcolo gli andarono contro, ogni volta rovinarono.
Nessun voltafaccia lo sorprese. Amici e nemici, tutti
subirono il suo fascino, e il suo acerrimo nemico Catone, che era vissuto solo
per combatterlo, togliendosi, dopo la disfatta di Farsalo,
la vita, gli chiese perdono di tutto il male che gli aveva fatto. Cesare quando
lo seppe disse che non gli perdonava “d’avergli tolto, suicidandosi,
l’occasione di perdonarlo”. E sempre dopo Farsalo,
di quel Bruto e di quel Cassio che in quella battaglia
gli erano stati avversari e che qualche anno dopo, alle fatali Idi di marzo,
gli avrebbero tolto a tradimento la vita, fece dei governatori di provincia.
Scrive di lui Christian Meier nel
suo “Giulio Cesare. Il politico e il diplomatico, lo stratega e il condottiero,
l'oratore e lo scrittore”:
“... Balza agli occhi una ricca fantasia, un'enorme ingegnosità
tecnico-tattica. Una sorprendente capacità di capire le situazioni in anticipo
e fino in fondo, di cogliere la realtà apparente come apparenza e la realtà
misconosciuta come realtà, di scorgere possibilità che normalmente non venivano percepite, e di essere avvedutamente pronto quasi a
tutto. Conosceva, infatti, anche il potere del caso e non voleva essere in sua balìa. Famosa è la sua rapidità, la “celeritas
caesaris”. Degna di nota la
capacità con la quale si adatta ad ogni novità, la capacità di imparare.
[…] Se questo tempo e il suo protagonista più significativo
possono ancora affascinare, ciò dipende dal fatto che è un problema nostro
quello che allora là fu rappresentato e la cui serietà là si incontra. Accanto
e nella dimensione storica c'è sempre quella antropologica.
La grandezza di Cesare, infatti, “se si osa tirare ancora in ballo questa
parola patetica” non è “né nell'immacolatezza di un
genio luminoso, né nella licenza di una libera amoralità (…) ma proprio nella
sua umanità estremamente problematica, che unisce
possibile splendore e ineludibile miseria, disgrazia
e colpevolezza, e soprattutto (…) nella sua efficacia storica”, nella quale
egli ha tanto costruito, ma anche tanto distrutto”.
Nato da famiglia aristocratica povera, Cesare ebbe sempre a
cuore il bene del popolo e, al di là dei diversi
provvedimenti che aveva assunto in suo favore nel governo della cosa pubblica,
col testamento gli legò ogni sua personale ricchezza. Opportunamente ridusse il
Senato ad un corpo meramente consultivo dopo averne portato i membri da 600 a
900, con l’immissione in quel corpo sclerotico di nuovi elementi scelti in
parte tra la borghesia di Roma, in parte tra quella di provincia, in parte tra
i suoi vecchi ufficiali celti, molti dei quali erano
figli di schiavi (ma poi - commentiamo noi – successe, come succede sempre, che
furono i deboli a rendere deboli i forti e non i forti a rendere forti i
deboli).
Fu la magnanimità, o l’eccessiva magnanimità (ma forse la
magnanimità è sempre eccessiva) a perderlo. “Forse in questa magnanimità
c’era anche un po’ di disprezzo per gli uomini: un carattere che si accompagna quasi sempre alla grandezza. E forse in questo disprezzo sta
anche la ragione della sua totale indifferenza ai pericoli che lo minacciavano. Egli non poteva ignorare che intorno a lui si complottava e che la generosità è uno stimolo, non un
sedativo all’odio. Ma non riteneva i suoi nemici abbastanza coraggiosi per osare” (Montanelli).
Ma non sempre occorre un leone per
uccidere un leone. Spesso basta uno sciacallo.
Nutro per il dittatore Cesare – “uomo unico nella
storia umana” (la definizione è del fobico Ceronetti,
uno che in vita sua non ha mai amato nessuno) - una ammirazione
sconfinata, per cui mi piace concludere questo suo ritratto sottolineando come,
nel grande Impero, dopo di lui, si chiamarono Cesare o Sommo Cesare
tutti i sovrani assurti al comando più alto per forza di spada o che con la
spada dovevano difenderlo (la differenziazione con l’Augusto Sovrano fu
successiva, e la si riservò a chi piuttosto governò dal palazzo). E come
ancora, in epoche molto successive e quasi contemporanee alla
nostra, con denominazioni chiaramente derivate dal suo nome si onorarono gli
imperatori sovrani di Prussia (Kaiser) e quelli di
tutte le Russie (Czar, Zar).
Ma per dirla con Umberto Eco ora “nomina
nuda tenemus”.
Non per questo ritengo che Gaio Giulio Cesare fosse perfetto. Per esserlo gli mancava - per dirla con Indro
Montanelli - solo un difetto: quel po’ di sana
paranoia che magari ci rende meno belli agli occhi della gente ma che, se
perseguita con costanza, il più delle volte ci permette
di morire di vecchiaia.
2. Gaio Ottavio (Cesare
Ottaviano Augusto)
– dal 31 a.c. al 14 d.C.
Il brillantissimo Cesare, scavezzacollo di manica larga,
dalla generosità irriflessiva, dalla parola pronta e dal gesto vivace, lo prese
in simpatia e non avendo figli (il ragazzo era figlio della figlia di una sua
sorella) se l’adottò, probabilmente pensando di farne il proprio successore.
Dovette essere un amor di contrasto molto forte giacché non era figurabile un
personaggio che potesse essergli così diverso. E fu
una fortuna perché il giovane Ottavio in quel dato momento venne a
rappresentare proprio quel che ci voleva perché finalmente il principato
attecchisse.
A differenza di Cesare che aveva
scatenato il suo destino con l’ostentazione del potere non meno che col potere
stesso, Ottavio aveva una mente fredda, un cuore duro e un temperamento
pusillanime che gli fecero tenere sempre la maschera dell’ipocrisia. Le sue virtù e i suoi vizi erano
artificiali, ma nulla sfuggiva al suo sguardo intelligente e freddo e la sua
regia non trascurava nessuna inquadratura. Era un
abitudinario di rara tenacia, sobrio nelle esternazioni, discreto nelle
apparizioni, costante nelle applicazioni, freddo nelle esecuzioni, gelido e
avaro nei rapporti umani. Senza le idi di marzo sarebbe ugualmente arrivato
dove arrivò, ma la prematura morte di Cesare gli fece
percorrere una via lunga e impervia.
Col tempo, freddamente e con lucida pazienza, seppe avere
ragione di quel Marco Antonio che era il migliore dei generali di Cesare e che,
avendo l’appoggio degli eserciti, si pensava, tutti pensavano (e per primo lo
pensava lo stesso interessato) che ne avrebbe preso il
posto. E quando il suo rivale, col comando dei suoi eserciti, era ancora forte,
Gaio Ottavio (che pur avendo solo 18 anni capì che in quelle condizioni e in
quella situazione non avrebbe potuto reggere a nessun confronto di forza) gli
si alleò, e concluse con lui un accordo che gli servì
per allontanarlo pacificamente da Roma e prendere il tempo per rafforzarsi. Nel
prosieguo, quando la posizione di Antonio, anche per
la scandalosa relazione con Cleopatra, andò a logorarsi, e la sua si era
rinforzata sia politicamente che militarmente, lo attaccò, lo sconfisse e lo
liquidò.
Tornato a Roma Cesare Ottaviano fece processare e uccidere,
incolpandoli dell’assassinio di Cesare, 300 senatori e 2000 funzionari, e ne
confiscò tutti i beni. E a caldo, confondendo con sapienza blandizie e minacce,
si fece conferire dai senatori superstiti l’autorizzazione a conservare il
comando militare anche in tempo di pace e nel cuore stesso dello Stato, creando
una pericolosa eccezione alla antica regola che non
voleva che le legioni potessero stazionare nel territorio metropolitano.
In questa situazione di preminenza, il cauto e prudente
Ottaviano regnò per 49 anni sotto le venerabili insegne della vecchia
magistratura ma radunando nella propria autorità tutti
gli elementi sparsi della giurisdizione civile. Compresi le dignità di
pontefice massimo e di censore. Con la prima acquistò il governo della
religione e con la seconda il controllo legale sui
costumi e sulle vicende del popolo romano.
In campo militare frenò l’espansionismo repubblicano,
persuaso che l’Impero avesse raggiunto i limiti
naturali (ad ovest l’oceano Atlantico, a nord il Reno e il Danubio, ad est
l’Eufrate e a sud i deserti sabbiosi dell’Arabia e dell’Africa: più di tremila
miglia da est ad ovest e più di duemila da nord a sud) che la natura poneva
all’intraprendenza degli uomini (l’occupazione dell’isola di Britannia la si deve all’autonoma iniziativa di Agricola,
anzi Augusto quando il generale manifestò di volere sbarcare nella vicina
Irlanda lo destituì dall’incarico).
Ottaviano non cedette mai ad alcuno la più piccola briciola di potere, non ebbe mai amici e mai ne cercò. Era
puntiglioso e abitudinario, ligio agli orari e sobrio come un funzionario di
banca (almeno delle banche d’una volta), e si scriveva tutto, non solo i
discorsi che doveva pronunciare in pubblico ma anche quelli che teneva in casa con la moglie e con i familiari. Fu
sospettoso e più di una volta crudele: per un’indiscrezione fece rompere le
gambe al suo segretario. E fidarsi della sua sincerità
era tanto pericoloso quanto dare l’impressione di non fidarsene. Anche perché per proteggersi da inesistenti complotti
inventò la polizia, vale a dire quei pretoriani, o guardie del principe, che
dovevano svolgere una così nefasta parte sotto i suoi successori.
Lo scaltro Gaio Ottavio, cui l’adozione dello zio aveva dato
il nome di Cesare e l’adulazione del Senato quella di Augusto,
ripristinando la dignità del senato e distruggendone l’indipendenza, instaurò
una perfetta e assoluta monarchia mascherata dalle forme della repubblica.
Il suo genio si manifestò nella straordinaria abilità con
cui sotto l’apparenza di non modificare nulla ridisegnò completamente lo Stato
romano. Le più alte forme della menzogna politica sono due: quella di chi
dichiara di aver cambiato tutto allo scopo di non cambiare nulla e quella di
chi dichiara di non aver cambiato nulla allo scopo di modificare tutto.
Ottaviano Augusto, che aveva assunto la porpora a 28 anni e
la aveva tenuta per 49, fino alla serena morte che lo colse che ne aveva 77, non poteva preferire che il secondo genere. Difficile forse più del primo ma dei due certamente il meno
rischioso.
3. Tiberio – dal 14 d.C. fino al 37. “Principe
attivo e virtuoso che aveva ricevuto l’educazione di un soldato e possedeva le
attitudini di un generale” dice di lui Gibbon, ma
era cupo e spietato, taciturno e senza slanci,
sprezzante del prossimo e rancoroso.
Governò con rassegnata correttezza, facendo poco ma
facendolo bene. Diffidando dei senatori aumentò la guardia pretorile
a nove coorti, non rendendosi conto del pericoloso precedente che veniva a
creare. E fu proprio con Seiano, suo prefetto del
pretorio, che ebbe inizio quel lento processo di disfacimento della capitale, e
con essa delle istituzioni che non avrebbe avuto fine.
Per frenarlo ci sarebbe voluta la mano ferrea di un gran riformatore, non
quella di questo vecchio scettico che detestava il suo lavoro, la città e il
mondo intero, e che non reggendo all’uggia del governare preferì trascorrere
gli ultimi anni della sua vita nella quiete di Capri, sciaguratamente delegando
all’ambiguo Seiano le sue prerogative. “Voi non
sapete che mostro sia il potere” (“Nescite
quanta belua esset imperium”) rispondeva a chi lo pregava di vincere la
riluttanza e di ritornare a Roma.
Assunse la porpora a 56 anni e la tenne bene per 15, male
nei rimanenti otto. La morte lo colse che aveva 76 anni, probabilmente
liberandolo da un tedio che la bellezza del posto dove si era voluto esiliare
non aveva del tutto lenito. Avanti di morire ebbe la forza di punire Seiano dei suoi arbitrii. Noi amiamo Tiberio; per noi fu
uno dei più grandi imperatori che Roma abbia avuto e
uno dei più calunniati.
4. Gaio (Caligola) – dal 37 al 41. Un
satiro crudele, tuttavia non privo di qualche qualità, che tenne in gran
disprezzo i senatori e le regole repubblicane. Persiste il luogo comune
che fosse pazzo perché aveva fatto senatore il suo
cavallo. Ma non è vero, è che odiava così tanto quel
tempio dell’inutilità e della conservazione che era il Senato che per dileggio
continuamente diceva che “se lo volessi potrei far senatore anche il mio
cavallo”. Ma un po’ schizoide lo era di sicuro
perché alternava momenti nei quali era simpatico, cordiale e spiritoso ad altri
nei quali senza un motivo evidente diventava un pazzo sanguinario. Si narra che
una mattina che s’era svegliato con l’allergia dei calvi fece portare tutti
quelli che lo erano al circo dove tra il divertimento generale li fece dare in
pasto alle belve affamate dalla carestia. Ma ad uno
che, profittando di un suo momento di vena buona, gli aveva rimproverato tanta
stravaganza rispose “E’ vero, ma credi che i miei sudditi valgano più di me?”.
Aveva assunto la porpora che aveva 25 anni. La tenne solo
per quattro perché ne aveva 29 il giorno che il suo
prefetto del pretorio, uomo purtroppo senza spirito, mal reagendo all’ennesimo
insulto, lo pugnalò mortalmente.
Si perse un bel principe e con quell’empio
gesto si instaurò un pericoloso precedente.
5. Claudio – dal 41 al 54. E
mentre che c’erano, i pretoriani vollero scegliersi anche il successore.
E pro domo propria issarono sul trono il babbeo di
casa, quel Claudio già cinquantenne che, svagato e sciancato com’era, con quell’aria perennemente gioconda, tremebondo e balbuziente,
sbevazzone e scimunito, con le sue continue
insensatezze muoveva tutti al riso dando l’impressione d’essere debole e
stupido. Ma si sbagliavano di grosso perché poi Claudio alla prova dei fatti
dimostrò a tutti d’essere un signor imperatore. Svetonio sottolinea le sue
stranezze e ce lo dipinge come schiavo di ghiottonerie e piaceri, completamente
succube dei suoi liberti e delle sue varie mogli, alla cui influenza secondo lo
storico sarebbe da attribuirsi l’uccisione di trentacinque senatori e di più di
trecento cavalieri. Svetonio che fu il cantore della
magnificenza della maestà del senato fa un discorso
smaccatamente di parte, la qual cosa ci conferma che effettivamente con Claudio
cominciarono ad aversi le prime costanti erosioni del potere dei patres coscripti, e
che in realtà si fosse finto pazzo per scampare alla demenza di suo cugino Gaio
mentre non lo era affatto (fece costruire il porto artificiale di Ostia alla
foce del Tevere e una volta - magari ciò non costituisce prova, ma ci piace
dirlo - privò dei diritti civili un greco insigne che s’ostinava a non voler
imparare il latino).
“Claudio debuttò con una buona mancia ai pretoriani che
lo avevano eletto, ma in cambio si fece consegnare da loro gli assassini di Caligola, e li soppresse, per instaurare, disse, il
principio che gli imperatori non si ammazzano” (Montanelli).
Anche se non aveva fatto mai il soldato
ebbe cura delle faccende di guerra: consolidò la presenza romana in Britannia e, pur se a tarda età, quando scoprì la bella
vita e le donne, si prese con accanimento tutti gli arretrati (dei primi 15
imperatori Claudio fu l’unico le cui tendenze in amore fossero del tutto
corrette), anche se con queste non sempre ebbe la mano felice, giacché Messalina
e Agrippina, le due che sposò, erano altamente immorali e scostumate al
massimo. La prima, quando non ne poté più, la fece strangolare; la seconda, che
era ancora più dissoluta della prima, lo prevenne e con l’aiuto del prefetto
del pretorio Afranio Burro, suo amante, lo avvelenò coi funghi.
Possiamo forse dire, per trovargli un difetto, che un poco
dell'antica svagatezza non gli consentì, purtroppo, di osare abbastanza. Aveva
assunto la porpora a 51 anni e l’aveva tenuta per 13.
6. Nerone – dal 54 al 68. Scrive Massimo Fini
che “nessun personaggio storico, ad esclusione forse di Adolf Hitler e di Giuseppe
Stalin, ha mai goduto di così cattiva stampa come Nerone, ritenuto addirittura
l’Anticristo da alcuni autori cristiani come Vittorino, Commodiano
e Sulpicio Severo. Egli fu, in realtà, un grandissimo
uomo di Stato: amante della musica, della poesia, della recitazione, della
scienza e della tecnica, si fece promotore delle più ardite esplorazioni e
durante i 14 anni del suo regno l’Impero conobbe un periodo di pace, di
prosperità, di dinamismo economico e culturale quale non ebbe mai prima.
Certamente fu anche un megalomane, un visionario, uno psicolabile
schiacciato da una madre autoritaria, castratrice e
ambiziosa che gli caricò sulle spalle, a soli 17 anni,
l’enorme peso dell’Impero, mentre lui avrebbe forse preferito dedicarsi alle
arti predilette. Ma ugualmente fu un monarca assoluto
che usò del proprio potere in senso democratico, governando per il
popolo contro le oligarchie che lo opprimevano e lo sfruttavano”.
E’ divertente osservare come la
misericordia dei cristiani diventi sempre, nell’autotutela, ottusa
rabbia e feroce accanimento. Sì, è vero che Nerone dei pochi cristiani delle
catacombe (che, non dimentichiamolo, la gente detestava) fece un facile capro
espiatorio per un occasionale incendio che aveva distrutto la suburra. Il
polacco Sienckiewicz ha fatto inorridire l’onesto
mondo descrivendocelo riccio di capelli, rosso di barbetta e fesso
di voce che suonava garrulo la cetra nel mentre che li dava in pasto ai leoni.
L’immagine è fuorviante quanto disonesta; Sienkiewicz in quanto polacco è un cattolico integralista
che fa propaganda alla sua Chiesa e con gente così è inutile ragionare (Stalin
diceva che è più facile sellare una mucca che far ragionare un polacco).
In realtà Nerone era solo un artista che le vicende del
mondo costringevano a fare l’imperatore. Era un debole e uno stravagante, aveva
un temperamento incostante e irrisoluto e un carattere fatuo e malfermo. Si
credeva un grande artista e alle prese con problemi più grandi delle sue deboli
capacità di concentrarsi, perse il senso della realtà.
Ed è una menzogna anche che nei primi anni di principato si sia segnalato per temperanza e senno. La voce corre sulle
penne di uomini che tendenziosamente vogliono, per una
sorta di corporativa tutela della categoria, dar lustro al loro “collega” Seneca – sì, proprio il grande filosofo stoico -, che al
giovane principe fece da precettore.
A parte che il fatto che il Seneca
filosofo non è neanche lontano parente del Seneca
politico, rimane che il primo atto del giovane Nerone fu quello di far uccidere
Britannico, il figlio quattordicenne di Claudio e di Messalina che riteneva un
possibile rivale. Poi fece uccidere Agrippina, che in quanto
madre voleva avere parte nelle decisioni di governo. E nel prosieguo,
al tempo della congiura dei Pisoni, anche lo stesso Seneca.
A quei tempi l’omicidio politico come atto di preventiva
tutela era un fatto di ordinaria amministrazione, non
ce ne scandalizzeremo noi che deploriamo che Giulio Cesare non vi abbia fatto
ricorso. Né abbiamo ragioni di calcolo che possano
indurci a guardare alla storia ora in un modo e ora in un altro. Per cui il povero Nerone noi preferiamo ricordarlo per la
coraggiosa riforma monetaria che gli procurò la gratitudine del popolo e, di
contro, l’inevitabile malevolenza dei latifondisti e dei senatori.
Poi forse è vero che nel cervello qualcosa gli si guastò,
probabilmente fu per colpa d’una qualche malattia
venerea. Si perse tra la scostumata madre (Agrippina) e la debosciata moglie (Poppea) e smarrì il contatto con la realtà. Divenne
paranoico, si disinteressò del governo, si diede totalmente
alla recitazione e al canto, si coprì di ridicolo.
Ma la sua morte lasciò nel popolino un rimpianto che il
tempo non estinse ed è certo che per anni, con
fiducia, molte generazioni ne abbiano atteso il ritorno. Ciò perché molto
Nerone aveva fatto per loro, con elargizioni di grano come mai prima d’allora e
neanche dopo, ed era sollecito anche dei loro umori (i giochi, il circo, gli
spettacoli gladiatorii, e c’è poco da irridere: da
allora ad oggi i costumi e i vizi della gente sono cambiati meno di quanto non
si pensi). Promosse e condusse opere di bonifica utili e imponenti. Con un
nuovo piano regolatore fissò l’ampiezza delle strade e l’altezza degli edifici,
che dovevano essere costruiti almeno in cemento e almeno in parte in materiale
antincendio. Per il pensiero che aveva dei miserabili e per la spiccata voglia di abbellire il mondo risanò il suburbio, fatiscente
bidonville di quei tempi; bonificò la palude pontina;
fece tagliare l’istmo di Corinto. E con coraggio varò
e impose una riforma fiscale e monetaria avanzatissima, progredita e giusta in
una società troppo oligarchica dove la vita e i bisogni della gente povera (i “capitecenses”) contavano quanto quelli d’un animale.
Tanto bastò per alienargli per sempre la benevolenza dei ceti dominanti, di
quelli che fanno scrivere la storia, di quelli che nel popolo affamato vedono sempre l’irriducibile nemico di classe. E conseguentemente anche della chiesa cattolica la quale poco cristianamente gli porta un odio feroce e inestinguibile.
Sì, non si può negare che alcuni cristiani li fece
crocifiggere (la crocifissione allora era la pena consueta per i malfattori
comuni e per i ladri di strada) e che, a grande richiesta del popolino che i
cristiani (da esso impropriamente confusi con i Giudei) li detestava, qualcuno
o più di uno, negli spettacoli circensi, effettivamente lo diede in pasto alle
belve, ma quei fanatici, spina piantata in ogni fianco che voglia respirare laicamente, lavoravano nell’ombra per costruire quella
metastasi che nel giro di due secoli avrebbe distrutto l’Impero.
In un mondo permeato di plutocratismo
capitalista, di cattolicesimo controriformista e di buonismo
postcomunista, come può sperare l’infelice Enobarbo di trovare giustizia? Ad onta di quel perdonismo
cattolico che tutto assorbe e assolve, egli è stato bollato di sempiterna
infamia, tirandosi ogni volta fuori i suoi delitti, ricordandosi ad ogni pie’ sospinto che mentre Roma bruciava lui si sollazzava
con lo strumento in mano. Né un solo momento si dimentica che costrinse al
suicidio il suo vecchio maestro (il venerabile Seneca,
un sordido usuraio, che predicava bene e razzolava male), e che uccise sua
madre (quella santa donna di Agrippina). Ritorno a dire che i suoi delitti non furono né maggiori né diversi
di quelli di sovrani “virtuosi” come Augusto o come il grande (e santo)
Costantino (che senza una ragione plausibile fece uccidere la moglie, il
figlio, il cognato e il nipote), e di chiunque allora avesse comando.
Non gli si riconosce neppure che non fece una guerra.
Fu un sovrano assoluto, ma erano quelli i tempi. Non
possiamo giudicare le cose di duemila anni fà con gli
occhi di adesso. Allora il dispotismo era un fatto del tutto naturale, e lo sarebbe stato fino alla rivoluzione francese. Anche i papi,
principi della santissima Chiesa illuminati dallo spirito santo
sono – ancora oggi - dei sovrani assoluti. Nerone era un debole e si faceva
facilmente condizionare. E non gli importò mai
abbastanza di governare. Questi semmai furono i suoi difetti.
E li pagò a caro prezzo. Ma
erano difetti di natura personale, non d’impronta sociale.
Chi lo combatte, chi lo denigra, chi lo ha dannato “in aeternis” non aveva e non ha
certo più a cuore di lui il bene del popolo e dello Stato, e nessunissimo amore per l’arte.
Domizio Enobarbo, detto Nerone (in
dialetto sabino “forte”) aveva assunto la porpora a
17 anni e l’aveva tenuta per 14, fino alla morte che
per paura e con mano tremante egli stesso si diede all’età di 31 anni.
Per molti anni la sua tomba è rimasta coperta di fiori
freschi.
7. Galba – dal 68 al 69. Buono a governare
qualche provincia, non I’Impero. Era avaro, non aveva
senso politico, non aveva fascino. Appena proclamato
imperatore il suo primo gesto fu di ordinare a quanti avevano ricevuto doni da
Nerone di restituirli allo stato. Ciò gli costò il trono e la vita
perché tra i beneficiati c’erano anche i pretoriani che, incontratolo nel foro
dove egli si faceva portare con la lettiga, gli tagliarono la testa, le braccia
e le labbra, dopo di che proclamarono suo successore tale Otone
che essendo un banchiere che aveva fatto bancarotta fraudolenta prometteva di
amministrare le finanze pubbliche con la stessa spensieratezza con cui aveva
amministrato quelle private. Così il povero Galba che
aveva assunto la porpora a 71 anni poté tenerla per
soli sei mesi. Svetonio si duole che con Galba si siano introdotti i pericolosi precedenti che
l’imperatore poteva essere eletto anche fuori di Roma e che “un senatore di oscura origine italica poteva raggiungere il posto più
alto in assoluto”, ma Svetonio, si sa, è un
conservatore oligarca e amico degli oligarchi per il quale qualsiasi novità
costituiva un pericoloso salto nel buio.
8. Otone – nel 69. Non aveva né carattere né
sangue freddo. Quando capì che nemmeno col tesoro di Priamo avrebbe
potuto coagulare il consenso generale o almeno comprarsi la protezione
dei pretoriani, quando seppe che i generali Vitellio
dalla Germania e Vespasiano dall’Egitto stavano ritornando a Roma per deporlo,
scioccamente si diede la morte. Assunse la porpora a 37 anni e la tenne per
neanche tre mesi.
9. Vitellio – nel 69. Giunse per primo Vitellio che fu acclamato Augusto. Ma
anziché curarsi di Vespasiano che sopravveniva, brutalmente s’abbandonò alla
sua passione preferita che era quella dei pranzi luculliani. E per
seguitare ad abboffarsi d’abbacchio tralasciò
d’aspettarlo ad Anzio, dove, sbarcando le legioni dalle numerose navi, egli
avrebbe potuto sorprendere il rivale in una posizione di debolezza. Nel feroce
regolamento di conti che ne seguì nella capitale, lo stesso Vitellio,
scovato a banchettare in un nascondiglio segreto, fu trascinato con un laccio
al collo nudo per la città, bersagliato di escrementi,
torturato con ponderata lentezza e alla fine gettato nel Tevere. il Wells lo definisce crudele,
golosissimo, corrotto. Aveva tenuto la porpora per 7 mesi.
10. Vespasiano – dal 69 al 79. “Il suo cranio
era completamente calvo, il volto aperto, rozzo e franco, incorniciato da due
orecchie grandi e pelose” (Svetonio). Detestava
gli aristocratici e non subì mai la tentazione di farsi passare per uno di
loro. I suoi meriti furono più utili che fulgidi, ma (o proprio per questo)
come imperatore fu grandissimo: sagace, prudente,
equilibrato, scaltro, ironico, diffidente e anche non immotivatamente
spietato. Le sue parole d’ordine erano due, disciplina
e risparmio. Le sue campagne militari sul Reno, in Britannia,
in Oriente e in Africa ristabilirono la sicurezza dei confini.
Nell’amministrazione della cosa pubblica risollevò le
finanze vendendo a prezzi salatissimi le cariche (la prassi sarebbe divenuta
tristemente consueta, secoli dopo, con i papi). “Tanto
– diceva – son tutti ladri, in qualunque
modo li promuoviamo”. Per il fisco scelse gli esattori più rapaci e dissanguatori che ci fossero
(dovette avere, pensiamo, l’imbarazzo della scelta) e li sguinzagliò con pieni
poteri per tutte le provincie dell’Impero. Quando la
rapina fu consumata e tutti i deficit furono colmati
li richiamò a Roma, li elogiò e confiscò tutti i loro personali guadagni. E meritoriamente, con le eccedenze di bilancio, soccorse le persone
più povere.
Riempì le città di gabinetti pubblici (che da allora portano
il suo nome) facendosene impietosamente pagare l’uso. Al virtuoso figlio che
gli rimproverava questa crudeltà, mettendogli sotto il naso una moneta urlò, “Che,
forse puzza?!!”.
Vespasiano fu un uomo sagace, con uno spirito sardonico e
con le virtù tradizionali della campagna italica da cui proveniva la sua
famiglia. Il suo ritratto sembra corrispondere al suo carattere. La sua morte
giunse inattesa e fu dovuta in parte al suo rifiuto di
curare seriamente un accesso di febbre e disturbi diarroici. Preso
all’improvviso da uno spasmo particolarmente violento, disse: “Un imperatore
doveva morire in piedi”, e morì mentre faceva ogni sforzo per alzarsi.
L’humour terragno ben si attaglia
al suo carattere, come pure l’altra frase che disse sul letto di morte: “Povero
me! Credo che sto per diventare un dio. (C.M. Wells)
Aveva assunto la porpora a 66 anni e l’aveva tenuta per
quattro. Morì, di morte naturale, che ne aveva 70.
11. Tito
– dal 69 al 71. Quel candido che non si capacitava che si potesse trarre danaro anche dalle vesciche della gente era suo figlio Tito.
Il galantomismo, la generosità, la dabbenaggine con Tito s’erano fatti persona,
tant’è che ci fu chi – con
una piaggeria invero sproporzionata alle necessità - lo chiamò “delizia del
genere umano”.
Nei suoi due anni di regno il buon Tito non dichiarò una
guerra, non firmò una condanna a morte, non si fece un nemico. Nei suoi due
anni di regno Roma fu devastata da un incendio, Pompei dal terremoto e l’Italia
intera da una tremenda pestilenza. Tito per riparare i danni prosciugò quel
tesoro che suo padre s’era dannato l’anima a costruire. Per assistere i malati
si contagiò e a 42 anni perse egli stesso la vita.
Fu rimpianto da tutti tranne che da suo fratello Domiziano
che gli succedette sul trono.
12) - Domiziano – dall’ 81
al 96. Quanto era dabbene Tito tanto era duro e risoluto costui. Taluni dicono
spietato, e al riguardo Dione Cassio sostiene che non sia stato estraneo
nemmeno alla morte del fratello, del quale era geloso, e che glie l’abbia procurata, o affrettata, quando quello prese
l’infezione, coprendolo di neve.
Privo del candore del fratello e di questi più somigliante a
quel singolare geniaccio che fu il padre, Domiziano fu, secondo noi, un gran
sovrano.
Era un cupo moralista giacché s’era avveduto come il
lassismo e il disfattismo stessero portando l’elemento
romano alla marginalità e come, nel frattempo, nella società con prepotenza
s’innestavano elementi di una equivoca cultura orientale (quali, da un lato,
confuse forme di misticismo che sfociavano nel nichilismo e dall’altro la
canagliesca furberia tipica dei levantini), che non riconoscevano più nello Stato
e nella famiglia l’elemento coagulante.
Fu un fermo e severo custode dell’ordine pubblico e della
moralità. Fu anche per questo, cioè perché riteneva
che esse ormai fossero un lusso che i romani non potevano più permettersi, che
non volle far guerre (anche se le poche, di difesa, che non poté esimersi dal
fare le fece egregiamente).
Molti storici sostengono che intorno ai 45 anni egli sia di
colpo diventato un pericoloso paranoico e un micidiale assassino. Mise una tassa sui Giudei, già allora forse particolarmente ricchi,
fece condannare a morte tutti i potenziali nemici, senza dimenticare anche
quell’Epafrodito che, avendo 25 anni prima aiutato a
morire il povero Nerone poteva forse averne preso il vizio.
Noi non disponiamo degli strumenti
clinici per indagare le cause di questa repentina metamorfosi, né vogliamo fare
come certi bardi del democratismo ad ogni costo che confondendo il
passato con il presente hanno creduto di individuarla nella natura stessa di
quel potere che “quando non è temperato imputridisce il sangue dei sovrani”
(Montanelli).
Siamo della modesta ma ferma opinione che in quei tempi
questi non fossero abusi ma prerogative, e che di
norma tutti i sovrani, chi di più e chi di meno, se ne avvalevano (che dire per
esempio delle collere omicide del grande Alessandro, che forse furono più i
generali suoi che uccise che quelli nemici?). A parte il fatto che nella
montante corruzione dei costumi morali c’erano anche delle buone ragioni perché
i principi se ne avvalessero. Rimane comunque il fatto che, poco tempo dopo, dei congiurati che
temevano per la loro vita, aiutati dall’imperatrice sua moglie l’aggredirono
che dormiva e con gran fatica lo uccisero.
Montanelli di Domiziano ha scritto che “per
15 anni aveva regnato come il più saggio, e poi come il più nefasto dei sovrani”.
Ci sentiamo di sottoscriverne l’affermazione, sia per il rispetto che Montanelli merita e sia perché Domiziano
in effetti non durò molto più di quei 15 anni che lo storico
loda.
13. Nerva – dal 96 al 98. Prima ancora di
eliminare Domiziano, i membri della congiura si erano assicurati il consenso di
Marco Cocceio Nerva, che
quindi il giorno stesso venne assunto al potere con la
ratifica del Senato. E’ chiamato “il buon Nerva” per
l’esclusiva ragione che andò sempre d’amore e d’accordo con il Senato, dalle
cui fila veniva e al quale – come abbiamo visto - doveva
la nomina. Era imbelle e onesto, ma non era stupido. Anzi, era perfino
sospettoso. Tanto che temendo che i suoi ex colleghi
gli facessero fare la stessa fine che, con la sua stessa complicità, avevano
fatto fare al suo predecessore, cercò di procurarsene col denaro la
benevolenza. Dati i tempi e l’avidità di quegli esimi moralisti non ci è difficile supporre che abbia dovuto dare di fondo a
pressoché tutto il patrimonio della corona. Si cercò con scrupolosa cura un
successore che fosse degno della suprema carica e,
soprattutto, dei “desiderata” dei senatori che avrebbero dovuto
ratificargliela, e dobbiamo riconoscere che con Traiano
ci riuscì benissimo.
Aveva assunto la porpora a 66 anni, e la tenne
per due.
14. Traiano – dal 98 al 117. Era il comandante
supremo degli eserciti di stanza in Germania, che erano - come dire? - la polpa
delle forze imperiali. Era alto e robusto, di costumi spartani e d’un coraggio a tutta prova e senza esibizionismi; aveva la
mente di un funzionario ed era un formidabile lavoratore. Nelle sue molteplici
attività di comando l’una qualità moderava e sosteneva
costantemente le altre. Fu un sovrano temperato e saggio che credette più alla buona amministrazione
che alle grandi riforme, che escluse la violenza ma seppe ricorrere alla forza.
Fu un conservatore illuminato, fortunato e magnifico, che molto si curò della
sicurezza dello Stato e della salute dei cittadini. Soleva ripetere che da
imperatore cercava di comportarsi come da privato avrebbe voluto che il suo
imperatore con lui si comportasse.
Quando infatuatosi del grande Alessandro e
volendone ripercorrerne le orme portò le insegne di Roma fin sulle soglie
dell’oceano Indiano, l’Impero raggiunse la sua massima espansione. Le sue
conquiste militari lo ampliarono fino alla Dacia, all’Arabia, all’Armenia e
alla Mesopotamia, che vennero
acquisite in successive campagne dal 101 al 117.
Assunse la porpora a 45 anni e la tenne per 19, fino alla morte che lo colse che ne aveva 64.
15. Adriano – dal 117 al 138. Per giusta
antonomasia viene definito il più moderno degli
imperatori romani, giacché seppe essere nella più giusta misura pacifista,
progressista e cosmopolita, e miracolosamente riunì in sé le molteplici
attitudini del soldato, del politico e dello studioso. Moderato e prudente,
indietreggiò le armi romane sul vecchio limitare del fiume Eufrate ritenendo
troppo lontane e difficilmente difendibili quelle regioni fino alle quali, per
la sua infatuazione senile per le gesta del grande Alessandro, il suo predecessore
s’era avventurato.
Nel contempo con molta lungimiranza avviò la romanizzazione delle marche di frontiera dell’immenso Impero,
incentivando lungo le rive inferiori del Danubio il
sorgere di quei molti insediamenti civili che col tempo avrebbero felicemente
contaminato l’un con l’altro l’elemento romano e quello barbarico. Tuttavia non
smise mai un’attenta vigilanza delle frontiere, e la famosa frase “si vis pacem para bellum”, che pienamente ne rispecchia il carattere
pacifista ma non imbelle, la coniò lui.
Non ci fu provincia dell’Impero che non visitò e, marciando
a piedi e a testa nuda sulle nevi della Caledonia come
nelle afose pianure dell’alto Egitto, tutto volle vedere e di tutto volle
rendersi personalmente conto. Ora rigoroso sofista, ora sospettoso tiranno, fu
nel complesso un principe magnifico e assoluto che, senza umiliarla, avvilì la
sclerotica istituzione senatoriale.
Una naturale inclinazione allo stoicismo, rafforzata dallo
studio dei filosofi greci, ne temperò mirabilmente il carattere complesso e
contraddittorio. Era mite senza essere arrendevole, era gentile e di buon umore
con tutti, ma talvolta fu duro fino alla crudeltà.
In privato irrideva agli dei ma
nelle funzioni pubbliche (il sovrano era anche pontefice massimo) erano guai
per chi dava a far vedere un solo cenno d’irriverenza. Gli piaceva mangiare
bene ma detestava i banchetti. Fu un minimalista molto intelligente ma non
rinunciatario e per nulla indifferente alla sostanza del potere, del quale
detestava solo le pacchianeria e le perdite di tempo. E l’asserita circostanza che talune volte per trarsi
d’impaccio e liberarsi di qualche pericolo, si sia avvalso di certi metodi
spicci confermerebbe secondo noi, piuttosto che negarla o diminuirla, la sua
grandezza.
Amò le belle arti di sincero amore e innalzò in Roma e
altrove edifici la cui originalità e bellezza sfidano
il tempo (il Pantheon, la stupenda città di Tivoli, il Castel
Sant’Angelo quale suo mausoleo, e altri ancora). Fu
rigoroso nel mantenere le distinzioni sociali e il pubblico decoro.
Anche a lui, come al suo predecessore, va
ascritto il merito d’essersi scelto un buon successore. Aveva assunto la
porpora a 41 anni, e la tenne per 21.
16. Antonino Pio – dal 138 al 161. Invece, i viaggi
più lunghi di Antonino Pio furono quelli che lo
condussero dal suo palazzo di Roma al rifugio della sua villa di Lanuvio. E forse anche per questo gli storici inclinanti
verso la conservazione lo chiamarono Pio, anche se sopra tutto
lo fecero perché quest’Antonino santamente risollevò
e onorò la casta senatoriale, e non scontentò mai nessuno, né mai mise a morte qualcuno.
Era proprio un bacchettone, anzi un gran bigotto. Ma per da un certo punto di vista era proprio quel che ci
voleva, dopo quell’Adriano gran filosofo sì ma anche sovranazzo bizzarro e turbolento.
Il nuovo principe non ebbe mai nemici (o mai ne vide, come
mai vide, o volle vedere, le abbondanti corna che la vivace moglie,
comprensibilmente stanca d’un marito così noioso,
prodigalmente gli piantava sulla fronte).
Era così onesto e bene intenzionato che appena gli dissero
che era diventano imperatore versò la sua immensa
fortuna privata nelle casse dello Stato. E alla sua
morte il suo patrimonio personale era ancora ridotto a zero mentre quello dell’Impero
era floridissimo.
Con lui, per la prima volta, i diritti e i doveri dei
coniugi furono parificati, a conferma del fatto che i mariti son sempre gli ultimi a sapere delle corna che hanno in testa, la tortura quasi del tutto abolita e
l’uccisione di uno schiavo proclamata delitto. In campo civile e militare
temperò le più ardite innovazioni prese dal suo predecessore, fu sedentario al
massimo e non volle arrischiare guerre neanche quando sarebbe stato necessario
farne, tanto che durante il suo principato talune tribù del nord ripresero baldanza.
Aveva assunto la massima carica dello Stato a 52 anni e la
tenne fino alla morte per vecchiaia che lo raggiunse
che ne aveva 75. Morì sereno sul suo letto, a coerenza di come
era vissuto e di come aveva fatto vivere nei suoi 23 anni il regno e l’Impero.
17. Marco Aurelio – dal 161 al 180. Intellettualmente
portato alla riflessione, e misurato, ieratico e casto, probabilmente sarebbe
divenuto un meritorio maestro dello stoicismo di matrice ellenistica se
l’imperatore Adriano, intravistene a tempo le qualità
intellettuali e morali, non lo avesse “raccomandato” ad Antonino e questi non
gli avesse conferito il rango di Cesare (mentre il sacro titolo di Augusto veniva riservato al monarca, quello di Cesare
perché quello di Cesare,
che contemplava anche il diritto alla successione, veniva conferito alla
seconda autorità dello stato).
E pensatore e filosofo lo rimase
sempre.
Giusto e caritatevole col genere umano e indulgente con le
imperfezioni degli altri, era severo con sé stesso e si adattò al comandare con stoica rassegnazione ed elevato senso del dovere. I
tempi non erano più quelli felici di Traiano e di Adriano perché, incoraggiati dalla arrendevolezza di
Antonino, longobardi, quadi, marcomanni,
sarmati e persiani avevano rialzato la testa e
portavano continue azioni di disturbo sugli insediamenti e sugli accampamenti
di confine. Marco Aurelio, infaticabilmente sbattendosi da una parte all’altra
dell’Impero, con una campagna di guerra lunga sei anni
ripristinò ovunque l’ordine e l’onore di Roma.
Ascetico e malinconico, mite e fiducioso, assorto nel suo
sacerdozio di ”primo servitore dello stato”, Marco Aurelio ebbe con la moglie
Faustina dei seri problemi coniugali. Non se ne lamentò mai e quando ne rimase
vedovo la deificò. La fedifraga era una delle figlie di Antonino
Pio – l’asserzione, per quella che è il ruolo che nella congiunzione carnale
attiene al padre - è da prendere col beneficio del dubbio - e così come la
madre aveva fatto col suo, aveva piantato sulla sovrana testa del marito un
numero impareggiabile di corna.
E non solo! Gli regalò anche, con un
gladiatore che in quei tempi andava per la maggiore, quel
Commodo che, quando gli succedette, purtroppo interruppe
la bella sequenza di buoni sovrani che, da Nerva in sù, durava da più di ottant’anni.
Marco Aurelio a causa della longevità di Antonino
assunse la porpora che aveva già 40 anni e la tenne fino alla morte che lo
colse che ne aveva 59.
18. Lucio Vero – dal 161 al 169. Imperatore
collega di Marco Aurelio, il quale sentendosi, per tutti gli scrupoli che
aveva, inadatto a portare sulle spalle da solo il mondo intero, se l’era
associato al trono. Costui gli andò dietro alquanto svogliatamente, sospirando
ognora una vita più comoda. Tenne la porpora per otto anni, giacché a 39 anni
un colpo apoplettico lo spense.
Rimasto solo, il paziente e infaticabile Marco si guardò bene dal ripetere l’esperimento e preferì fare tutto
da solo. Le croci che il destino gli dava le portava pure bene, ma da qui ad
andarsene a cercare di nuove...
19. Commodo – dal 180 al 192. Il principato
ebbe il suo secolo d’oro quando gli imperatori si attennero alla norma di adottare
i loro eredi scegliendoli tra i più meritevoli per le attitudini e la
moderazione. Ma durò fino a quando il saggio Marco
Aurelio con scarsa saggezza e poca lungimiranza incoronò il figlio Commodo che vantava i diritti del sangue (in vero neanche
quelli, ma Marco Aurelio non lo sapeva), ma non quelli del merito, e fu da lì
iniziò il declino.
Commodo era debole e ben presto divenne
vizioso e corrotto; era l’antitesi di suo padre filosofo che traeva forza
dall’enfasi stoica del dovere (“il più bel fiore del paganesimo che andava
logorandosi” definisce il Wells Marco Aurelio), e
rapidamente, quando, morto Marco Aurelio ne prese il posto (morte alla quale fu
estraneo, anche se a molti piace far credere il contrario), concluse
con i nemici, su tutti i fronti, delle paci così sconsiderate e frettolose che
costoro sen ne stupirono.
Ma Commodo
non era un codardo. Solo che gli unici combattimenti che prediligeva erano
quelli gladiatorii (quando si dice il
sangue...). E nell’anfiteatro, dove, temerario e feroce, scendeva lui
stesso per misurarsi con altri gladiatori e con orsi, leoni, tigri e
coccodrilli, raggiunse i vertici della fama e dell’infamia.
Lussurioso, megalomane, stravagante, sconsiderato,
sanguinario, crudele, incapace di pietà e di rimorso nonché
giocatore e bevitore accanito, non c’era giorno che al circo non tenesse degni
spettacoli. Per questo il popolino delirava per lui come oggi
delira per i divi degli stadi di calcio.
Invece a corte, impressionabile e
sospettoso com’era, instaurò un clima di invivibilità totale giacché
tutto dipendeva dai suoi balzani umori, anche se di fatto aveva ceduto
l’amministrazione a pessimi ministri come l’ambizioso Perenne e l’avido
Oleandro, disinteressandosene completamente.
Per Gibbon Commodo
fu il primo imperatore romano ad essere “del tutto privo dei frutti dell’intelligenza”. Lo uccise, spinto dal timore più che
dall’ambizione, e giovandosi di ampie complicità,
Leto, il capo dei pretoriani.
Il dissoluto Commodo, che
l’infedeltà di una sposa aveva innaturalmente congiunto al nome e alle vicende
del più giusto e nobile degli imperatori, aveva tenuto la porpora per 12 anni,
dopo averla assunta a 19.
20. Pertinace – nel 193. Il generale Publio Elvio
Pertinace quando lo acclamarono Augusto se ne
rammaricò apertamente. In effetti non aveva tutti i
torti a voler restare sul comodo scranno di senatore, perché a voler governare
sul serio c’era da farsi molti nemici, e in quel periodo anche i comandanti
degli eserciti, che da un pezzo andavano dicendo di sentirsi trascurati,
costituivano una pericolosa incognita.
Ma c’era anche che non se ne sentiva
capace. Era pavido e meschino, calcolatore e falso e non ebbe mai né
autorevolezza e né autorità. Dopo due mesi lo trovarono morto, ucciso dai
pretoriani che ormai erano loro che facevano e disfacevano
gli imperatori. Costoro dopo il delitto arrogantemente annunciarono
che il trono di Roma era all’asta e che lo avrebbero dato a chi offriva più
soldi.
Pertinace aveva assunto la porpora a 67 anni e l’aveva tenuta solo due mesi.
21. Didio Giulio – nel 193. Con 6250 dracme per ogni pretoriano Didio Giulio la spuntò su Sulpiciano. Era un banchiere miliardario e l’ingente cifra
che sborsò se pareggiava la sua immensa ambizione non colmava tuttavia
l’avidità dei miliziani. Aveva 60 anni ma da sovrano campò solo due mesi. Lo
uccisero i pretoriani per il motivo che andremo a dire
trattando di Settimio Severo.
22. Settimio Severo – dal 193 al 211. Quando Settimio
Severo, un generale dislocato in provincia, seppe dell’asta
corse a Roma e offrì ai pretoriani il doppio di quello che aveva offerto
Didio. Costoro non si fecero pregare, inseguirono il malcapitato sovrano anche
nella stanza del cesso dove si era precipitato per rincantucciarsi, gli
tagliarono la testa e ancora calda la portarono al nuovo offerente, il quale
senza fiatare pagò il pattuito.
Settimio Severo, che era un africano di origine
ebrea, non era solo un gran generale, ma era un uomo che parlava poco e agiva
molto, e in ogni situazione seppe benissimo come cavarsela. Altero e
inflessibile, vinta che ebbe la partita per l’acquisizione del comando dell’Impero,
mise a morte tutti gli oppositori: veri, falsi, presunti o potenziali che
fossero e, considerando l’Impero una sua proprietà personale, trasformò il
principato in una monarchia ereditaria di tipo militare. Cassio Dione ci dice
che “esaltò la crudeltà, denigrò la clemenza, ed attaccò i senatori, la loro
ipocrisia e la loro vita dissoluta e che il senato lo ripagò con la sua
avversione”.
Non è altrimenti spiegabile la avversione
che la maggior parte degli storici moderni ha di questo grande imperatore se
non col fatto che costoro, gli storici moderni, più o meno inconsciamente
ritengono che sarebbero stati senatori se fossero vissuti in epoca romana.
Sicuramente occorreva proprio un repulisti di questo genere
per potersi allontanare da quella nefasta capitale con qualche possibilità di
tornarvi, così come ci voleva il pugno di ferro per indigare
la catastrofe che da tutti i lati incombeva.
Settimio Severo che non era uno stoico alla Marco Aurelio o
un intellettuale alla Adriano fece onore al suo nome.
Era un provinciale diritto e onesto, ma anche un cinico non abituato a farsi,
nel disbrigo delle cose, eccessivi scrupoli.
Governò, quasi sempre
guerreggiando, per sette anni, e quando si rivolse al Senato fu solo per
impartirgli degli ordini. Combatté un seguito di guerre fortunate, non solo per
difendere i confini, ma anche per tenere in costante all’erta le guarnigioni e
i loro comandanti. Per lui l’esercito era la forza e la salute dell’Impero e di
esso si curò più di ogni altra cosa. Istituì la leva
obbligatoria esentandone solo gli italiani che riteneva
dei rammolliti non più adatti a combattere.
Era probabilmente la verità, ma quest’atto
costituì il precedente di una consuetudine che col tempo avrebbe reso l’Impero
ostaggio dei generali germanici e danubiani. E al fine
d’incentivarli, ai guerrieri barbari che s’arruolavano
concedeva a fine carriera la cittadinanza romana.
Il grande Settimio Severo morì, che quasi stava ancora sulla
sella del suo cavallo, nel corso d’una campagna in Britannia. Ebbe il tempo di pronunciare la frase “Sono
diventato tutto quel che ho voluto e mi sono reso conto che non ne valeva la
pena”.
Non facciamo fatica a riconoscere che lo scellerato Commodo ebbe a divertirsi ben più di lui. Ai figli Caracalla e Geta cui lasciava il
trono, raccomandò di non lesinare quattrini ai soldati e d’infischiarsi di
tutto il resto.
Aveva 57 anni e aveva tenuto lo scettro per 18 anni nei
quali, eroicamente e senza clamore, aveva salvato tutto ciò che era possibile
salvare.
23. Pescennio
Nigro – dal 193 al 195. Nell’anno in cui Severo prendeva il
potere, gli aristocratici, vagheggiando un impossibile ritorno a quella
repubblica che consentiva ai più ricchi le migliori possibilità, spinsero quest’uomo ad autoproclamarsi
imperatore. I senatori com’era logico lo sostennero,
anche se temendo l’ira di Severo si guardarono bene dall’assumere una posizione
chiara. In questa condizione di semi legittimità Pescennio
Nigro, che nel 193 aveva 62 anni, durò quasi due
anni.
Poiché non mise mai piede in Roma non
disponiamo di altre notizie.
24. Clodio Albino – dal 195 al 197. Modesto generale,
ambizioso e furbo piuttosto che intelligente, s’appoggiò anche lui al Senato (o
il Senato, uscito di scena Pescennio Nigro, s’appoggiò a lui), in opposizione a Settimio Severo che
invece s’appoggiava ai soldati. Quando le questioni di
siffatto genere vanno a risolversi sui campi di battaglia chi ci perde sono
sempre i dilettanti.
Questo usurpatore tanto baldanzoso
quanto sprovveduto si proclamò imperatore che aveva all’incirca 40 anni. Alla battaglia fatale ne contava
solo due in più.
25. Caracalla – dal 211 al 217. Fu un altro Commodo, né più e né meno. Con la sola
differenza che quello era un goliarda assassino,
mentre questi fu un assassino goliarda.
Seccato di dover dividere, come avrebbe voluto il padre, il potere col
fratello, sbrigativamente lo fece assassinare. Quindi
condannò a morte 20 cittadini sospetti di parteggiare per lui.
Era un amorale che pensava solo a divertirsi e la sua
licenza non conosceva freni. Delegò l’amministrazione della cosa pubblica a sua
madre perché anche lui andava pazzo per gli spettacoli circensi e gli scontri
con le fiere, e d’altro non voleva curarsi.
Un bel giorno che anche a lui gli venne
l’ùzzolo di imitare le gesta di Alessandro Magno,
reclutò una falange armata e vi si mise alla testa per correre verso il Gange.
Sotto il sole cocente e in mezzo al deserto
dell’Arabia i suoi ufficiali posero di brutto fine ai suoi deliri di
magnitudine e alle loro sofferenze.
Era salito al trono all’età di 23 anni e vi era durato sei
anni. Nel 212 concesse la cittadinanza romana a tutti gli
abitanti dell’Impero.
26. Geta – nel 211. Minore d’un anno di Caracalla, del quale probabilmente era migliore e col quale
avrebbe dovuto dividere le fatiche del governare, fu dai sicari di quello
subito assassinato giacché una convivenza in quei tempi non era possibile, e
perché in questo genere di situazioni quasi sempre è
il migliore (o il meno protervo) che soccombe. Aveva appena 22 anni.
27. Macrino – dal 217 al 218. Primo sovrano non
proveniente dalla casta senatoriale, portò sempre con sé un acuto senso di inferiorità nei riguardi delle istituzioni d’élite. Per
ingraziarsi i ceti aristocratici, cui era estraneo, si giocò il favore
dell’esercito, per rimanere alla fine solo e inerme.
Assunse la porpora a 53 anni e la tenne per circa un anno,
fino alla morte “manu
militari” che gli fu data che ne aveva 54.
28. Eliogabalo – dal 218 al 222. Quegli ufficiali
che sotto il sole d’Arabia s’erano liberati di Caracalla,
lì stesso e su due piedi nominarono imperatore un ragazzo di 14 anni, tale Eliogabalo, che per essere
nipote di Caracalla faceva parte della corte.
Pensavano che la sua giovane età li avrebbe preservati almeno per qualche anno
non solo dall’arbitrio e anche dall’autorità d’un vero
sovrano. Ma non potevano scegliere di peggio.
Eliogabalo già a quell’età
era un vizioso, uno smidollato, un sibarita, un esaltato, un pervertito, un
pazzo. Nonché omosessuale scostumato e dichiarato. La
nonna, che poi era la moglie del grande Settimio Severo e che come madre di Caracalla reggeva di fatto le
redini del governo, inorridita, con un pragmatismo che il marito avrebbe
certamente apprezzato, lo fece sopprimere insieme con la madre.
Ciò fatto fece nominare al suo posto un altro suo nipote,
Alessandro Severo. Il vizioso e depravato Eliogabalo
aveva tenuto la porpora (si fa per dire) per quattro anni, in un disgustoso
crescendo di insanità morale
e mentale.
29. Alessandro Severo – dal 222
al 235. Aveva anche lui 14 anni, ma di suo cugino Eliogabalo
era l’esatto contrario. Ascetico, severo, ispirato, misurato e stoico, era del
tutto refrattario a versare sangue, fosse anche quello dei nemici di Roma, i
quali ne trassero l’impressione di una indecorosa
debolezza.
Quando i legionari s’avvidero di stare
perdendo, a causa di questo suo esasperato pacifismo, i grossi privilegi che si
erano conquistati con Settimio Severo e con l’ultimo Caracalla,
lo uccisero e gli uccisero, con tutto il seguito, quella sua nonna che aveva
una rilevantissima parte nelle decisioni del giovane
sovrano.
Eliminatili, gli ufficiali volendo andare sul
sicuro acclamarono imperatore il generale comandante dell’esercito di Pannonia (l’attuale Ungheria, che per essere una zona altamente strategica era presidiata dai soldati e dai
generali migliori), Giulio Massimino.
Alessandro Severo finì la sua esperienza mondana che aveva
27 anni, dopo 13 di regno. Con i sistemi di ricambio che si usavano allora, e
tenendo conto del fatto che morì di morte violenta, non si può dire che sia
durato poco.
30. Massimino
I – dal 235
al 238. Fu il primo imperatore barbaro. Era un contadino Trace
di indole selvaggia, brutale, incolto e fisicamente enorme,
ed era anche un gran generale, valoroso e duro. Ma psicologicamente
era fragile. Subì sempre il complesso d’inferiorità delle umili origini, anche per il fatto che non capiva il greco e parlava con fatica il
latino. Così che nei tre anni di regno non mise mai piede né
a Roma e neanche in Italia.
Per finanziare le guerre impose ai ricchi tante di quelle
tasse che costoro gli aizzarono contro un certo Gordiano, proconsole d’Africa.
Il timore riverenziale verso i simulacri del potere
capitolino rese Giulio Massimino sempre incerto e a volte anche inerte. Stupisce
che un bestione siffatto avesse di queste remore. Il
lettore consideri che al dito, a mo’ di anello,
s’infilava il bracciale della moglie.
Peccato, avesse riservato ai senatori, che nel sostegno alle
classi conservatrici e nella fronda ai prìncipi trovavano
ormai le sole ragioni del loro perpetuo agitarsi, lo stesso trattamento che
riservava ai sarmati e agli sciiti, Massimino avrebbe
liberato il principato dal peggiore dei suoi nemici e magari sarebbe morto di
vecchiaia.
Assunse la porpora che aveva 45 anni e la tenne per soli
tre.
Morì ucciso da dei soldati che s’erano venduti ai senatori,
nel momento che stava avendo la meglio su due usurpatori di ispirazione
senatoria (Balbino e Pupieno).
31. Gordiano I – nel 238. I senatori, che volevano
eliminare l’imperatore Massimino, spinsero, promettendogli la continuità sul
trono, questo povero vecchio e suo figlio a contrapporglisi.
In sostanza per ragioni di tornaconto e di difesa dei loro
privilegi quei reverendissimi padri eliminavano un generale onesto e valente
come Massimino per sostituirlo con due uomini docili e inutili.
I Gordiano assunsero la porpora brunastra degli usurpatori
che avevano 79 anni il padre e 46 il figlio.
Gordiano I morì suicida quando,
perduta la battaglia risolutiva con Capellino, un sinistro generale di
Massimiano, s’avvide che i suoi autorevoli mandanti, voltategli le spalle,
cercavano altre comparse.
Dacché si era insediato erano trascorsi
solo 22 giorni. Appena il tempo che Massimino armasse un paio di divisioni.
32. Gordiano II – nel 238. Mediocre e pigro, il
giovane Gordiano era assolutamente inadatto agli alti comandi. Ombra del padre,
durò anche lui 22 giorni.
Assunse la porpora che aveva 46 anni, fino alla morte che gli venne nel corso della stessa battaglia
finita a disfatta.
33. Balbino – nel 238. E a Balbino e a Pupieno si rivolse, rapido e mai soddisfatto, il Senato
quando vide che l’odiato Massimino aveva avuto
facilmente ragione dei Gordiani. Massimino stava per avere ragione anche di
questi due replicanti quando il Senato, ricorrendo a metodi più economici e più
risolutivi, ingaggiò un sicario che glie lo uccise a
tradimento.
Così Balbino, bellamente, senza sforzo e né merito e, forse,
senza neppure volerlo, dovette acconciarsi ad interpretare la sua nuova parte,
in un periodo nel quale i rapporti tra i senatori e i pretoriani, che nel
frattempo si erano fatti più potenti e prepotenti delle S.A. di Rohm, per avidità personale e per interesse di casta, si
facevano tra di loro e facevano ai principi una lotta
mortale.
Balbino aveva assunto la porpora che aveva 70 anni e la
tenne per 99 giorni, fino alla morte che, siccome era
uomo espressione del Senato, gli diedero, com’era naturale che nel gioco delle
parti avvenisse, i pretoriani, espressione del Palazzo.
34. Pupieno – nel 238. Diarca
con Balbino, ne condivise la triste sorte. Sobrio e severo, tenebroso e cupo,
aveva forse caratteristiche migliori del suo collega, del quale avrebbe fatto
meglio a sbarazzarsi e correre da solo.
Assunse la porpora a 64 anni e la tenne anche lui, come
quello, per 99 giorni.
35. Gordiano III – dal 238 al 244. Giovine gentile che quando fu ben guidato ebbe successo e
quando fu mal guidato ebbe la morte.
L’avevano eletto i pretoriani dopo l’eliminazione degli Stanlio e Ollio di cui sopra.
Indossò la porpora che aveva 13 anni e, tutelato dall’onesto Timesiteo, la tenne per sei. Lo uccisero i legionari,
perché in quel rapido e tetro declinare dell’onore e
della legge, anche i militari s’erano messi a concorrere in queste macabre
giostre da palio.
E avendo anche loro gustato
l’inebriante sapore dell’impunità non intendevano lasciare la scena.
36. Filippo I (Filippo l’Arabo) – dal 244 al 249. Era uno dei
caporioni della congiura di cui sopra; un pericoloso
criminale che, per ascendere al trono, dapprima si sbarazzò di Timesiteo e dopo, presone il posto, strangolò con le sue
stesse mani il sovrano medesimo. Fece di tutto per durare, ma erano tempi
pericolosi anche per i peggiori, nei quali, se nelle faccende interne ci si
poteva aiutare col pugnale e col veleno, in quelle esterne ci volevano quelle
capacità militari che una mezza figura abietta e
torbida come lui non possedeva.
Morì in battaglia a 45 anni, dopo cinque anni di
(insanguinato) trono.
37. Decio Traiano – dal 249 al 251. Era un probo
senatore che mai, stranamente, si era mostrato avverso o sleale coi sovrani in carica e forse fu per questo che i legionari
gli offrirono la porpora che era stata di Filippo. In effetti, data la
pericolosità dei tempi, egli nutriva qualche comprensibile riluttanza a
lasciare la sinecura senatoriale; tuttavia pur se con qualche onesta titubanza
alla fine si risolse. I tempi stavano diventando veramente difficili perché il
fanatismo dei cristiani minava le fondamenta dell’Impero, mentre la
sfrontatezza dei barbari ne minacciava le mura. Decio, cauto e determinato,
s’appellò ad una sorta di patriottismo di Stato col quale, con durezza e con un
forte impegno morale, cercò di contrastare il catastrofismo generale e di
arginare le difficoltà.
Ascese alle preoccupazioni di governo e al comando supremo
degli eserciti all’età di 59 anni, e li tenne per due.
Fu un sovrano e un generale di grande
valore, energico in guerra e generoso in pace e lo si ricorda con onore anche
per essere stato il primo imperatore a morire ucciso da un nemico straniero (il
che, tutto considerato, era da preferire alla grama sorte che era toccata a
tanti dei suoi predecessori).
Gli fu fatale lo disastroso scontro
di Forum Tenebronii con i goti di Chiva,
il quale, dopo la clamorosa vittoria, si prese l’ardire nominare, lui barbaro,
straniero e nemico di Roma, nella persona di Prisco che ignominiosamente
accettò, il nuovo imperatore.
38. Ostiliano – nel 251. Il Senato
il titolo, per un giusto riguardo alla memoria di Decio, lo conferì a Ostiliano, che del defunto imperatore era il figlio e l’Augustus minor, anche se, per quella perniciosa e mai spenta vocazione alla
collegialità, rango pari e pari poteri concesse a Treboniano
Gallo.
Treboniano riconobbe al giovane Ostiliano sia il rango che le prerogative, e anzi glie ne
diede delle ulteriori, non parendogli vero d’aver trovato un utile idiota di
così bella qualità che si dannasse l’anima per lui, e andasse a rattoppar falle
qua e la, mentre lui, Imperator maximus,
se ne stava tutti i giorni a Palazzo a gozzovigliare tra mimi, nani e
ballerine.
Come suo padre Decio, Ostiliano
era un buon soldato e un onest’uomo. A mio parere
pero non depone a suo favore il fatto che abbia consentito a Treboniano, il suo “par” tale sperequazione e sopratutto
che gli abbia permesso di sopravvivergli.
Il buon Ostiliano morì di peste,
come quel galantuomo di Tito; fu il primo imperatore, dopo 40 anni, a morire di
morte naturale.
39. Treboniano
Gallo – dal 251 al
253. Il miope, ottuso e avido Gallo occupandosi solo dei suoi personali
trastulli e del quieto vivere, aveva rimesso come abbiamo
visto alle fatiche del povero Ostiliano i
pericoli alle frontiere e la spregiudicata invadenza dei barbari. E quando, pochi mesi dopo, Ostiliano
gli morì, l’imbelle Treboniano con l’oro, con molto
oro, più e più volte, si comprò la loro non belligeranza.
Com’era inevitabile, questa politica di arrendevolezza
anziché acquietarli, imbaldanzì i barbari; così tanto che ritennero di potere
unire all’oro della mercede i frutti della razzia e della violenza.
Per cui, ad un certo punto le legioni dovettero per muoversi,
ma i soldati non volendo essere guidati da un fellone di tal specie (che essi
forse immotivatamente ritenevano responsabile della morte
di Ostiliano) sprezzantemente gli lacerarono il
mantello reale, gli strapparono le insegne della sovranità e lo scacciarono dal
campo. L’indegno era pervenuto alla massima magistratura dell’Impero a 45 anni
per durarvi solo due miserabili anni.
40. Volusiano
– 251 al 253. Figlio di
Treboniano Gallo. Quando il
padre fu eletto imperatore lui fu nominato Cesare e quindi Augusto
minore.
Divise col padre gli agi del potere
anziché, come sarebbe stato più giusto, con Ostiliano
le fatiche del campo e delle marce.
Per cui fu col padre giustamente
ucciso.
41. Emiliano – nel 253. Ritornati all’antica
spada, Emiliano, governatore e comandante militare (i due aspetti in quel tempo
coincidevano) della Pannonia e della Mesia, radunate le forze disperse e risollevato lo spirito
delle truppe, subitamente attaccò, sorprese e mise in rotta i barbari, inseguendoli fin al di là
del Danubio. E sconfisse e mise in rotta anche Treboniano
Gallo giacché l’inetto con alcuni fedelissimi e un esercito raccogliticcio andava cercando sui suoi ex soldati e sul nuovo generale una
personale rivincita.
Emiliano condusse le due operazioni con una brillantezza e
una rapidità tali che i soldati lo acclamarono imperatore sul campo.
Nella prolusione che tenne al Senato per la ratifica della
nomina, Emiliano assicurò tutti che con la fedeltà e il valore dei suoi soldati
avrebbe liberato l’Impero di tutti i barbari, fossero
essi del nord o dell'Oriente.
Emiliano che non era un facilone era persuaso che debellare
i barbari fosse più facile che eliminare la corruzione che permeava l’intera
società; e della corruzione e del decadimento della pubblica morale se ne
preoccupava così tanto che volle conferire ad un magistrato di sua fiducia (un
uomo giusto e severo che poi sarebbe diventato l’imperatore Valeriano) il ruolo
di pubblico censore, conferendogli i più ampi poteri.
Aveva visto giusto: era più facile sconfiggere i goti che
sradicare i vizi pubblici e privati, per cui presto si
trovò senza un partito che lo sostenesse.
E così presto finì che gli stessi uomini
che lo avevano elevato al trono e quelli che lo avevano applaudito non
esitarono, onde eliminare l’incomodo, a macchiarsi del sangue di un principe
che appena quattro mesi prima era stato oggetto della loro parzialità. Durò 88 giorni, aveva solo 46 anni.
42. Valeriano – dal 253 al 260. E’ difficile
capire perché quelli che avevano eliminato Emiliano abbiano scelto a
succedergli proprio chi del defunto imperatore aveva condiviso la
preoccupazione più grande. Né comprendiamo perché Valeriano, che sapeva quanto
Emiliano avesse sacrificato la vita a questa pia
illusione, abbia accettato.
Sapeva che non c’era giorno che i senatori non tessessero
segrete fronde, sapeva che gli eserciti erano governabili solo col pugno di
ferro, sapeva che la parzialità dei pretoriani era irriducibile, sapeva che i
romani, quando il rancore teologico dei cristiani non li rendeva ostili,
rimanevano corrivi e indifferenti.
Cosa poteva fare un povero imperatore, e
per giunta onesto? Valeriano era bene intenzionato e anche abbastanza motivato,
ma francamente riteniamo pressoché miracoloso che in
quella situazione sia riuscito a durare sette anni.
Come Marco Aurelio, al quale per probità e misura in qualche
modo somigliava, si rese conto della necessità di dividere le fatiche del
governare con un’altra persona, per cui si associò al
trono il figlio Gallieno.
Ma la debolezza di padre, e forse l’ambizione della moglie Egnatia Mariniana, purtroppo in quella occasione prevalsero sulla rinomata sua attitudine di
censore, giacché Gallieno, così come Commodo prima di
lui, era un depravato.
L’imperatore Valeriano nel corso di una campagna militare
lungo l’Eufrate cadde prigioniero dal re persiano Sapore. Ostentando una
crudeltà pari allo smisurato orgoglio, Sapore, non curandosi né del rango
dell’augusto prigioniero né della maestà di Roma, con ostentato scherno espose
il povero Valeriano, svestito della porpora imperiale ma con addosso delle vistose catene, allo sciovinismo dei suoi sudditi inebriati
e furenti, quale esempio perenne di grandezza perduta e quale segnale della sua
sfida alla potenza di Roma.
“E ogni volta che saliva
a cavallo – ci narra Gibbon col suo stile lugubre
e solenne - il monarca persiano metteva il piede sul collo di un imperatore
romano”.
Lo sventurato Valeriano languì fino alla
morte in una prigionia senza speranza.
43. Gallieno – dal 253 al 268. Gallieno era un
maestro nelle scienze strane e inutili: era un oratore facondo e un poeta
raffinato, un abile giardiniere, un ottimo cuoco, ma fu uno spregevolissimo
principe. Era fatuo, stravagante, indolente, realmente incapace di comprendere
la gravità delle cose.
Fu indifferente alle rovine che i goti, scendendo dalla Scandinavia all’Ucraina e poi risalendo per l’Eusino, la Propontide, l’Ellesponto l’Egeo la Grecia e l’Illiria,
portarono fin quasi alle porte dell’Italia, né lo preoccupò il fatto che in
ogni provincia dell’Impero scaturissero frotte di usurpatori (ben 19 nel suo
tempo) e che, soprattutto, tutti lo sopravanzano per credito e valore.
Erano per lo più luogotenenti di
Valeriano, il suo gran padre, che a buon diritto ritenevano che la eliminazione
di quel principe ignavo e traditore dovesse venire giudicata più che un gesto
di empietà come un atto di patriottismo nei confronti dello Stato.
Gallieno morì a 40 anni, per mano di un suo ufficiale.
44. Postumo – Questo Postumo fu attivo durante
il principato di Gallieno ed è passato ai libri di storia per avere usurpato al
suo sovrano le provincie di Spagna, Gallia e Britannia (cioè l’intera prefettura della Gallia)
che luogoteneva, e delle quali, assecondando istanze
separatiste che andavano lì affermandosi, si proclamò sovrano in indipendenza
da quello centrale.
Alla sua morte, avvenuta otto anni dopo, lo scisma rientrò
naturalmente. Stupirebbe la lunghezza dello iato se non avessimo conosciuto
l’indolenza e l’inettitudine di Gallieno; con un imperatore come Settimio
Severo lo scisma sarebbe rientrato in due mesi, il tempo di muovere le legioni.
45. Claudio II (Il Gotico) – dal 268 al 270. Era stato lui ad assassinare Gallieno, e per premio gli succedette.
Durò solo due anni, dai 54 ai 56 anni, quando morì di peste.
Aveva dimostrato di possedere doti politiche e militari non comuni.
46. Quintilio – nel 270. L’Impero era allo
sfascio in quegli anni caotici. Le Gallie secedevano, non c’era un sovrano che non avesse
uno o più concorrenti, e quando maggiore era la debolezza dei primi maggiore
risultava il numero dei secondi. Questo Quintilio doveva essere un tipo assai
compassionevole e ingenuo se è vero che, quando scoprì d’averne uno anche lui,
non resse all’idea e s’ammazzò. Durò 2 mesi.
Di più non ne meritava, perché se possiamo
capire che chi colpito da malattia incurabile possa giungere a un certo momento
a por fine ai suoi giorni, non ci riesce di comprendere perché debba farlo
anche chi può trovare la salvezza nell’esercizio del potere di cui gode.
47. Aureliano – dal 270 al 275. Ma forse Quintilio una ragione d’aprirsi le vene la vide nel
fatto che l’uomo che gli correva contro era un soggetto in vero straordinario,
il migliore dell’intero terzo secolo. Questi era l’illirico
Domizio Aureliano, figlio d’un contadino.
Indossata la porpora, subito, a mezzo di
ripetute vittorie che conseguì rincorrendo i suoi nemici in tutte le contrade
dell’Impero, ripristinò il prestigio delle aquile legionarie e l’avito timore
di Roma. E a Roma e nel corpo dell’Impero pose in
essere con risolutezza provvedimenti efficacissimi.
Uno di questi, in vero il meno fortunato, merita di venire raccontato perché determinò una costumanza che
sarebbe rimasta a lungo nelle pratiche di potere. Risultandogli
evidente che il cristianesimo, in
ragione del suo fanatismo di matrice giudaica costituiva un corpo estraneo allo
stato, e che la sua sistematica ostilità ai sovrani inculcava nella gente
scetticismo e rassegnazione, quando non ostilità, l’infaticabile Aureliano
pensò di debellarlo.
A tale scopo pensò a una nuova
religione che non predicasse come il cristianesimo cose buone per l’altro mondo
e dannose per questo, ma che, secondo la nuova moda, fosse monoteista. E con un
senso pratico sicuramente superiore alla fantasia proclamò unico dio il sole,
perché (e in effetti non gli si può dare torto) è dal sole
che ai viventi discendono il bene, la forza e la salute. E
ad un non meglio identificato dio sole fece innalzare sontuosissimi templi.
Dopo di che solennemente e seriosamente dichiarò
queste fandonie religione la sola religione dello stato (nel passato presso i
Babilonesi e gli Egizi il disco del sole era stato divinizzato, ma in Europa
era la prima volta che una qualsiasi forma di monoteismo assurgeva al rango di
religione di stato), e proclamò se stesso e i suoi successori
gli unici rappresentanti di quel Dio. Confidava che la nuova credenza
ridestasse nelle persone quella fiducia nel sovrano e quella fedeltà nello stato
che avrebbero potuto dare una sferzata alle coscienze.
La cosa più memorabile è che da questa sua iniziativa derivò
quel suffisso “sovrano per grazia di Dio” che per ben 15 secoli, fino
alla rivoluzione francese, tutti i regnanti avrebbero applicato a sé stessi e
che – ancora peggio - per quasi duemila anni sarebbe servito alla chiesa
cattolica per abbarbicarsi attorno ai loro troni.
Non se lo godette molto a lungo, il povero Aureliano, il suo
sole, perché i vescovi immediatamente lo scomunicarono e i senatori lo
dichiararono decaduto. E il popolino, aizzato dai
preti, lo accoppò facendone scempio.
Questo valido e originale personaggio visse la sua ribalta
dal 56° al 61° anno di età.
“Gioca coi fanti ma lascia stare i
santi” gli avremmo consigliato, se ci fosse capitato di incontrarlo.
48. Tacito – dal 275 al 276. Il Senato,
proclamato decaduto Aureliano, diede il suo posto a costui, che
essendo 75/enne e non avendo nulla da perdere, accettò. E difatti sopravvisse soli sei mesi, riuscendogli – forse
solo per questo - di morire sul suo letto.
Anche se discendeva dal grande storico,
nulla ci ha tramandato.
49. Floriano – nel 276. Fratello minore di
Tacito, pretese di succedergli ma i soldati, sul punto d’affrontare a sua
difesa l’usurpatore Probo, cambiarono idea, lo uccisero
e gli preferirono il rivale.
50. Marco Aurelio Probo – dal 276 al 282. Probo di nome e di fatto, era uno dei migliori generali del grande
Valeriano, ma era purtroppo anche un inguaribile sognatore. Vinte quattro o
cinque battaglie contro i vandali e gli alemanni, ingenuamente credette d’aver vinto tutte le guerre e che una nuova età
dell’oro fosse vicina, per cui fece scendere i soldati
dai cavalli e bucolicamente gli mise la zappa in mano. Ma
i soldati, che trovavano molto più redditizie le razzie, non ci stettero e lo
accopparono.
E’ troppo basso il terreno, e la
schiena, a star chinati a lungo, duole assai.
Era divenuto imperatore a 44 anni e vi era durato per sei.
Una sana e costante cattiveria più che un diritto spesso è
un dovere.
51. Caro – dal 282 al 283. Ogni mattina che
s’alzava dal letto avrebbe dovuto pregare il suo dio che lo guardasse dagli
amici, ché dai nemici lui sapeva guardarsi abbastanza.
Prevalse molte volte sui Persiani e su tutti i nemici esterni,
per finire, poveraccio, trucidato nel
sonno dal consuocero.
Durò 15 mesi e fu un imperatore tutt’altro
che cattivo.
52. Carino – dal 283 al 285. Non godette di una buona reputazione e probabilmente non senza
una ragione, se alla seconda battaglia che pure stavano vincendo i suoi
generali lo fecero fuori.
Era un inetto e uno sregolato e durò all’incirca un anno.
53. Numeriano – dal 283 al 284. Uomo mite e poeta,
fu issato sul trono da quella canaglia del suocero che per governare per il suo
tramite gli aveva ucciso il padre (cioè Caro).
I poeti, si sa, tengono la testa nelle nuvole e raramente
s’avvedono dei pericoli.
Così undici mesi dopo avvenne che Apro
(era questo il nome di quel farabutto), deluso dello scarso entusiasmo che il
giovane ci metteva nell’assecondare i suoi criminosi disegni, uccise anche lui.
Il grande Diocleziano, che sopravveniva, estirpò la malapianta.
54. Diocleziano – dal 284 al 305. Indro Montanelli - sempre alquanto schizzinoso quando ha da giudicare qualcuno – lo ha definito “l’ultimo vero
imperatore romano” e Gibbon di lui ha scritto “che
il regno di Diocleziano fu più illustre di quello di ogni suo predecessore come
la sua nascita fu la più umile e oscura”.
Diocleziano era nato da genitori che erano stati schiavi
nella casa di un senatore romano, e che nutrisse
fortissime ambizioni lo si vide da come avesse brigato, assolta la leva e
ritornato a Roma, per ottenere la carica di prefetto del pretorio, avendo
compreso quale grande ruolo costoro avessero non tanto nel fare gli imperatori
quanto nel disfarli. E quando a 35 anni divenne
sovrano capì che se voleva restare vivo e governare liberamente doveva
allontanarsi al più presto e il più possibile da quel covo di vipere che erano
Roma e il pretorio.
Se ne allontanò così tanto che,
adducendo l’inoppugnabile ragione che da lì potevano difendersi meglio le
frontiere orientali, perennemente minacciate dai Persiani, trasferì la capitale
dell’Impero a Nicomedia sulla Propontide
(così si chiamava allora il mar di Marmara).
Mentre a curare le vicende occidentali lasciò Massimiano, il
migliore dei suoi generali, il quale come sede si scelse Milano, che rispetto a
Roma offriva il vantaggio di essere più vicina ai
confini settentrionali e assai meno turbolenta.
A sé stesso e al collega, Massimiano conferì il rango di Augusto, cioè di sovrano. Augustus,
letteralmente “colui che aggiunge”, era l’appellativo
che si dava alla massima autorità dello stato, mentre il titolo d’onore di “Imperator”,
letteralmente “allargatore dell’Impero” era appannaggio del o dei comandanti
supremi degli eserciti, cioè dei Cesari (i successori designati).
In principio i titoli di Augusto e
di Cesare (cioè di sovrano e di generale comandante degli eserciti)
collimavano, ma nel prosieguo, avendo perso gli Augusti sovrani la voglia e
l’attitudine a combattere, si scissero. Fu così che nacque la “tetrarchia”, la
quale pel modo com’era congegnata doveva risolvere in
maniera quasi indolore l’annoso problema delle successioni: divenuti Augusti, i
due Cesari ne avrebbero scelti altri due, e così via.
Diocleziano e Massimiano erano non
soltanto conterranei e commilitoni ma anche amici d’una vecchia e solida
amicizia. Massimiano era figlio di contadini ed era rozzo e incolto nei modi di
fare e nel pensare; incurante delle leggi, eccelleva solo nel combattere dove
era imbattibile. Insensibile alla pietà e senza timore alcuno delle
conseguenze, Massimiano fu scaltramente usato dall’astuto e prudente
Diocleziano per il compimento di quelle azioni sporche e deplorevoli delle
quali l’amico benefattore non voleva sporcarsi o caricarsi, a dimostrazione del
fatto che la forza bruta può trionfare sulla ragione ma mai può
avere ragione della scaltrezza.
E così avvenne che di quella felice diarchia Massimiano fu il braccio e Diocleziano la mente, per formare insieme,
male assortiti com’erano, o proprio perché lo erano (c’è da lusingarsi del
fatto che mai una volta il truculento Massimiano abbia disconosciuto
l’ascendente e la supremazia intellettuale del collega), formarono una coppia
perfettamente funzionale.
Associatosi al trono Massimiano, Diocleziano volle nominare
i due Cesari, stabilendo che a vent’anni esatti da
allora, lui stesso e Massimiano ad essi avrebbero
consegnato i loro troni.
I prescelti furono, per la parte orientale dell’Impero, Galerio che pose la sua residenza a Mitrovizza
in Illiria, e, per quella occidentale,
Costanzo Cloro il quale invece si stabilì a Treviri in
Germania. Per celebrare il patto e dargli l’auspicata durevolezza Diocleziano
volle che i due Cesari sposassero uno sua figlia e
l’altro la figlia di Massimiano. In questo modo per la prima volta si costituì
quel complesso sistema di interrelazioni e di reggenze
collegate che fu chiamato “tetrarchia” e che tra sussulti e sbandamenti di
vario genere accompagnerà l’agonia dell’Impero.
Ma per fortuna allora il vero sovrano, il capo effettivo,
era Diocleziano (con un po’ di arditezza e fatta salva
qualche lieve differenza potremmo dire che Diocleziano era una sorta di Cavour
e Massimiano un tipo alla Garibaldi), e quella provvida testa avviò su tutto l’Impero
una serie di riforme di stampo così assolutistico che nulla avrebbero invidiato
ai famigerati piani quinquennali del suo collega Stalin.
Diocleziano volle il pieno controllo dei mezzi di produzione
e dei prezzi, la moneta fu vincolata ad un tasso d’oro che rimase invariato per
oltre mille anni, i contadini vennero fissati al suolo
e divennero servi della gleba e gli operai e gli artigiani vennero ingabbiati
in organizzazioni corporative dalle quali non potevano uscire.
Questa sorta di soviettizzazione
dell’economia, che ingabbiò quell’Impero dissanguato
ed esausto in una sorta di busto d’acciaio e che generò una burocrazia occhiuta
e onnipotente, in quella particolare situazione si rivelò proficua. L’economia
si risollevò e con ciò rinacque la fiducia, si ricostituì un po’ d’ordine e
Massimiano con i due Cesari (nel mentre che Diocleziano s’occupava di politica
e d’amministrazione) se ne giovò per riportare le insegne romane in Britannia e in Persia.
Diocleziano a livello organizzativo si occupò anche delle
questioni militari, e lo fece da par suo, escogitando delle innovazioni
originali e di grandissima importanza.
Divise le legioni in mobili e stanziali, destinando nelle
prime le ultime leve, i soldati più forti e fisicamente più idonei a
combattere. Soldati che poi, mano a mano, col passare degli anni, venivano trasferiti nelle stanziali. Con questo sistema le
forze di movimento guadagnarono in snellezza e sveltezza, e con quelle definite
stanziali (che comunque costituivano un organismo di
difesa di prim’ordine) munì il così detto “limes”, e romanizzando il territorio favorì il
sorgere nella sua parte meridionale di città dove romani e barbari si
contaminarono, si sposarono, avviarono commerci, intrapresero insieme.
In campo religioso Diocleziano s’applicò d’estirpare la mala
pianta del cristianesimo, che voracemente e
pericolosamente cresceva, sostenendo la riforma pagana voluta da Aureliano.
Inevitabilmente Diocleziano (cui, come abbiamo detto, neanche lo stesso
Massimiano poté mai negare il rango di “primus
inter pares”) finì per
illustrare la sovranità che rappresentava col culto di sé stesso, anche se –
occorre dargliene atto – non perse mai il senso della misura.
Nell’anno 304 volle celebrare la memorabile ricorrenza dei vent’anni di regno, la forza delle riforme, il successo
delle armi e la salute dell’Impero, con la gran pompa di una volta.
E a Roma, tutti insieme, il fasto,
la gloria e la fortuna ressero il trionfo a lui che incedeva solenne, a
Massimiano che con deferenza gli camminava al fianco, ai due Cesari che li
seguivano indietro di due passi. Mentre in Africa, nella Britannia,
lungo il Reno, il Danubio e il Nilo e ai confini con la
Persia la pax romana regnava concorde.
Agli occhi dei posteri questo trionfo, che in quanto a fasto richiama quello degli Scipioni,
ha acquistato un significato particolare per una ragione purtroppo non gloriosa:
fu l’ultimo a cui Roma assistette.
Diocleziano interiormente era un uomo di spirito, pieno di equilibrio e di senno, queste cose le faceva per
necessità, conscio di quanto gli uomini siano più sensibili alle esteriorità
del potere che al potere stesso. E per lui il potere
era stato più un mezzo che un fine.
Difatti nel corso del 21/mo anno, ancora 55/enne, come aveva
promesso di fare quando accingevasi all’immane compito
di riformare uno stato malato, rimise spontaneamente le insegne del comando e si
ritirò nella natia Dalmazia dove trascorse i suoi ultimi 9 anni di vita facendo
il contadino.
Gibbon ne fa il panegirico accostandolo a
Carlo V non tanto perché anche quello al culmine della potenza sul mondo volle
spontaneamente abbandonare le lusinghe della gloria e ogni preoccupazione di
governo, ma quanto perché tra i due imperatori c’è una straordinaria
somiglianza di carattere “essendo in ambedue le capacità politiche superiori
al genio militare e le virtù il risultato della
volontà ben più che della natura”.
55. Massimiano – dal 286 al 305 quale imperatore
associato a Diocleziano e dal 307 al 308 da solo. Era ottuso e brutale quanto
Diocleziano era intelligente e pieno d’idee, ma non dobbiamo
dimenticare che nelle opere d’armi e nel comando degli eserciti fu eccellente
non meno di quanto Diocleziano lo fu nella trattazione degli affari e
nell’amministrazione, e in tutte le legioni dell’Impero non c’era un soldato
che non stravedesse per lui.
Un soldato col temperamento, la forza e i gagliardi appetiti
di Massimiano non poteva piegarsi a lungo a quella inattività
cui il freddo Diocleziano lo aveva sadicamente costretto. Per
cui alla morte di Costanzo (al quale 15 mesi prima lui stesso aveva lasciato lo
scettro e il trono) il vecchio leone, in collera con Galerio
perché questi per la sua successione aveva preferito Severo a suo figlio
Massenzio, fece risentire al mondo il suo ruggito. E
anche in quelle situazioni che certamente erano meno chiare e più pericolose
delle precedenti, non fosse altro perché si stava combattendo una guerra
civile, Massimiano, tranne che su Costantino, prevalse di nuovo su tutti.
Non possiamo dilungarci a narrare l’evoluzione dei rapporti
tra il vecchio leone e l’astro nascente; essi conobbero più fasi e ce ne fu
anche una nella quale trovarono un felice accordo (fu dopo l’uscita di scena
dell’infelice Severo, quando Massimiano rivelando una insolita
ma opportuna prudenza offrì allo scalpitante Costantino e lo scettro che era stato
di Severo e una delle sue figlie). Però un
accomodamento durevole era impensabile; l’orgoglio del primo e l’ambizione del
secondo non lo consentivano.
Quando non molto tempo dopo la situazione si deteriorò, la
parola ritornò alle armi e l’orgoglioso e indomito vecchio fu sconfitto,
Costantino – bontà sua - un po’ per un fatto di rispetto e un po’ per il fatto che quello era sempre suo suocero gli diede il
privilegio di scegliersi la morte che preferiva.
Secondo il costume degli antichi padri Massimiano avrebbe dovuto tagliarsi le vene, invece, orgogliosamente, in
coerenza col suo temperamento titanico, si strangolò con le sue stesse
mani.
Così purtroppo Massimiano concluse,
all’età di 68 anni, la sua vicenda politico-militare.
Ci sia consentito di dire che se, ipoteticamente, Massimiano
e Diocleziano si fossero potuti fondere insieme per farne un soggetto solo,
probabilmente sarebbe venuto fuori un nuovo Giulio
Cesare.
56. Carausio – dal 286/287 al 293. Il solito
generalaccio barbaro (dei mari, questo) che ad un certo punto se la pensò e si autoproclamò imperatore.
Usurpatore non riconosciuto, dovette limitarsi ad esercitare la sua potestà tra
le due sponde della brumosa Manica. Non era un inetto, ma, quando su quelle sue
acque dove la faceva da padrone, Massimiano gli diede scacco, i suoi stessi
uomini lo uccisero.
Il suo palcoscenico era stata la Britannia, per una recita solitaria durata sei anni.
57. Costanzo
I – dal 305
al 306. (Costanzo Cloro, Cloro per pallore del viso). Era il Cesare di
Massimiano e uno dei tetrarchi dell’Impero costruito da Diocleziano. Anche se di indole mite e amabile, si mostrò sempre coraggioso,
attivo e pieno di risorse. Militarmente s’era portato molto bene presidiando
con autorevolezza i territori a destra del Reno che le più eterogenee orde di
barbari con suicida e omicida ostinazione di continuo assalivano. Secondo la
volontà espressa da Diocleziano e condivisa da Massimiano, al tempo stabilito
Costanzo divenne Augusto sovrano dell’impero d’occidente (e l’altezzoso e
severo Galerio dell’altra).
Sceso di cavallo e salito sul
trono, Costanzo continuò a mostrare l’equilibrio e il coraggio di sempre, e
anzi, in più; poté giovarsi dei consigli e dell’aiuto del figlio Costantino, il
quale già nella giovinezza mostrava gli inequivocabili segni della sua forte inclinazione
al potere.
Un’improvvisa morte, dovuta probabilmente a cause naturali,
gli evitò lo scontro col collega Galerio che stava
attivamente brigando per riunire sotto di sé le due parti dell’Impero.
Come sovrano Costanzo fu meno fortunato che come Cesare,
giacché si spense in Britannia solo quindici mesi
dopo avere ricevuto il titolo di Augusto e 14 anni
dopo che aveva ricevuto da Diocleziano quello di Cesare.
58. Galerio – dal 305 al 311. L’equilibrio di
potere istituito da Diocleziano durò finché fu sostenuto dalla mano ferma e
abile del fondatore. La quale mano, giova ripeterlo, era stata assai felice
anche nella scelta dei due Cesari, giacché anche Galerio,
pur se caratterialmente diverso da Costanzo, possedeva delle eccellenti
qualità. E se quel gran riformatore poté applicarsi a quella
sua monumentale riorganizzazione dello stato e degli apparati e portarla a
compimento, fu anche perché questo suo Cesare con infaticabile opera, con le
sue ragguardevoli capacità e con la sua spada gli aveva tolto ogni
preoccupazione di natura campestre.
Galerio era molto severo, molto altezzoso e
molto ambizioso, e coltivava saldo nella mente il progetto di riunificare le
due parti dell’impero. Per cui quando assunse i pieni poteri
pretese di assumere nei rapporti con l’altro sovrano quel ruolo di primus che Diocleziano aveva esercitato su
Massimiano.
E uno dei suoi primi atti in questa
direzione fu che pretese di scegliere non solo il suo ma anche l’altro Cesare. Quale suo Cesare preferì tale Massimino Daia
che era un suo giovane nipote, cui affidò il governo della Siria e dell’Egitto,
terre i cui abitanti, indolenti ed effeminati i primi, torvi e feroci i
secondi, non si amalgamavano con i costumi e la lingua di Roma. E per il Cesare di Costanzo tale Severo, un suo devotissimo, cui
affidò la luogotenenza dell’Africa e dell’Italia. Per sé tenne la parte
migliore, e cioè quell’intera
fascia di terre ad est dell’Italia e ad ovest della Siria che costituiva quasi
i tre quarti dell’Impero.
La cosa principale era che Galerio,
essendo Massimino Daia e Severo “suoi” e Costanzo
Cloro quasi per morire, di fatto comandava su tutto.
Gli equilibri di potere sono sempre instabili quando le reciproche deterrenze tendono a modificarsi, a meno che, come avvenne
con Diocleziano e Massimiano, non si tratti di
equilibri apparenti e una delle parti abbia in un modo o in un altro abbia prevalso
sull’altra.
Orfano di Diocleziano, il potere cercava in Galerio un’altra mano forte, e Galerio
che sapeva di avere le qualità che aveva non si fece pregare. Alla morte di
Costanzo, che sopravvenuta da lì a poco era valsa ad evitare una guerra civile,
egli puntualmente devolse al docile e modesto Severo i territori che erano
stati di Costanzo, anche se a malincuore dovette accettare l’auto-nomina a
Cesare di quel Costantino figlio di Costanzo ed astro
nascente nel panorama politico e militare del tempo, delle cui ambizioni e
della fretta di realizzare i suoi cospicui disegni già più volte abbiamo
accennato.
Fu un grande imperatore, Galerio;
forte e duro proprio come lo si doveva essere in quei
tempi e in quelle situazioni. In campo militare aveva forza e determinazione
sufficienti per smorzare, così come smorzò, qualsiasi voglia di
insubordinazione; ci sfuggono tuttavia le ragioni perché non abbia
stroncato sul nascere la arrogante e palesemente minacciosa pretesa di
Costantino di succedere al padre. In campo amministrativo, sociale e religioso
continuò con un pugno se possibile ancora più duro di quello di Diocleziano
l’imponente opera da questi avviata.
Purtroppo durò solo sei anni, perché – così abbiamo letto da qualche parte – “il Dio dei cristiani
per punirlo delle persecuzioni gli fece venire un cancro all’intestino”.
“Così che” – ma questa è roba nostra – “la cancrena che dal di dentro metastatizzava l’Impero
potesse continuare a compiere più liberamente la sua opera di distruzione”.
Signori, s’accingeva a prendere la
scena il Grande Costantino, colui che di quel Dio sarebbe stato il vessillifero
e il primo legittimatore.
59. Severo II – dal 306 al 307. Severo era in
Occidente il Quisling di Galerio.
A prescindere dalle sue (poche) qualità, la sua nomina non piacque al collerico
Massimiano che la reclamava per suo figlio Massenzio. Per cui questo Massenzio, che allora si trovava a Roma, ritenne di poter trarre
profitto della guerra che i pretoriani e i senatori, in combutta tra di loro,
portavano ai tetrarchi pel fatto del trasferimento della capitale a Milano e a Nicomedia.
Era il 307 e nel rumore delle amate spade l’irruente e irrequieto
Massimiano trovò il pretesto che cercava per abbandonare quello stato di inattività cui, due anni prima, si era di controvoglia
piegato.
Ma quando Severo mosse l’esercito i
suoi veterani, che per anni avevano servito con Massimiano, si rifiutarono di
marciare contro il loro vecchio comandante, gli si rivoltarono e lo uccisero. E spiccatagliela dal busto devotamente gli portarono la sua
testa.
Durò appena un anno, il modesto e ingenuo Severo in un ruolo
troppo più grande di lui.
60. Massenzio – dal 306 al 312. Era inevitabile
che Costantino e Massenzio prima o poi si
scontrassero. Ed era inevitabile che nello scontro, che ebbero nei pressi del
ponte Milvio, il crudele, rapace, effeminato, pusillanime e depravato Massenzio
soccombesse. L’agiografia cattolica pretende che
Costantino abbia vinto per avere fatto dipingere sugli scudi dei suoi soldati
una grande croce e aver fatto scrivere sugli stendardi
la frase “In hoc signo vinces”.
Si tratta di vere e proprie corbellerie. Costantino vinse perché era il più
capace, il più intelligente e il più pronto. L’avventura di Massenzio, un uomo
incapace di governare tanto in pace quanto in guerra, durò sei anni solo grazie
all’aiuto del grande Massimiano, se no sarebbe durata
sei mesi.
Aveva 27 anni quando fu proclamato Augusto e 33 quando lo
uccisero.
61. Costantino
I il Grande – Imperatore
associato dal 306 al 323, unico dal 323 al 357. Era nato nella Mesia
superiore (più o meno la parte settentrionale della Bulgaria) ed era figlio
(illegittimo) di Costanzo Cloro.
“Alto e maestoso, Costantino
era abile in tutto quel che faceva; intrepido in guerra e affabile in pace. In
tutta la sua condotta lo spirito attivo della gioventù
era temperato da una abituale circospezione, e sebbene la sua mente fosse tutta
presa dall’ambizione appariva freddo e insensibile alle attrattive del piacere”
(Ammiano Marcellino).
E per godere della prosa lutulenta
di Gibbon e delineare al meglio il carattere e le
attitudini di Costantino, riportiamo un brano della sua opera “Declino e caduta
dell’impero romano”. “La morte di Costanzo fu seguita immediatamente
dall’ascesa al trono di Costantino. Le idee di eredità
e di successione sono tanto familiari che la maggior parte degli uomini le
considera radicate non solo nella ragione ma nella natura stessa.
L’immaginazione umana trasferisce prontamente gli stessi principi della
proprietà privata alla sfera pubblica, e ogni qualvolta un padre virtuoso
lascia dietro di sé un figlio i cui meriti sembrano
giustificare la stima e le speranze del popolo, si fa sentire con forza
irresistibile l’influenza congiunta del pregiudizio e dell’affetto. Il fior
fiore degli eserciti occidentali aveva seguito Costanzo in Britannia,
e le truppe nazionali furono rinforzate da una schiera numerosa di alemanni che obbedivano agli ordini di Croco, uno dei
loro capi ereditari. La convinzione della propria importanza e la certezza che
la Britannia, la Gallia e
la Spagna avrebbero accettato la loro designazione
furono diligentemente inculcate alle legioni dai sostenitori di Costantino. Ai
soldati fu chiesto se avrebbero potuto esitare un solo istante tra l’onore di
porre alla loro testa il degno figlio del loro amato imperatore e l’ignominia
di attendere supinamente l’arrivo di qualche ignoto straniero, al quale il sovrano
dell’Asia avrebbe potuto compiacersi di offrire gli eserciti e le province
dell’Impero d’occidente. Si lasciò comprendere anche che tra le virtù di
Costantino la gratitudine e la generosità avevano un
posto di rilievo, e quel principe astuto non si mostrò alle truppe finché
queste non furono pronte a salutarlo con il nome di Augusto e di Imperatore. Il
trono era l’oggetto dei suoi desideri; era, quando pure non fosse stato mosso
dall’ambizione, la sua unica ancora di salvezza. Conosceva benissimo il
carattere e le opinioni di Galerio e sapeva che, se
voleva vivere, doveva decidere di regnare. La doverosa, perfino ostinata
resistenza di cui Costantino diede prova era intesa a giustificare la sua
usurpazione, e egli non cedette alle acclamazioni
dell’esercito finché non ebbe il materiale necessario per una lettera che inviò
immediatamente all’imperatore d’Oriente. Lo informava del triste evento della
morte del padre, rivendicava con modestia il proprio
diritto naturale alla successione e lamentava rispettosamente che l’affettuosa
violenza delle sue truppe non gli avesse permesso di sollecitare la porpora
imperiale in modo regolare e costituzionale. Le prime reazioni di Galerio furono di sorpresa, di delusione e d’ira, e poiché
gli riusciva difficile frenare le sue passioni, minacciò ad alta voce di dare
alle fiamme tanto la lettera quanto il messaggero. Ma a poco a poco il suo
rancore si placò, e quando ricordò le alterne vicende della guerra, quando ebbe
soppesato il carattere e la forza del suo avversario, acconsentì a accettare l’accomodamento onorevole che la prudenza di
Costantino gli aveva lasciato aperto. Senza condannare o ratificare la scelta
dell’esercito britannico, accettò il figlio del defunto imperatore come sovrano
delle province transalpine, ma gli diede soltanto il titolo di Cesare e il
quarto rango tra i principi romani, mentre conferì il posto vacante di Augusto al proprio favorito Severo. L’apparente armonia
dell’Impero veniva così preservata, e Costantino che
già possedeva la sostanza del potere supremo, attese senza impazienza
l’occasione buona per conseguirne gli onori”.
Qui arrivati dobbiamo necessariamente sorvolare su alcune
intricate e nel caso specifico non molto significative
vicende (l’esarchia e il suo progressivo ridursi) al fine
di giungere alla fase del regolamento di conti con Massenzio.
Incoraggiato dai senatori, lo scontro, stupidamente,
arrogantemente, lo cercò Massenzio, e Costantino che deliberava con prudenza e
mai si faceva cogliere di sorpresa, agì con prontezza e vigore. L’avanzata di
Costantino contro Massenzio che si era acquartierato a Roma fu rapida e
inesorabile. Tra la resa di Verona e la vittoria finale non passarono
più di 58 giorni. Lo scontro avvenne in una pianura a poche miglia dalla
capitale che da allora (per il molto sangue che ne colorò le pietre e i
terreni) prese il nome di “Saxa rubra” (oggi vi sorge la sede della
Rai), dove i combattenti galli di Costantino, più temprati e abituati a
combattere, ebbero ragione degli indisciplinati italiani di Massenzio, che
l’indole, il gran numero, le possenti e pesanti armature e un comandante
borioso e risibile condussero ad una cruenta sconfitta. Massenzio scampò alla
strage ma non all’ira dei romani che, acciuffatolo sul ponte Milvio da dove
cercava di riparare nella città, lo uccisero e ne gettarono il cadavere nel
Tevere.
Uscitone vittorioso, Costantino fu
subito riconosciuto dai pavidi senatori, i quali sotto sotto
avevano brigato per Massenzio quale Augusto anziano (anziano nel senso
di primo), mentre dietro richiesta dello stesso Costantino il rango
immediatamente inferiore venne conferito a Licinio che, pur se con fatica, nel
frattempo era prevalso su Massimino.
A Licinio Costantino assegnò la parte occidentale dell’impero,
la meno ricca, la più turbolenta e come pegno del
patto gli diede in sposa sua sorella Costanza.
L’accordo non durò molto, perché Licinio detestava il
cognato ritenendolo un pallone gonfiato, e più d’una
volta, prima subdolamente e poi, via via, sempre più
apertamente, brigò per creargli dei problemi.
Uno di questi consistette nel fatto che per fare un dispetto
al cognato che s’era fatto paladino della nuova religione sostenne quel
paganesimo di Aureliano e di Diocleziano che se pure
non attecchiva costituiva sempre un buon collante per coloro che detestavano il
fanatismo dei cristiani e i loro paladini.
Poi, in un inarrestabile crescendo, si mise a sobillare di
fronda quel Bassiano (un uomo di notevoli ricchezze cui Costantino aveva dato
in sposa un’altra sua sorella) fomentandone il malcontento per via d’una nomina che non gli arrivava.
Il vigile Costantino che non aspettava altro, prima
sistemò l'infido Bassiano buttandolo a marcire nel fondo di una segreta, dopo
di che marciò contro Licinio.
Per dirla con Gibbon “due
cruentissimi scontri diedero a Costantino più diritto ma non più forza e a
Licinio forse un po’ di moderazione ma non la distruzione”.
Fatto sta che fu sancito un armistizio che tolse a Licinio
il possesso della Pannonia, della Dalmazia, della
Macedonia, della Dacia e della Grecia, che si congiunsero ai domini di
Costantino, cosicché egli ora dominava l’Europa dalla Caledonia
all’estremo limite del Peloponneso.
L’impari pace durò 8 anni, nei quali i due contendenti si
prepararono per quell’ultimo scontro che nelle intenzioni
di ciascuno doveva lasciare il rivale sul terreno e il vincente padrone di
tutto.
Attaccò Licinio, al quale l’acquisita prudenza non aveva
tolto l’antico rancore, con un poderosissimo esercito di 150 mila fanti e 15
mila cavalieri e una flotta di 350 triremi.
Costantino disponeva di poco più di 100 mila uomini e
di una modesta flottiglia. Ma i suoi soldati sovrintendendo alle martoriate
frontiere renane e danubiane avevano una costante
abitudine ai combattimenti, mentre, regnando in quegli anni con i Persiani una lunga quanto inconsueta pace, quelli di Licinio
avevano disimparato a combattere.
Lo scontro, di terra, avvenne a Adrianopoli
dove Costantino e i suoi soldati fecero strage dell’esercito del rivale, che
riparò a Bisanzio, e poi, quando anche Bisanzio si arrese, in Bitinia.
Dove l’inesauribile Licinio, uomo dalle infinite risorse, sempre sconfitto e
mai domo, tenacemente convinto di dover vivere da unico padrone del mondo o di
morire e perdere tutto (“aut Caesar aut nihil”) in breve tempo riuscì
ad armare un nuovo esercito di 60 mila uomini.
Ancora sconfitto riparò a Nicomedia,
in Cappadocia, per preparare un’ennesima resistenza.
A questo punto la povera Costanza con molto senso pratico intercedette presso
il fratello, facendosi garante del fatto che il marito avrebbe deposto la
porpora e per sempre ogni ambizione. Licinio, nonostante quel bel “aut Caesar aut nihil” che
storicamente gli è sopravvissuto, sollecitò il perdono delle sue colpe, depose
sé stesso e la sua porpora ai piedi del suo signore e padrone, e dinanzi a lui
chinò il capo.
Costantino con ingiuriosa pietà lo sollevò da terra, lo
ammise alla tavola imperiale e subito dopo lo fece
rinchiudere in una fortezza di Tessalonica, dove poco
dopo, tradendo la promessa che aveva fatto alla sorella, gli mandò il boia.
Così, con un gratuito delitto e nel nome di Cristo
misericordioso, il grande Costantino riunificò l’impero che di romano ormai aveva solo il nome,
rimanendovi l’unico padrone per quasi trent’anni, al
culmine di una carriera dove l’abilità, l’astuzia, il valore e la prudenza,
mescolandosi tra di loro nel modo migliore, avevano dato sempre il risultato
giusto.
Sulla tanto strombazzata sua predilezione per il cattolicesimo
si sono scritte, per malafede e convenienza, enormi sciocchezze. L’unica
bussola di Costantino fu il calcolo e l’unica sua guida
l’intelligenza. Egli scelse nell’ambito del cristianesimo il cattolicesimo solo
perché i vescovi cattolici stavano sconfiggendo, con la politica e con la
forza, l’ariana e tutte le altre eresie.
Il merito di Costantino consistette nell’avere intuito che,
se si voleva avere un poco di pace sociale, quella nuova religione, così
“ebraica”, così ostile, bisognava metabolizzarla.
Così fece, guadagnandosi quel titolo di Grande col quale è passato alla storia. Non convince questo giudizio
così assoluto e perentorio, non convince perché gli è venuto da quella chiesa
cattolica che dal suo arbitrio ha ottenuto più di quel che meritasse e le
spettasse.
Costantino a partire dal 315-316 cristianizzò le leggi dell’impero
secondo la visione cattolica; nel 318 riconobbe ufficialmente la giurisdizione
episcopale; nel 321 autorizzò le chiese a ricevere eredità; nel 320 consacrò la
festività domenicale, fino ad allora celebrata come
giorno del sole, al dio dei cattolici; Dal 331 fece dono alla chiesa cattolica
di grosse tenute, la così detta “donazione di Costantino” (vedi del prosieguo
la citazione da Dante Alighieri) che è la solidissima radice della frondosa pianta
della ricchezza della chiesa cattolica), nonché di edifici sparsi lungo tutto
l’impero, ordinò la costruzione di decine di lussuose chiese la cui costruzione
fu finanziata col pubblico. Nel 340 i vescovi assunsero incarichi statali.
Come riferisce Karlheinz Deschner, “nei processi la testimonianza di un vescovo
aveva più valore di quella dei “cittadini illustri”, ed era
incontestabile; inoltre ai vescovi fu affidata la giurisdizione nei processi
civili. Qualsiasi litigio poteva essere risolto dal vescovado, che avrebbe
emesso una decisione “santa e venerabile”.
Insomma quando morì, Costantino
aveva consegnato, a papa Silvestro e ai suoi successori, il potere temporale su
Roma, sull’Italia e sull’occidente.
Nefasto avvenimento del quale ancora oggi piangiamo le
conseguenze e che Dante condanna nel XIX canto
dell’Inferno con questi versi: “Ahi, Costantin di
quanto mal fu madre non la tua conversione ma quella dota che da te prese il
primo ricco parte”.
Di converso prodighi di lodi e di benemerenze sono stati
e continuano ad essere nei suoi riguardi i santi vescovi e i cardinali della chiesa
di Roma. Non paghi d’averlo fatto “grande” nonostante che frequentasse
le pratiche pagane, che sia stato crudele e sanguinario, che abbia massacrato
intere popolazioni, che abbia goduto di giochi circensi durante i quali fiere e
orsi affamati sbranavano centinaia di nemici (non sto scandalizzandomene, lo
facevano tutti; mi scandalizza che non se scandalizzino loro!), che abbia
sgozzato il figlio, strangolato sua moglie e assassinati il suocero e il cognato,
gli han fatto, come se tutto questo non bastasse, gli
han fatto santa, dico santa, la troia che lo generò.
Parlo di quella Elena canonizzata
in “santa Elena” che era una pagana che aveva lavorato come ostessa (stabularia) in una taverna dei balcani,
che aveva vissuto more uxorio con Costanzo Cloro per poi convivere in
situazione di bigamia quando Costanzo sposò l’imperatrice Teodora;
l’aristocrazia romana conosceva Costantino come “figlio della concubina” e lo
stesso sant’Ambrogio scrisse che “Gesù
Cristo nella sua infinita misericordia aveva elevato santa Elena dal fango al
trono”.
La medesima capacità di calcolo Costantino la usò nel
difficile rapporto con i barbari germani, che istituzionalizzò facendone il
(forte) nerbo degli eserciti imperiali e portandoli a difendere Roma anziché ad
attaccarla. Si guadagnò alcuni anni di pace, ma consegnò, legato anche stavolta
nelle mani e nei piedi, l’impero ai germani.
Noi pensiamo che queste sue due decisioni abbiano segnato,
nel cuore dell'impero romano d’occidente, il trionfo della barbarie e della
religione.
L’unico merito che siamo disposti a
riconoscergli è quello d’avere fatto costruire su 7 colli da cui domina le
sponde dell’Europa e dell’Asia quella splendidissima
capitale che è Istanbul che dal suo nome chiamò Costantinopoli, dove trasferì
la capitale dell’mpero.
Costantino il Grande ascese al trono all’età di
21 anni e dominò la scena, prima da co-imperatore e
poi da padrone unico, per 51 lunghi anni, esempio massimo di longevità.
Secondo Gibbon “nel lungo e
incontrastato meriggio del suo regno [Costantino] parve degenerare in un
monarca crudele ma dissoluto i cui vizi contrastanti e pur conciliabili della
rapacità e della prodigalità contribuirono a provocare la segreta ma universale
decadenza dell’Impero”.
La solennità delle parole del grande storico e la gravità
del senso sono suffragate dai numerosi delitti di
congiunti del sangue dei quali egli senza motivo e senza alcuna utilità si
macchiò (oltre a un Licinio ormai inerme, Costantino fece uccidere Crispo, il migliore e il più valoroso dei suoi figli, dei
cui successi era geloso, la moglie Fausta e il giovane nipote, sol perché era
figlio di Licinio).
E sono suffragate dal fatto che per
darne una ad ognuno dei suoi figli divise l’Impero in cinque fette. E dal
fatto, atto estremo di quell’opportunismo che ne aveva permeato la politica, che prima di morire si fece
battezzare.
62. Licinio – dal 308 al 324. Freddamente
crudele e smodatamente ambizioso, s’ingegnò sempre, prima in dipendenza a Galerio e poi pel soddisfo d’una
sua viscerale antipatia che il tempo non fece che accrescere, a contrapporsi a
Costantino, che pure gli aveva concesso la sovranità sulla parte occidentale
dell’Impero e gli aveva dato una sua sorella.
Più grande (d’età) di lui, non ne sopportava la potenza, la
prepotenza e la supponenza, e l’odio lo accecò così tanto da fargli ritenere
ogni volta, e nonostante le tante sconfitte, di poterne disporre.
Lo combatté con così tanta suicida ostinazione che, per
liberarsene, Costantino dovette ricorrere ad un disonorevolissimo
delitto.
Licinio ascese al trono che aveva 58 anni e vi durò 16 tormentatissimi anni.
63. Massimino II – dal 310 al 313. Rozzo, crudele,
collerico, invidioso, sfortunato (che, come sosteneva il generale Bonaparte, negli uomini d’arme è sempre il difetto più
grave), sceglieva sempre il partito peggiore e le posizioni meno vantaggiose.
Fu generale di Diocleziano e Cesare di Galerio e poi,
per tre anni, Augusto “esarca”. Tenne, più male che bene, la scena per 16 anni,
dai 58 ai 74 anni. Una ingloriosa e atroce morte lo
colse quando, per sottrarsi a Licinio che gli aveva distrutto l’esercito e lo
inseguiva, si ritirò dietro la catena del Tauro dove
cadde ammalato della calura di agosto e morì.
64. Valente (Valeriano Valente)
– Nel 316. Non ha
meritato, poveraccio, neanche quell’ordinario,
modesto, primo che valga a distinguerlo da quello
sciaguratissimo suo omonimo che fu attivo tra il 364 e il 378. Era un buon
comandante di soldati, dux limitis nella regione danubiana,
e l’imperatore Licinio, che nella sua diuturna, inarrestabile, drammatica,
interminabile lotta all’odiato Costantino aveva
bisogno di uno come lui, lo legò a sé conferendogli il rango di Augustus minor.
Ma 30 giorni dopo quella cooptazione
il grande Costantino, vincitore sul campo di
battaglia, poco cavallerescamente ne chiese a Licinio la eliminazione.
“Mors tua, vita mea”, avrà pensato Licinio, altrettanto
poco cavallerescamente acconsentendo.
Ancora non sapeva, l’infelice, quale mostro sanguinario il grande Costantino fosse.
65. Martiniano – Nel 324. Non dissimile di quella di
Valente fu la sorte di questo Martiniano. Perché, come a
Valente, molto gli nocque lo stare nella parte avversa a Costantino.
Perché questo Costantino era uno che a differenza del
suo Dio non perdonava mai niente a nessuno.
Sconfitto per la seconda volta, perduto il povero Valente,
Licinio leccatesi metà delle ferite e convintosi che fosse ora di sguainare di
nuovo la spada, quale nuovo Augustus minor
pensò a questo Martiniano che conosceva bene e del quale si fidava perché era stato
suo “magister officiorun”,
cioè gran ciambellano o capo di gabinetto.
- “Ribaldo, cosa hai da dire a tua discolpa?”
- “Niente, mio signore. Andiamo con chi ci paga; a maggior
ragione io, che il mio mi dava mezzo trono. E poi come potevo
immaginarmelo che quel gran bastardo di Costantino sarebbe diventato così
importante nei libri di storia?”.
- “Rinnegato da Dio, non potevi non saperlo! Non potevate
non accorgervi, tu e Valente il minore, dell’aureola di luce che a quel
santissimo figlio di puttana gli brillava sopra il testone. Per cui siete
condannati, entrambi, a non apparire sui libri di storia scritti ad majoram gloriam
Dei”.
Cercò di resistergli Martiniano, ma come Licinio fu
costretto ad arrendersi.
Fu chiuso in una segreta in Cappadocia, dove, poco dopo, inerme, Costantino lo fece scannare.
66. Costanzo II – dal 336 al 371. Il grande Costantino in un attimo, col suo scelleratissimo
testamento, disfece il capolavoro che con tanto accanimento aveva costruito,
condannando con lo stesso atto i suoi figli ad uccidersi fra di loro.
Il più risoluto di essi era
Costanzo che, per non stare con le mani in mano e magari per sgombrare un po’
il campo, prima che la festa iniziasse fece scannare i due più piccoli, giacché
contrariamente a quel che pensava il padre l’Impero non gli sembrava abbastanza
grande per tutti e cinque.
Fatti fuori i due più piccoli, Costanzo si prese tutta la
parte orientale dell’impero compresa la Tracia che pur
confinando ad oriente con lo stretto dei Dardanelli veniva considerata zona
occidentale, sistemandosi a Costantinopoli; a Costante che era il più piccolo egli
assegnò l’Africa, i Balcani e l’Italia che era il
solito covo di vipere e che nessuno voleva. E a Costantino II diede quella che
era chiamata la prefettura delle Gallie, cioè la Spagna, la Gallia e la Britannia.
E se aspettava che i due fratelli
venissero alle mani perché uno dei due subito dopo togliesse il disturbo non
dovette aspettare molto.
Difatti nel giro di tre anni Costantino II e Costante
regolarono i loro conti, con scorno del primo che ci rimise la pelle, e pieno
profitto del secondo che poté annettersene i domini, così che con possedimenti
che comprendevano quasi tutta l’Europa e il nord Africa divenne
potente quasi quanto il fratello.
Era quindi solo una questione di tempo e sarebbe certamente venuto
il momento che Costanzo e Costante se la sarebbero dovuta
vedere direttamente tra di loro.
Ma così non avvenne, perché Costanzo oltre che essere astuto
e sbrigativo era anche un tipo fortunato, perché capitò che un bel giorno in Gallia il fratello cadde vittima di un’imboscata tesagli da un suo ufficiale barbaro (Magnezio),
così che anche Costante uscì di scena.
Fu così che Costanzo II, che del grande
Costantino era il terzogenito, eliminato col pretesto che gli aveva
ucciso il caro fratello anche Magnezio restò l’incontrastato
protagonista sulla scena.
Solitario, pessimista, sospettoso, incapace di indulgenza, senza slanci, senza calore umano, malinconico
e taciturno, senza vizi né abbandoni, Costanzo II tenne di sé sempre un
concetto altissimo che illustrò con freddo e crudele distacco. Sulla “vexata quaestio” della natura del Cristo,
divergendo dalle posizioni che erano state di suo padre, appoggiò l’arianesimo
e questa sua presa di posizione, dato il fondamentale ruolo egli che ricopriva,
avrebbe potuto incidere seriamente sulla storia a
venire.
Ma un banale incidente lo tolse di
mezzo quando stava marciando alla testa di un poderoso esercito per lavare
l’onta che un suo generale (Giuliano, Giuliano l’Apostata), levandosi da sé al
rango più alto, gli aveva proditoriamente inferto.
Aveva 44 anni e aveva tenuto il regno per 24. Sono persuaso
che un personaggio così tetro e sospettoso a William Shakespeare
sarebbe molto piaciuto.
67. Costante I – dal 336 al 350. Era il quarto
figlio di Costantino, quello cui erano toccati i Balcani, l’Italia e l’Africa.
Depravato, dissoluto, avido, avaro, “spremeva i sudditi
con le tasse, li irritava con le sue testardaggini e li scandalizzava con i
suoi costumi” (Ammiano Marcellino); cattolico
ortodosso e, per sua personale disgrazia, anche sprezzante dei soldati. I quali naturalmente non glie la perdonarono (cfr.
Magnezio).
Ristette sulla scena dai 17 ai 30 anni.
68. Costantino II – dal 337 al 340. Era, come si è
detto, uno dei tre figli superstiti di Costantino, quello cui toccò il versante
atlantico del continente. Fu, nel furioso contendere che i tre fratelli
ingaggiarono il primo a perire.
“Costantino II – citiamo ancora il capolavoro di Gibbon - guidò contro il fratello Costante una banda
tumultuosa adatta alla rapina più che alla conquista, e riuscì soltanto a
subire una sconfitta e a trovare la morte”.
Era collerico e irriflessivo, non
poteva durare a
lungo. Entrò in scena a 20 anni e ne uscì per sempre all’età di 23.
69. Magnezio – dal 350 al 353. Barbaro, generale
di Costante. Cavalcò il malcontento dei soldati per il loro scostumato sovrano
e per la dinastia dei Costantinidi. Eliminato
Costante si autoproclamò sovrano secessionista della
parte occidentale dell’impero.
Costanzo, che di avversari e di
usurpatori non voleva sentire parlare neanche per scherzo, gli mosse
prontamente guerra. Sconfitto, per scampare alla sorte che il diritto e la
norma riservano agli usurpatori, Magnezio che era
nato in Britannia ed era stato un buon generale nonché un volenteroso sovrano si uccise.
Apparve sulla scena che aveva 47 anni e ne uscì che a 50;
Forse avrebbe meritato più fortuna.
70. Napotiano
(o Nepoziano) – nel 350. Figlio di Entropia, sorellastra di Costantino, e quindi nipote del
Grande (da qui il nome).
Proclamato, per le mene di questa, Augusto (350), represse
sanguinosamente la rivolta dei seguaci dell’usurpatore Magnesio. Ma pochi
giorni dopo, vivo sempre nei loro cuori l’odio per i Costantinidi,
venne ucciso da dei soldati sopravvissuti.
71. Costanzo Gallo
– nel 351. Costanzo II non aveva avuto figli da nessuna delle tre mogli e ai
suoi fratelli non aveva dato il tempo di farne. Per cui dalla
vasta progenie di Costantino, e da quel bagno di sangue, emergevano, abbastanza
lontani, solo due ragazzi, Gallo di dieci anni e Giuliano di sei.
Il primo che Costanzo proiettò sulla scena, nominandolo
Cesare d’oriente, fu il maggiore, Gallo.
Paranoico, impulsivo,
dalla intelligenza opaca e dall’indole aspra e
solitaria, l’ebbrezza del potere e l’altezza del compito lo persuasero che nel
comandare pagassero solo la forza, i delitti e i massacri, sicché nel giro di
pochi anni scannò non solo singoli uomini ma intere popolazioni.
Costanzo, temendo che la sua ottusa sanguinarietà
potesse sollevargli contro se non la popolazione l’esercito
(e delle due eventualità questa era certamente la peggiore), con delle prove
false di cospirazione e di tradimento inscenò un processo farsa e lo fece
decapitare.
Gallo morì all'età di ventinove anni; aveva regnato come Caesar d'oriente per quattro.
Al gran burattinaio non rimase quindi che Giuliano, il più
piccolo.
71. Giuliano II (conosciuto come Giuliano
l’Apostata)
– dal 361 al 363. Scoccò pertanto l’ora di Giuliano, il quale di Gallo era
l’esatto contrario. Quanto quello era ottuso,
smidollato e violento, così Giuliano era cauto, intelligente e determinato. Era
molto giovane e non aveva alcuna esperienza di
eserciti e di governi, ma osservando e partecipando, in poco tempo seppe
farsene di utilissime. Era stato da poco nominato Cesare che Costanzo, che ne aveva intuito le qualità e voleva saggiarne
l’affidabilità, gli conferì l’impegnativo incarico di stornare dai territori
imperiali i franchi e gli alamanni che in sempre
maggiore numero e con crescente tracotanza attraversavano il Reno. Giuliano li annientò, soffocò la ribellione dei residenti, ristabilendo
ovunque, anche nella lontana Britannia, l’autorità
imperiale e l’ordine.
Costanzo, che era tetro e sospettoso quanto si vuole non era
stupido s’avvide subito che quel ragazzo aveva qualità e temperamento da
vendere e considerò che a lasciargli troppa corda c’era il rischio che gli facesse
quel che lui aveva fatto ai suoi fratelli, per cui,
col pretesto che gli servivano più truppe per contrastare i persiani e
considerando – gli mandò a dire - che con le sue brillanti vittorie aveva
pacificato quei territori, gli trasferisse 4 intere legioni (dei celti, dei petulanti, dei batavi
e degli eruli) e i 300 giovani più valorosi di ognuno
dei rimanenti reparti, e che tutti costoro si portassero al più presto al
confine con la Persia.
Nella buona sostanza lo disarmava.
Giuliano lì per lì non seppe come decidersi; sapeva che la
richiesta dello zio era formalmente ineccepibile ma
capiva anche che a capo d’un esercito fantomatico avrebbe finito la sua vita o
da prigioniero nel campo dei barbari o da accusato nel palazzo di Costanzo.
Una autentica sollevazione popolare
provvide a scongiurare le due eventualità; tutti i soldati, gli esodanti e quelli che rimanevano, al grido ritmicamente scandito di “Giuliano Augusto!”, con
turbolente acclamazioni e con minacciosa sollecitudine lo acclamarono imperatore.
Il povero Giuliano che aveva alti i sentimenti di prudenza e di lealtà, e aveva
chiara anche la cognizione che quella dello zio era una speciosa congiura
ordita per danneggiarlo, ponderate bene le cose
ritenne più agevole cedere alla violenza dei soldati anziché abbandonarsi alla
protezione del suo sovrano. Per cui, deciso a mantenere la carica che aveva
assunto e nello stesso tempo desideroso di evitare all’Impero le calamità di
una guerra civile, inviò a Costanzo, anche per proteggere la propria reputazione
dall’accusa di perfidia e di ingratitudine,
un’epistola nobile e moderata, che firmò col modesto appellativo di Cesare, ma
con la quale gli sollecitava in maniera rispettosa e perentoria la conferma del
titolo di Augusto, rivendicando in pratica che quell’autorità
che da tempo esercitava nelle province della Spagna, della Gallia
e della Britannia venisse chiamata col nome giusto.
Costanzo minacciato dal solito Sapore lì per lì abbozzò, ma
si guardò bene dall’approvare la condotta di Giuliano e di ratificare il nuovo
stato. Come se volesse concedergli una chance di salvezza
gli rispose che s’accontentava che il presuntuoso ragazzo facesse espressa
rinuncia al nome e al rango di Augusto conferitogli dai ribelli, che
riprendesse la sua precedente carica di ministro limitato e dipendente, che
lasciasse i poteri dello stato e dell’esercito nelle mani di quegli ufficiali
che venivano nominati dalla corte imperiale, e che fiducioso affidasse la sua
incolumità alla benevolenza del suo sovrano.
Giuliano riunì le truppe e lesse alla moltitudine
l’altezzosa risposta di Costanzo, dopo di che con la più lusinghiera deferenza
si disse pronto, se i soldati lo avessero voluto, a
rinunciare al titolo di Augusto. La sua debole proposta fu messa impetuosamente
a tacere e le acclamazioni di “Giuliano Augusto!” rimbombarono tra il cielo e
la terra. Lo scontro armato non era più evitabile.
Nascondendo il tormento della propria anima sotto la
maschera del disprezzo, Costanzo si dichiarò risoluto a tornare in Europa e a
colpire Giuliano (non parlò mai di quella spedizione militare se non nei
termini di una partita di caccia), ma per quell’imponderabile
che governa il destino degli uomini, durante la marcia
di avvicinamento al rivale improvvisamente morì, risparmiando con una morte
tempestiva e in effetti alquanto prematura (aveva solo 44 anni) a Giuliano la
crudele alternativa, che egli pateticamente lamentava, di distruggere o di
venire distrutto, e all’impero romano la calamità di una guerra civile.
All’apertura del testamento qualcuno si stupì nel vedere che
l’iroso Costanzo aveva designato suo unico erede proprio quel Giuliano che
andava a combattere.
Non pensiamo che al mutare delle cose Costanzo non avesse avuto il tempo di cambiare nel testamento il nome del
beneficiario, piuttosto, riteniamo, stimandone il carattere e l’intelligenza,
che non l’abbia fatto perché stimava quel suo ribelle nipote come l’unico
effettivamente degno di succedergli.
Giuliano intelligentemente stette al gioco, negò che col sovrano
ci fossero stati dei dissapori, negò che stessero per affrontarsi una guerra
fratricida, e piangendo sulla bara calde lacrime gli tributò
solennissime esequie.
Fu una bellissima commedia che sanciva in maniera
spettacolare e giusta il passaggio del testimone tra Costanzo II che grande lo
era stato e Giuliano che grande lo stava diventando. Così
Giuliano, che era di piccola statura, di maniere schive, che vestiva con molta
semplicità e nei pasti era frugale e vegetariano, a 32 anni acquistava
l’indiscusso possesso dell’impero.
In tale compiti disprezzò gli onori, rinunciò ai
piaceri e assolse con incessante diligenza i doveri della sua elevata carica.
Possedeva una tale duttilità di pensiero, e un’attenzione tanto ferma, da
potere usare – come Napoleone dopo di lui – la mano per scrivere, l’orecchio
per ascoltare e la voce per dettare, seguendo contemporaneamente e senza
sbagliare i fili di tre idee diverse.
Uomo di cultura e di formazione filosofica, Giuliano tra le
folle, in questa porzione di mondo, non ha il rilievo che merita, anzi il
dispregiativo “l’Apostata” (il rinnegato) lo marchia d’infamia da secoli.
Gli esegeti di scuola cattolica lo hanno accusato di avere
restaurato il paganesimo. Ma è una menzogna, così come è
una menzogna che abbia perseguitato i cristiani, anche se certamente non li
amava. Non li amava perché fin da ragazzo era stato messo a scuola presso un
altezzoso vescovo cattolico che più che da educatore gli aveva fatto da
carceriere, che aveva fatto il possibile e l’impossibile per piegarne la viva
curiosità e mortificarne l’orgoglio. Non li amava anche perché quando se ne affrancò prese, per ovvia reazione, a nutrirsi di studi
classici, riempiendosi la mente di cultura ellenistica e delle opere dei
filosofi greci (e non c’è nulla di più lontano dal cattolicesimo delle idee
degli epicureisti greci).
I suoi “delitti” furono che da sovrano riconobbe uguali
diritti e libertà di credenza a tutti i culti, e che, non accettando la pretesa
delle gerarchie ecclesiastiche di condizionare la politica dello Stato, eliminò
gli onori e le indennità clericali, proibì i lasciti alla chiesa, li escluse
dallo studio della grammatica e della retorica, li destituì dalle alte cariche
civili e militari e li costrinse a risarcire i danni per i templi pagani che avevano
distrutto (il che spesso equivaleva ad abbattere le chiese costruite nello
stesso punto).
Ideologicamente Giuliano era un agnostico, e in effetti avendo letto Seneca e
Zenone non poteva non esserlo. Varò coraggiose riforme in
molti campi e in quello monetario fece di tutto per imbrigliare la
fortissima inflazione.
Era coraggioso e intrepido, di viva intelligenza e di grande capacità di applicazione, coltissimo e facondo.
Il suo genio era meno potente e sublime di quello di Cesare,
né possedeva la consumata prudenza di Augusto. Le
virtù di Traiano appaiono più costanti e naturali
delle sue e la filosofia di Marco Aurelio più semplice e coerente. Ma nessuno
dei predetti possedette tutte le qualità che Giuliano illustrava
e riuniva nella sola sua stessa persona.
Morì colpito da un dardo in una scaramuccia di guerra contro
Sapore, durante una campagna che aveva diretto con grande
vigore e con successo iniziale.
Durò solo 16 mesi, ed è
stupefacente il molto che ben fece in un così breve periodo (dai 29 ai 31
anni). Apostata o non apostata, emerge chiaro che il gran Dio della chiesa di
Roma non fu dalla sua parte.
72. Gioviano – dal 363 al 364. Era uno degli ufficiali di Giuliano, gli era leale, come lui era
parco nei gusti e nelle affettazioni, era anche prudente, ma di Giuliano non
possedeva l’intelligenza e neanche il coraggio. La guerra stava andando per le
lunghe e non prometteva niente di buono. Le legioni, attratte dall’astuto
Sapore che senza mai accettare una battaglia continuamente indietreggiava
discendendo il Tigri stavano spingendosi troppo lontano.
La inattesa morte di Giuliano suscitò
disorientamento e indecisione, e in molti subentrò lo scoramento. Alcuni
ufficiali interpretando o credendo di interpretare lo stato d’animo dei soldati
chiesero di ripiegare.
Per cui Gioviano, che i soldati lì
per lì avevano innalzato al supremo rango, concluse, per ragioni che uno
studioso di psicologia saprebbe indagare meglio di noi, con Sapore un
armistizio vile e vergognoso col quale, a pagamento d’una
vittoria che il rivale non aveva conseguito, gli cedette l’Armenia, la Mesopotamia e l’inespugnabile città di Nisibis.
La notizia del trattato suscitò a Roma e dovunque una
vivissima indignazione, ma Gioviano, che nel
frattempo si era affrettato a riabilitare il cristianesimo poteva contare sull’influente
appoggio delle autorità vescovili che erano come galvanizzate dall’essersi riuscite
a sbarazzarsi senza muovere un sito dell’Apostata, per cui
nonostante il grave atto di fellonia Gioviano riuscì
a cavarsela e a conservare il trono.
Il vile trattato con i persiani e questo ancora più vile
patteggiamento con le autorità vescovili furono gli unici atti del suo breve
regno.
Perché morì di morte apparentemente
naturale qualche mese dopo. Era stato un buon soldato ma i suoi tre anni di principato
costituiscono una delle pagine meno pregevoli nella
turbolenta storia di Roma.
73. Valentiniano
I – dal 364 al 375.
Alla morte di Gioviano l’esercito dovette fermarsi e
procedere ad una nuova elevazione.
Il prescelto fu un altro ufficiale, Valentiniano,
un pànnone che si era guadagnato i suffragi dei suoi
commilitoni per la sua reputazione di buon soldato, per l’abilità e
l’esperienza in campo militare e per il suo rigido attaccamento non solo allo
spirito ma anche alle forme dell’autodisciplina.
Appena eletto Valentiniano
conferì al fratello Valente il governo della parte orientale dell’impero (ricca
e quasi pacifica, se non fosse stato per le periodiche sortite di Sapore),
trattenendo per sé, con capitale di nuovo a Milano, la parte occidentale.
Quello delle armi era il mestiere che fino ad allora Valentiniano aveva saputo far meglio e non può stupire che
lo abbia assolto in maniera tanto egregia. Stupiscono piuttosto le innovazioni
che con grande lungimiranza introdusse nel campo
dell’amministrazione civile, non meno rilevanti ed incisivi ma di quelli certamente più rivolti
al sociale) di quelli che più di mezzo secolo prima il grande Diocleziano aveva
introdotto nel corpaccione molle dell’impero.
Valentiniano pose in opera provvedimenti
innovativi e benefici per la salute del popolo: condannò l’esposizione dei
neonati; istituì nei 14 distretti di Roma altrettante condotte sanitarie che
dotò di medici di provata esperienza cui assegnò un regolare stipendio e dei
giusti privilegi. Nella principale città di ogni
provincia organizzò scuole di retorica e di grammatica greca e latina dove il
nome, la professione e il domicilio degli studenti venivano debitamente
riportati in un registro pubblico, così gettando il primo abbozzo della forma e
della disciplina di una università moderna, e dove agli studenti s’imponeva –
lo rileviamo con ammirazione – un’età massima (il 20/mo anno) per il
completamento degli studi. Amministrò le finanze tartassando fino all’inverosimile latifondisti, proprietari terrieri, osti e
commercianti e il molto che ne ricavò lo spese per migliorare le condizioni di
vita dei militari, per assoldarne di nuovi e per rassicurare i confini dell’Impero,
per ammodernare la burocrazia e per dare assistenza ai bisognosi. E in un’epoca di controversie religiose mantenne sempre una
costante e moderata imparzialità: nessun tipo di culto fu da lui proibito se
non quelle pratiche criminose e segrete che abusavano del nome di religione per
i loschi fini del vizio e della dissolutezza.
Pose però un limite alle ricchezze e all’avidità del clero
così come alla lussuria degli ecclesiastici e dei monaci, cui proibì di
frequentare le case delle vedove e delle vergini.
Creò l’embrione di uno stato di diritto e si curò anche
della felicità e della virtù domestica. Durante il principato di Valentiniano buone leggi proteggevano i cittadini dal
potere arbitrario e dall’eccessiva povertà.
Nella amministrazione della giustizia Valentiniano fu animato da un giustizialismo
feroce, quasi selvaggio, che il temperamento collerico e gli scoppi d’ira
amplificavano spaventosamente; ciò nonostante ai giudici raccomandò sempre
temperanza ed equità, arrivando al punto d’istituire presso i tribunali un
corpo di difensori d’ufficio.
Pretese però che nessuno che fosse stato condannato per un
delitto potesse commetterne un altro; con i rei e con i malfattori non ebbe mai
un barlume di misericordia, ma nessuno può sostenere che la sua intolleranza
sia sconfinata nel sadismo o nella crudeltà gratuita.
Parimenti severo fu anche nel rapporto con i soldati. Era
difatti sua opinione che essi dovessero imparare a
temere l’indignazione del loro comandante più delle minacce di morte che
derivavano loro dagli scontri col nemico. Occorre dargli atto che il potere non
gli diede mai alla testa, che aborrì il lusso e non amò mai le ostentazioni.
Molti benpensanti lo criticano per la faccenda degli scoppi
di collera e per la feroce caparbietà con la quale s’applicò nel punire i rei
(ma in tema di esecuzioni capitali non vediamo che
cosa avrebbe potuto insegnare alla democratica Inghilterra del XVIII secolo o
alla civile e libera America del XIX secolo), ma a nostro parere Valentiniano fu un imperatore assolutamente esemplare ed è forse
il nostro preferito.
Il suo carattere era saldo e dritto, la sua intransigenza
soprattutto rigore morale; era colto e scriveva bene. Nessuno può negare che
sotto la sua frusta e grazie al suo impegno il benessere dei cittadini e la
sicurezza crebbero notevolmente.
Salì sul trono che aveva 43 anni
per morire 11 anni dopo, a 54 anni, per un malaugurato colpo apoplettico dovuto
ad uno dei suoi famosi attacchi d’ira.
“In una stasi momentanea della guerra – riportiamo
ancora da Gibbon - gli ambasciatori dei quadi furono condotti in presenza
di Valentiniano per chiedere clemenza. In risposta, l’imperatore insultò... la loro meschinità, la
loro ingratitudine, la loro insolenza. I suoi occhi, la sua voce, il colorito e
i gesti esprimevano la violenza di una furia sfrenata, e mentre tutto il suo
corpo era scosso da una passione convulsa, gli scoppiò
all’improvviso un grande vaso sanguigno, e Valentiniano
cadde senza una parola tra le braccia del suo seguito”.
Che ingiuria alla buona costumanza, che
sventura per l’impero e il popolo romano!
74. Valente – dal 364 al 378. Era il fratello
di Valentiniano, aveva 36 anni e nessuna qualità
degna di considerazione se non quella di un conveniente e devoto attaccamento al fratello, cui riconobbe l’autorità e la superiorità di genio.
Era pavido quanto Valentiniano era
coraggioso, e se la fissazione di quello fu il giustizialismo
quella di Valente era un’ansia per la sua incolumità così radicata e fatale che
ne cangiò la naturale pavidità
in pericolosa paranoia, facendone un sanguinario assassino che soddisfò i
propri angosciosi sospetti mandando indiscriminatamente a morte colpevoli e
innocenti.
Se nelle pratiche interne il principio dominante del suo
governo e di tutte le sue azioni fu quello di una cupa e continua mattanza, in
quelle esterne il suo nome viene ancora ricordato per
la memorabile disfatta di Adrianopoli che consegnò l’Impero
romano ai goti.
Il fatto avvenne nel 378, quando i goti di Fritigerno, schiacciati dai terribili unni che, spinti a loro volta dagli spaventosi tartari, sopravvenivano
dall’Asia centrale, sconfinarono e a migliaia, a milioni, dilagarono al di qua
del Danubio implorando al sovrano protezione e asilo.
Valente che non seppe organizzarsi
né per ospitarli e nemmeno per respingerli li tenne tutti i giorni sull’acqua
dove a migliaia morirono per gli stenti e la fame oppure affogando miseramente,
così che per la sua insipienza, la sua viltà e la sua arroganza essi si
trasformarono da esuli supplicanti in un popolo rancoroso
e ostile.
Fino a quando, spaventato da quelle lacere moltitudini
rumorosamente supplicanti che non potevano né avanzare e né più retrocedere,
non si rivolse al collega d’occidente (suo nipote Graziano, giacché Valentiniano era morto) cui chiese di unirsi a lui per
debellarli quali comuni nemici.
Se non che, prestando orecchio ai suggerimenti
adulatori degli eunuchi e essendo ansioso di guadagnarsi la facile gloria di
una conquista sicura, improvvisamente si risolse ad affrontare quelle
preponderanti e lacere schiere senza attendere i richiesti e attesi rinforzi, onde
evitare che il contributo e l’aiuto del suo giovane collega potessero far velo a
quell’impresa che, egli al cospetto di quelle
moltitudini lacere e denutrite, vedeva come una vittoria facile e sicura.
L’esito della battaglia di Adrianopoli, drammaticamente fatale per l’impero, può
essere descritto in poche parole: la fanteria, 40.000 uomini, fu circondata e
massacrata, la cavalleria fuggì e il sovrano abbandonato dai suoi cavalieri ci
rimise la vita.
Valente aveva sciaguratamente regnato per 26 anni, e
compiendo gratuiti delitti e facendo solo danni.
75. Procopio – dal 365 al 366. Grazie alla sua
parentela con Basilina, madre dell’imperatore
Giuliano II (che abbiamo una invincibile riluttanza a
chiamare L’apostata), questo Procopio che nella guerra persiana aveva avuto da
Giuliano posizioni di un qualche rilievo salì ai gradi più elevati. Morto
Giuliano, l’imperatore Goviano lo esautorò privandolo
tanto dei privilegi quanto delle prospettive di
carriera. Non digerendo l’affronto due anni dopo, nel 365, Procopio si fece
proclamare imperatore a Costantinopoli, e contro Valentiniano
e Valente si insediò nella Tracia, in Bitinia e nell’Ellesponto.
Ma non molto tempo dopo, per ragioni
che non conosciamo, abbandonato dai suoi generali e tradito dai suoi tribuni,
fu consegnato a Valente che senza starci a pensare due volte lo fece decapitare.
Non lo compiangiamo, è la fine che meritano
gli usurpatori quando i loro piani non s’affermano.
Sottile è però, troppo sottile, quasi invisibile, il confine
che corre tra il trono e cippo del boia, tra la gloria e l’esecrazione, tra la
vita e la morte, e non sempre è il merito a fare la differenza. Ci chiediamo
cosa avesse in più di questo Procopio quel sanguinario pusillanime di Valente
che con o senza una qualche parvenza di diritto ritenne di poterlo affidare alle
cure del boia.
76. Graziano – dal 367 al 383. Valentiniano era un tipo molto previdente e alla continuità
della dinastia ci teneva, per cui, per uscire al più
presto dall’incertezza, conferì al figlio Graziano che aveva otto anni, il
rango di Augusto minore. Ma siccome sapeva quanto fosse rischioso quel mestiere
volle sistemare ben a tempo anche la questione della successione al successore,
facendo sposare il figlio, quando questi compì i 15 anni, con Costanza, che di anni ne aveva appena il giusto per potergli dare l’erede,
la quale Costanza era figlia postuma di Costanzo II e della ambiziosissima
Giustina. Per accrescere ancora di più la confusione si
ci mise anche che la predetta donna Giustina che, non paga dell’essere suocera
dell’Augusto minore e consuocera del maggiore, volle
che anche al suo piccolo (che la signora aveva avuto dall’usurpatore Procopio e
che si chiamava pure lui Valentiniano) fosse concesso
lo stesso rango di Graziano, anche se se l’era appena tolto dal seno.
Così che quando il vecchio Valentiniano,
felicemente ricco di eredi e di successori, per quella
malaugurata botta di sangue calò nella fossa a succedergli sul trono fu Graziano
che pure aveva solo 16 anni.
Era un tipo assai prudente, il ragazzo, anzi, siccome consideriamo che a vent’anni non
sia lecito a nessuno esserlo troppo, ci assale il forte sospetto che fosse sopra
tutto un gran fifone.
Ce lo conferma il fatto che quando coi
suoi soldati giunse a poche miglia da Adrianopoli e
seppe che quello sciagurato di Valente vi si era fatto massacrare dalle
malconce truppe di Fritigerno si guardò bene dal dare
battaglia, anche se è lecito pensare che potendo fruire del vantaggio della
sorpresa e di altre situazioni propizie avrebbe potuto facilmente conseguire una
piena vittoria. Invece fece bellamente dietro-front e
se ne tornò a casa. A quel pusillanime poteva andar bene uno scontro a due
contro uno, mai uno contro uno, nemmeno quando quelli
che doveva attaccare erano impreparati a sostenere un altro urto e si trovavano
in una posizione di forte instabilità.
E lentamente camminando, il fellone ebbe a considerare che siccome
lo zio Valente facendosi ammazzare e facendosi distruggere l’esercit aveva dato via libera ai goti, lui un impero di
quella fatta da solo non poteva tenerlo, né poteva dividerlo col Valentiniano figlio di donna Giustina e dell’usurpatore
Procopio che, pur se già “Augusto minore” di fatto
ancora giocava con le spade di legno e con i cavalli a dondolo.
Per cui Graziano conferì i territori e (soprattutto) i
problemi che erano stati di Valente, cioè quelli di
natura militare, a un Fabio Teodosio che era un suo generale e che essendo figlio
d’un grande di Spagna gli sembrava idoneo a portarne il carico.
Mentre a sé stesso furbescamente
riservò gli agi del Palazzo e gli affari di stato. E non
solo. Siccome era uno che non metteva un dito
nell’acqua tiepida, prudentemente s’asservì a quell’Ambrogio
vescovo, che, in quella Milano che a poco a poco stava sopravanzando Roma nel
governo della cosa pubblica e nel controllo dei territori, con piglio
autoritario e con le certezze del vincitore dirigeva gli affari mondani della
sua chiesa e quelli spirituali del sovrano.
Desolati ci limitiamo ad evidenziare
che l’imperatore Graziano aveva assunto la co-reggenza
dell’Impero a 8 anni, la reggenza piena (si fa per dire) a 16, e che morì, per
mano di un certo Massimo che in Britannia aveva
issato la bandiera della ribellione, che ne aveva appena 24.
Stupisce, sgomenta, addolora che da un uomo orgoglioso,
coraggioso e impulsivo come Valentiniano sia potuto derivare derivato questo spregevole pusillanime.
77. Valentiniano
II – dal 375 al
392. Era nato da Giustina e da quel Procopio che, avendo tentato un golpe ai
danni di Valente e avendoci rimesso il collo, ha dato
al mondo l’ennesima conferma di come sia più facile salire sui letti delle
regine che sui troni dei re.
Il piccolo Valentiniano aveva solo
quattro anni quando, in forza delle mene dell’ambiziosa madre, l’ansioso Valentiniano I cui gli eredi non parevano mai troppi, lo
elevò, insieme col figlio Graziano, che di anni ne
aveva appena il doppio, al rango di Augusto minore.
Ma il povero, piccolo, Valentiniano
II nel gran fiume della storia ci è rimasto con la
stessa saldezza di un tappo di sughero in un gurgite
ribollente. Rimpallato come una palla di stracci da Giustina, da Graziano, da
Magno Massimo e da Teodosio, avversato da quell’Ambrogio
che non gli perdonò una pallida simpatia per l’arianesimo, girando in questo
cieco e tragico tourbillon, aveva 21 anni quando andò a sbattere, per
inabissarsi per sempre, sul suo scoglio fatale.
Detto scoglio portava il nome di Arbogaste
- un franco arrogante e invadente, idolo delle truppe, che governava in suo
nome e pertanto avrebbe dovuto
proteggerlo e che invece lo scannò nel sonno. Consumato l’infanticidio, Arbogaste fece indossare la porpora sovrana ad un suo
protetto di nome Flavio Eugenio (Flavio Massimo).
78. Teodosio
I – dal 379
al 395. E’ detto “il Grande” solo perché fece sempre ciò che quel volpone di Ambrogio gli diceva di fare. D’altronde era stato proprio
il vescovo Ambrogio, oggi patrono ma allora padrone di Milano, a “suggerirlo” a
Graziano, quando questi gli chiese consiglio su con chi
sostituire Valente.
Di fatto fu tenendo il piedone destro sulla testa di
Graziano e quello sinistro su quella di Teodosio (e quindi entrambi i santi
piedi sull’intera carcassa dell’impero) che Ambrogio seppe meritarsi la sua preclara
santità.
Di conseguenza Teodosio, quale principe sovrano dell’impero
romano d’occidente, fece alcune cose d’un certo peso: avvantaggiò
spudoratamente i preti, che ripristinando la turpe pratica delle donazioni e
dei legati testamentari arricchì oltre ogni
ragionevole misura; stroncò con un furore degno di causa migliore anche il più
piccolo segno di eresia (a farne le maggiori spese fu l’arianesimo, tant’è che da allora e per molto tempo per trovare un
ariano si doveva risalire l’intera Germania), quindi, sempre per suggerimento
di Ambrogio, concesse agli alamanni un territorio e
un’autonomia statuale che costituirono l’embrione di quello che nei tempi a
venire sarebbe stato il regno di Baviera (stato eminentemente cattolico, anche
adesso), insomma, fu un castigo di Dio.
Ebbe anche la fortuna, come era
capitato ai più grandi, di riunire in sé le due corone; successe quando,
sentendosi a buon diritto prediletto da Dio, si persuase a osare finalmente una
impegnativa guerra contro quel Arbogaste e quel
Flavio Massimo che, in combutta tra di loro, erano stati uno l’eversore e
l’altro l’usurpatore del povero Valentiniano II.
Data ai due la sorte che meritavano, Teodosio il grande poté
finalmente entrare da trionfatore a Milano. Dove dopo appena cinque mesi,
all’età di 48 anni, e dopo 16 di regno, morì di idropisia.
Ma i guasti che aveva fatto erano
purtroppo irridemibili.
79. Magno Massimo – dal 383 al 388. Il governatore
della Britannia Magno Massimo si ribellò a Graziano
in ragione – diceva – dell’indecoroso e vile asservimento di questi alle
gerarchie cattoliche, cosa che secondo lui – e invero non aveva affatto torto a
dirlo - mortificava la corona.
E con una congiura che nel Palazzo trovò subito un certo seguito lo eliminò.
Ciò fatto inviò una rassicurante missiva a Teodosio con la
quale lo pregò di starsene tranquillo là dov’era perché lui non lo avrebbe
disturbato, ché la parte occidentale dell’impero gli
bastava e gli avanzava. Anzi – continuava - per dargli
conferma della moderatezza e della lealtà dei suoi propositi, spontaneamente
regalava l’Italia al piccolo Valentiniano.
A Teodosio questo Magno non è che andasse
molto a genio ma non trovando la risolutezza necessaria a muoversi gli fece
buon viso. Tanto che Magno Massimo si rassicurò e, ad onta delle assicurazioni
di moderatezza e continenza che gli aveva date, si mise silenziosamente a
rinforzarsi. E più si rinforzava più si persuadeva d’essere stato un po’ troppo
rinunciatario e precipitoso a mollare l’Italia a Valentiniano,
per cui cominciò a dar segni d’insofferenza.
L’astuta Giustina, fiutato il vento e sentito odore
di bruciato, presi con una mano il piccolo Valentiniano
e con l’altra una figlia già mezzo cresciutella, se
ne partì di gran carriera per Costantinopoli dove chiese tutela e riparazione a
Teodosio. Irrimediabilmente avanti negli anni ma rotta a tutte le emergenze la donna non si fece scrupolo d’apparecchiare al
timido sovrano, per vincerne le titubanze, le fresche grazie della giovinetta
(Galla); Teodosio ci cascò come un merlo e per passione fece ciò che per
calcolo non avrebbe mai fatto.
Gibbon enfaticamente scrive che “la
celebrazione delle nozze regali rappresentò la certezza e il segnale della
guerra civile”.
Guidate da Simmaco, le sue poderose legioni sconfissero in Pannonia quelle di Magno, che, catturato, venne decapitato.
Non ci rammarichiamo della fine di Magno perché, nonostante
che anni prima avesse dato mostra d’indignarsi della eccessiva
acquiescenza di Graziano ai vescovi cattolici, quando fu lui a diventar sovrano,
da buon spagnolo mise stabilmente il suo braccio armato al servizio della chiesa.
Pur tuttavia ci pare un segno di inequivocabile
e ulteriore decadenza il fatto che con la vittoria di Teodosio le ragioni di stato
abbiano ceduto a quelle dell’alcova.
80. Vittore – dal 387 al 388. Figlio
dell’imperatore Magno Massimo, suo correggente dal 387. Fu ucciso da Arbogaste nel 388.
81. Flavio Eugenio (Flavio
Massimo) – dal 392
al 394. Fu proclamato imperatore da Arbogaste dopo la
morte di Valentiniano II, ma, avverso
al vescovo Ambrogio, non fu riconosciuto da Teodosio.
Fu anche per questo che cercò l’appoggio dell’elemento
pagano, suscitando in esso speranze di rinascita.
La lotta con Teodosio, che assunse il carattere di guerra di
religione, si concluse con la battaglia sulle rive del
Frigido, dove Eugenio, fatto prigioniero, fu ucciso dai suoi stessi soldati.
Con lui fu ucciso anche Arbogaste,
il suo puparo.
82. Arcadio – dal 395 al 408. Teodosio alla sua
morte aveva lasciato un impero di nuovo unificato e due figli, Arcadio e
Onorio. Ad Arcadio che aveva 18 anni toccò la parte orientale, e ad Onorio, che
ne aveva 11 quella occidentale. Arcadio fu plagiato
prima da Flavio Rufino e poi da Eutropio, loschissime canaglie.
Con Arcadio a Costantinopoli e con Onorio (o meglio, con Stilicone) a Ravenna, la divaricazione tra le due parti
dell’impero divenne frattura.
Arcadio fu un essere del tutto inutile. Morì di morte
naturale a 31 anni.
83. Onorio – dal 395 al 423. Asceso al trono a
11 anni (il fatto che ai figli minori toccasse sempre l’occidente la dice
chiara sulle diverse condizioni delle due parti), anche da cresciuto Onorio si
rivelò un essere perfido, pavido e imbelle.
Cosicché per quasi dieci anni la
storia dell’impero d’occidente la fece il generale Flavio Stilicone,
contro quei goti ai quali l’insipienza di Valente e la pavidità
di Graziano avevano spalancato il giardino dell’impero.
I goti che derivavano il loro nome dal luogo di provenienza
(il Gotland, nella Scandinavia
meridionale) erano uomini splendidi e combattenti coraggiosissimi, che il
peregrinare per un intero secolo in tutta l’Europa orientale, le continue
lotte per la sopravvivenza e comandanti via via
migliori avevano notevolmente dirozzato.
Stilicone e il loro capo Alarico si
combatterono in numerose battaglie, e Stilicone da
buon tedesco le vinse tutte senza mai vincere la guerra.
Compì autentici prodigi mostrando un genio militare, uno
spirito di sacrificio e una capacità d’applicarsi pari
a quelli di Annibale. Non lo debellò, ma ne fermò tutte le avanzate; non lo
mise in fuga durevole, ma lo braccò continuamente. E pur rintuzzandone ogni
volta le velleità gli lasciò sempre aperta una via
d’uscita, come fece ad Asti quando in una cruentissima battaglia gli distrusse
i due quinti dell’esercito per poi, sul più bello, fermarsi e consentire ad
Alarico e ai superstiti di mettersi in salvo rivalicando le Alpi senza affanno.
“Il primo istante della salvezza è dedicato alla
gratitudine e alla gioia ma il secondo è scrupolosamente occupato dall’invidia
e dalla calunnia. Il clero e i ministri, ebbero dal sovrano l’ordine di
biasimare la politica di Stilicone che tante
volte aveva sconfitto, tante volte aveva accerchiato e
altrettante volte aveva lasciato fuggire l’implacabile nemico della repubblica.
Ma la vera colpa di Stilicone
era rappresentata dal suo orgoglio e dalla sua potenza” (Gibbon).
Puntualmente Olimpio, anima nera di Onorio,
accusò Stilicone di tradimento e di connivenza col
nemico. E Onorio, che pativa la popolarità e l’ascendente del
suo coraggioso e leale generale, oltre che suocero, accolse le accuse del
perfido ministro, attirò Stilicone in una trappola e
lo fece arrestare.
Condannato a morte nel corso di un processo farsa Stilicone non si difese e dignitosamente diede al boia il collo.
La morte del generale segnò la fine dell’impero (“le
barriere che per tanto tempo avevano separato le nazioni barbare da quelle
civilizzate della terra – scrisse solennemente Gibbon
- da quel momento furono abbattute al livello del suolo”) e l’Italia fu
calpestata e umiliata.
Anche perché il mediocre e stolido Onorio affidò la difesa
del territorio non più a generali e ai soldati bensì alla chiesa cattolica e ai
suoi vescovi (a sant’Agostino, sopratutto), col
risultato pratico che Roma un tempo miraggio irraggiungibile il cui nome
sbigottiva il mondo e che da solo aveva incusso soggezione a tutti venne violata da tutti e, nell’ambito del cristianesimo, il cattolicesimo
trionfò.
Del pernicioso Onorio, che morì di idropisia
a 40 anni, rimane da dire che non sentendosi abbastanza sicuro a Milano
(secondo lui troppo vicina ai confini) nel 404 trasferì il trono e la corte a
Ravenna, che era protetta dalle paludi e dalla quale si poteva fuggire per
mare.
84. Attalo Prisco – nel 409. Uomo di paglia contrapposto
ad Onorio prima da Alarico e poi da Ataulfo, abbandonato
infine dai goti, cadde nelle mani di Onorio che,
risparmiatagli la vita, lo mandò in esilio.
Colpisce quest’eccesso di clemenza
in quell’Onorio che per molto meno aveva
fatto scannare il più valoroso e fedele dei suoi generali; ciò ci fa
pensare che questo Attalo doveva essere proprio un uomo innocuo e un imbecille.
85. Costantino III – Imperatore rivale nelle provincie occidentali dal 407 al 411. Addirittura costui la
mattina del giorno che fu fatto imperatore era un
semplice soldato, ma di ciò che accadeva in quel caos assoluto più nulla più
può stupirci.
Stanziato nella Britannia con atto
unilaterale tolse alla impotente Ravenna quella terra,
la Gallia e la Spagna, cioè quella porzione
dell’impero che veniva chiamata “protettorato delle Gallie”.
Ma nulla poté opporre agli alani, ai longobardi, ai vandali,
ai franchi, agli svevi, ai visigoti
(goti evoluti, o occidentali) e agli ostrogoti (goti
selvaggi, o orientali) che gli invasero tutti i territori e di tutto divennero
i padroni.
Durò quattro anni.
86. Teodosio II – Imperatore d’Oriente dal 408 al
450. Figlio di Arcadio, questo Teodosio venne nominato
imperatore all’età di sette anni, per cui degli affari di governo si occuparono
prima un certo Antemio, prefetto di corte, e
successivamente la sorella del giovane sovrano, la principessina Pulcheria, più
grande del fratello di soli due anni, ma che già a 14 anni mostrava di
possedere più sensibilità per la libidine del potere che per quelle di tipo
tradizionale, tant’è che come la grande Elisabetta
per non distrarsi e per non soggiacere ad alcuno si tenne caparbiamente
vergine. In forza di tanta graziosa provvidenza, riposando gli affari di Stato
sulle immacolate ma ferrigne ginocchia della principessina sua sorella,
Teodosio poté immergersi negli studi di teosofia e di giurisprudenza che amava
particolarmente e restarvi immerso tutti gli anni che visse.
E’ rimasto famoso il codice di diritto che porta il suo nome
(il così detto Digesto Teodosiano), che fu benemerito perché normalizzò ciò che prima era affidato
all’arbitrio e alla discrezione dei giudici, anche se a dire il vero da un
punto di vista strettamente etico non fu granché innovativo.
Assorto in queste cose Teodosio durò la bellezza di 42 anni.
Durante il suo principato, se ancora ha un senso adoperare questo termine, in Gallia si formò il regno gotico-burgundico,
in Spagna quello celtico, in Britannia quello degli
angli e dei sassoni e Genserico, il re dei Vandali, nel 435 viene
riconosciuto re di Numidia e di Mauretania.
87. Costanzo III – Imperatore associato in Occidente
nel 421. Un generale rimbambito che l’imperatore Onorio s’era dovuto associare
al trono al fine di ripagare sua sorella Galla Placidia (che altre non era che
il bellissimo frutto di quel matrimonio che Giustina aveva combinato tra la sua
bella Galla e quel Teodosio quella volta che, una ventina d’anni prima, era andata a chiedergli aiuto per le sue questioni con Magno), alla
quale lo aveva imposto come marito quando la giovane era rimasta vedova di
Alarico (era venuto anche il tempo che i generali barbari impalmavano
impunemente le giovani principesse romane).
Garbatamente il povero vecchio, malato di suo e incapace
anche di capire gli avvenimenti, sette mesi dopo tolse il disturbo, felicemente
lasciando campo libero e letto franco alla consorte della quale torneremo a trattare.
88. Giovanni – Imperatore dell’Occidente dal 423
al 425. Pur se di origine gotica era solo un impiegato
civile. La sua presenza, in quei tragici scenari, si può paragonare a quei
cappelli che si lasciano sulle sedie dei cinema quando ci si deve assentare per
qualche minuto e si vuole che il posto non venga preso
da altri.
Di lui Procopio ci dice che aveva
governato con moderazione e gentilezza. Ma la
moderazione e gentilezza erano proprio ciò che meno ci voleva in quei tempi
perigliosi.
Difatti tali non furono i suoi assassini che, mandati da
Costantinopoli, dopo avergli tagliato la mano destra e prima di finirlo lo misero sulla groppa di un asino e lo fecero esibire in un
circo.
Essi dichiararono nulli tutti gli atti dell’anno e mezzo di
governo di Giovanni, sgangheratamente sghignazzando che non potevano essere
suoi “perché i somari non firmano atti”.
89. Valentiniano
III – Imperatore
dell’occidente dal 425 al 455. Uscito di scena Giovanni, con Valentiniano III (cui furono padre
e madre l’imperatore Costanzo III e la principessa Galla Placidia) si ritorna
alla dinastia dei Valentiniani.
Questa Galla Placidia fu una donna di grandi capacità e di esemplare risolutezza, che seppe sempre il fatto suo. E non dovette cavarsela davvero male se è vero che nella sua
turbolenta carriera di donna poté permettersi il lusso di giacere solo con dei
re sia romani che barbari, consanguinei o non consanguinei che fossero.
Alla morte di Onorio, Teodosio
risentito del fatto che certi maneggioni della corte di Ravenna anziché a lui
quel trono l’avevano dato ad un pubblico impiegato come Giovanni, su richiesta
di Galla Placidia che proprio per questo qualche anno prima s’era fatto un
viaggio fino a Costantinopoli, nominò Augusto sovrano dell’impero d’occidente
il piccolo Valentiniano, cosicché due anni dopo
quando Giovanni uscì di scena l’intraprendente signora poté finalmente tornare
a Ravenna, salire sul trono, assidersi sulle gambe il marmocchio e al posto di
quello dirigere le cose del mondo, o almeno quelle che poteva.
Ebbe molto fiuto la signora Galla anche nello scegliersi
l’”uomo forte”; difatti scelse il generale barbaro romanizzato Ezio che era stato
un valente ufficiale di Silicone, il quale per la sua regina compì prodigi di
valore assoluto, riuscendo a tenere i terribilissimi vandali e gli unni di Attila lontani da Ravenna.
Siccome passando gli anni i grandi
diventano vecchi e purtroppo i piccoli grandi, successe che la regina madre
morì e il piccolo Valentiniano, divenuto per la serie
“anche le malepiante crescono”, maggiorenne restò solo
su quel gran trono che aveva assaggiato tramite le ginocchia della sua gran
madre. E quando finalmente
poté trastullarsi con le leve del comando fece cose poco
commendevoli. Perché la prima cosa che lo sciagurato giovane fece fu quella di
riservare al valente e generoso Ezio la stessa fine che una quarantina d’anni
prima quell’altro scellerato di Onorio
(un uomo del tutto privo di onore!) a conferma del fatto che agli imbecilli la
storia non insegna mai nulla aveva fatto fare al povero Silicone.
Mosso dalla invidia, dalla gelosia
e da suprema stupidità, privo dei buoni consigli della madre, della quale non
gli pareva vero d’essersi affrancato, diede ingenerosa morte a quell’Ezio che aveva trasformato la fiducia che la regina
madre aveva riposto in lui in fedeltà alla corona.
Morto anche il valoroso generale (a proposito dell’uccisione
di Ezio pare che un ministro abbia trovato il coraggio
di dire al sovrano “che con la mano sinistra si stava tagliando la destra”), il
governo passò, siccome la santità della chiesa di Roma si è costruita attorno
ai troni secolari), nelle mani di papa Leone I.
Il quale, narrano i suoi agiografi, solo con l’agitargli il crocifisso dianzi, indusse il ferocissimo Attila ad
abbassare i suoi torvi occhi gialli e ad andare a ricoverarsi con i suoi unni e
con la coda tra le gambe in Ungheria.
Lo sciagurato Valentiniano III,
principe prima inutile e poi dannoso, fu ucciso a 36 anni, durante una gara di
tiro con l’arco.
90. Marciano – Imperatore d’oriente dal 450 al
457. Alla morte di Teodosio la potente principessina Pulcheria scelse come
imperatore quest’onesto e intelligente generale, che
fu anche un buon sovrano.
Salì al trono a 58 anni e ne discese che ne
aveva 65. Quando morì di morte naturale le fu
sepolto accanto a Galla Placidia e riteniamo che a una sistemazione migliore
non avrebbe potuto ambire.
91. Petronio Massimo - Imperatore d’Occidente nel 455.
Sicario di Valentiniano, gli succedette sul trono e
nel talamo.
Ma siccome nelle pratiche di letto il nuovo sovrano non si
dimostrò tanto abile e deciso quanto lo era stato nel tiro con l’arco la bellissima regina Licinia Eudocia pel dispetto e la
delusione si offrì al re vandalo Gaiserico che nel
frattempo aveva messo casa a Cartagine e che
subitaneamente si mosse per impalmarla.
Allorché giunse a Roma la notizia del suo arrivo (era stato
l’imperatore Valentiniano III a riportare, qualche anno prima, dopo la morte della madre, la capitale
dell’impero sopra i colli fatali), il popolino, ben memore di cosa i vandali
avevano combinato alla città 30 anni prima, inferocito afferrò Petronio
Massimo, lo sminuzzò e gettò i pezzi nel Tevere.
La sua grama avventura era durata due mesi.
92. Avito – Imperatore d’occidente dal 455 al
456. Gallo romano, si condusse bene sia da generale che da sovrano. Così bene che presto si guadagnò l’odio e la persecuzione di quella
sclerotica e velenosa accolita dei senatori che una malintesa tradizione di
riverenza e il gran nome ancora proteggeva. Né comprendiamo come, nel marasma
di quei tempi tempestosi e con tutto quel va’ e vieni di avventurieri,
assassini, re, di imperatori e usurpatori, nessuno mai si sia presa la briga di
spazzarli via in malo modo.
Il buon Avito morì dopo appena 15 mesi di regno,
probabilmente per mano di un sicario di Maioriano.
93. Libio Severo (Severo III) – Imperatore d’occidente dal 461 al
465. Dopo aver visto che la sopravvivenza di Maioriano
non era più compatibile con i suoi interessi e aver provveduto
ad eliminarlo, l’insonne e prudente Ricimerio
(che, anche se era barbaro, comprendeva bene che un bestione come lui, alto due
metri e largo uno, con dei baffoni e i capelli del colore della pannocchia, che
con fatica ruminava qualche parola di latino) non poteva sedersi sul trono che
era stato di Marco Aurelio e di Traiano, rivolse la
sua attenzione, dopo tre mesi di ricerche d’un acconcio uomo di paglia, su
questo oscuro funzionario di provenienza lucana del quale nulla si sapeva (tant’è che da Costantinopoli Leone si guardò bene dal
riconoscerlo), il quale si prestò al gioco meglio del suo predecessore,
restando prono a Ricimerio in tutte le situazioni.
Ma come capita agli sciocchi
acquisì delle benemerenze che non gli valsero a nulla, perché nel momento che
il re barbaro cercando un appeasement politico
con Leone s’avvide che gli conveniva sacrificarlo lo sacrificò senza pensarci sù mezzo minuto.
Questo fantoccio ristette sulla scena per quattro anni, il
doppio - tanto per dire – di quel grande imperatore che fu, o che certamente avrebbe
potuto essere, se non fosse morto prematuramente, Giuliano II.
94. Leone I (Il Grande). Imperatore d’Oriente dal 457 al
474. Un altro “grande”, ovviamente da non confondere – se non
altro perché quello era un papa e questo un ex soldato trace
divenuto imperatore - con quel Leone I (Magno) che aveva salvato Ravenna da
Attila.
Morto il buon Marciano, questo malvagio, rapace e
dannatamente bigotto barbaro dovette la porpora al potentissimo prefetto Aspar, che presso la corte di Costantinopoli ricopriva la
carica di “magister militum”,
che all’incirca equivaleva a quella che nei primi due secoli dell’impero era stata
quella di prefetto del pretorio.
Erano due emeriti farabutti lui e questo Aspar, ed era certo che prima o poi uno dei due ci avrebbe
rimesso il collo.
Per primo si mosse Aspar, che s’era
subito pentito della sciocchezza d’aver messo la corona sulla testa di un altro
anziché sulla sua, e con tutti i mezzi cercò di rimediare
all’errore.
Ma la spuntò Leone che, vista la mala
parata, fece il gran gesto di gettare la spada e la corona ai piedi del
patriarca di Costantinopoli, vicario allora del papa di Roma, e di chiederne la
protezione, instaurando così una prassi che ancor di più vincolava l’impero
alla chiesa e, nei i secoli a venire, i troni agli altari. Il prezzo che Leone dovette pagare non fu pesante, almeno per uno come lui. Molto
cristianamente gli fu chiesto di eliminare dalla
faccia della terra i seguaci del monofisitismo, una
setta che negando al Cristo la natura umana minava alla base le fondamenta
della Chiesa.
Un altro motivo perché la spuntò fu che Aspar
era ariano e i cattolici vedevano gli ariani come il fumo negli occhi.
L’arianesimo in effetti stava
diffondendosi a macchia d’olio e rischiava di diventare per la chiesa ortodossa
l’eresia più pericolosa, perché negando al Cristo la consustanzialità di padre
e di figlio ne metteva in discussione la natura divina.
Alla morte di Libio Severo, nel 465, Leone si proclamò
imperatore anche d’occidente, affidando Roma a quell’Antemio
Procopio del quale presto diremo.
Aveva 56 anni questa canaglia, quando assurse al trono. Lo
tenne per 17 anni per morire a 73 di dissenteria.
95. Maioriano - Imperatore d’occidente dal 457 al
461. Fu fatto e fu disfatto dal potente generale
germano Ricimerio (il quale per un’antica e ancora
non del tutto dissolta soggezione verso la romanità o, più probabilmente, per
non creare un pericoloso precedente del quale i suoi pari avrebbero potuto
profittare a suo danno, ritenne che non essendo “civis
romanus” non avrebbe potuto assumere in prima
persona l’alta incombenza).
Maioriano non dovette
essere privo di meriti. Lo provano tre cose. La prima
è che fu per maritarsi con lui (e quindi per scacciare dal trono e dal suo
letto quel Petronio Massimo che riluttantamente aveva
sposato) che la fiera Licinia Eudocia aveva fatto venire da Cartagine
re Alarico; la seconda è che Ricimerio lo fece
trucidare (sostituendolo col più arrendevole Libio Severo) “perché” – ha
scritto Ammiano Marcellino – “s’indignò che volesse
comandare sul serio”; la terza è che anche Sidonio
Apollinare e Edward Gibbon
ne parlano bene.
96. Antemio – Imperatore d’occidente dal 467 al
472. Dopo l’appeasement di cui
sopra, la scelta del generale Ricimerio,
dell’imperatore Leone e del re dei vandali Gaiserico
cadde sullo scaltro Antemio. Che come abbiamo
visto trattando del secondo Teodosio era uno dei funzionari meglio inseriti
nella corte di Costantinopoli, e nel tempo, con l’ingegno, la pazienza e con
una tutta una serie di matrimoni di convenienza s’era costruito
un così fitto reticolato di buone relazioni che gli avevano fruttato molti
cospicui interessi.
Fu per questo che la sua nomina a sovrano dell’altra
parte dell’impero (quella d’oriente restava salda nelle mani del suocero) fu
accompagnata dall’approvazione generale e prontamente benedetta anche dai
lontani senatori capitolini, ai quali non parve vero di poter riecheggiare
decisioni così tanto solenni.
Fu così che, dopo la consacrazione, solenne e soddisfatto, Antemio e la sua corte si misero in viaggio per l’Italia.
Pensava di durare chissà quanto, ma così non fu. Non fu così
perché il successo, come si suole dire, gli aveva dato alla testa, giacché
prima s’impuntigliò di dare una lezione a quel Gaiserico che pure aveva contribuito a farlo nominare
sovrano (che offeso di tanta ingratitudine gli distrusse la flotta al largo
della Sardegna e per buona aggiunta gli fece
sbaragliare l’esercito dai suoi amici svevi e burgundi),
e poi, siccome non c’è niente di peggio di quando le cose prendono a girar
male, commise l’errore, quando gli occorse di trovare un generale cui affidare
l’esercito, di non ricordarsi di Ricimerio, (cui ai
tempi della sua resistibile ascesa aveva dato in sposa la figlia Alipia) e Ricimerio, genero o non genero non solo era il tipo giusto
per quell’incarico ma ci teneva maledettamente ad
averlo. Ed essendo tipo discretamente vendicativo presto
anche le loro relazioni si deteriorarono.
Antemio fu udito rammaricarsi d’avere dato
in sposa l’amata figlia “ad un barbaro come Ricimerio”,
in quale dal canto suo definiva il suocero “galata” cioè turco, giacché anche allora dare del turco a qualcuno costituiva
offesa.
Anche se negli scenari politici di oggigiorno corrono
insulti ed epiteti che quelli di poco sopra ci sembrano non più che dei motteggi
di casti seminaristi, il dissidio degenerò e ne sortì che l’Italia si trovò praticamente divisa in due parti, con il “turco” che regnava
a Roma e nel centro sud e il “barbaro” a Milano e nel nord della penisola.
Ovviamente non poteva durare perché Ricimerio
era uno che le offese le lavava solo col sangue, per cui
due anni dopo marciò alla volta di Roma e vi pose l’assedio. Dopo tre mesi la
città capitolò e con essa capitolò, mozzata dal boia,
la testa di Antemio.
Per confermarci - qualora che fosse ancora bisogno - che chi
troppo se la monta spesso va’ a finire che la testa la perde.
97. Olibrio – Imperatore d’occidente nel 472.
Questo notabile della corte d’occidente fu il quarto sovrano che Ricimerio si fece a proprio uso e consumo. Era un tipo
fedele ed affidabile, tanto che quando scese a Roma per regolare i suoi conti
con l’infedele Antemio Ricimerio
se lo portò con sé.
Durò sei mesi, fino a quando il suo
patrono, vomitando sangue, non morì. E Oliario, fedelmente, per il
dispiacere lo seguì nella tomba.
98. Glicerio – Imperatore d’occidente dal 473 al
474. La morte del gran regolatore Ricimerio provocò
un vuoto di potere che resero ancora più forti l’anarchia e la violenza. Ogni
re barbaro voleva un suo uomo di paglia, e siccome ognuno metteva il veto nelle
scelte dell’altro per quattro mesi non ne venne
nominato alcuno. Questo Glicerio, che riportò la corte a Ravenna, era quello
che i re burgundi Gundobado e Chilperico
in quella particolare situazione e dopo quei quattro mesi di stallo riuscirono ad
imporre ai colleghi.
Ma da Costantinopoli, Leone I che non
aveva partecipato alla decisione e che si riteneva essere il règolo del mondo
non lo riconobbe.
Decise anzi di sostituirlo con quel tale Giulio che è passato alla storia col nome di Giulio Nepote,
nepote nel senso di nipote, giacché nipote, per via
della basilissa effettivamente gli era.
Questo Giulio Nepote armò una
flotta, prese terra ad Ostia e presentatosi tutto in
armi al Senato e al popolo di Roma si proclamò legittimo imperatore di Roma
“per mandato del collega d’oriente”.
Al povero Glicerio, siccome Gundobado
nel frattempo era morto e Chilperico si trovava in altre faccende affaccendato, non restò che arrendersi.
La docilità e la prontezza con cui lo fece gli valsero la
vita.
Uscì dalle cronache mondane per entrare nel monastero di Salona in Francia. Da effimero imperatore era durato soli
295 giorni.
99. Giulio Nipote - Imperatore d’occidente dal 474 al
475. Eccoci dunque al nipote, venuto a Roma “per mandato del collega d’oriente”.
Cotanta parentela gli valse il servile beneplacito dei
senatori, ma non (purtroppo per lui) quello di Oreste,
il potente “magister militum”,
il quale non doveva essere un tipo da poco se negli anni precedenti s’era
fattivamente speso come segretario del tremendissimo
Attila. Ciò perché Oreste, che della sovranità di Leone se ne infischiava,
aveva deciso di innalzare sul trono d’occidente il proprio
figlio Romolo, per cui presto portò una sua forza armata ad assalire
Ravenna, dove Giulio era andato a stabilirsi. Il quale Giulio alla notizia
dell’assedio non avendo fiducia nella asserita
inespugnabilità della città fuggì per mare e si rifugiò nei suoi possedimenti
in Dalmazia, da dove negli anni successivi con maniere tenui e petulanti cercò
di recuperare il trono. Ma Odoacre, re degli unni, erede
di Attila e nuovo padrone dell’Italia, solidale con Oreste che, come abbiamo
visto, di Attila era stato uno dei più stretti collaboratori, non gli diede mai
spago.
Anzi nel 480, stancatosi, lo fece
assassinare.
100. Zenone – Imperatore d’Oriente dal 474 al
491. Costui l’imperatore Leone se l’era preso così tanto a cuore che se l’era
portato con sé da dalle zone del Caspio
dove lo aveva trovato, fino a Costantinopoli.
Gli ispirava anche una certa fiducia se, nel prosieguo, per bilanciare la potenza di quell’Aspar,
che con la prepotenza e con la forza dei suoi alani gli condizionava e la
politica e la sovranità, gli affidò ruoli sempre più importanti.
Fino a conferirgli il rango di Augustus minor e di associarselo al trono.
Aspar che come abbiamo visto era
un’emerita canaglia, cercò immediatamente di farlo assassinare, per cui Zenone prudentemente s’eclissò, confidando che la
costanza del sovrano e sopra tutto il tempo avrebbero lavorato a suo vantaggio.
Per cui dovette rimanerci alquanto male quando venne a
sapere che invece Leone aveva conferito la posizione che prima era stata sua ad
uno dei figli di Aspar che
di nome faceva Ardaburio, cui per sovrappiù aveva
promesso in sposa la propria figlia minore Leonzia.
Lo trassero dall’impaccio le morti violente, sopraggiunte poco
dopo, non solo di Aspar ma
anche di quell’Ardaburio che in vece sua doveva
diventare il genero e il successore di Leone.
Nonostante la provvidenza che glie ne derivò, a queste due morti
Zenone risultò estraneo, e questo – consentiteci di
dirlo - lo diciamo più che a suo disdoro che a suo onore. Zenone rassicurato,
poté quindi rimettere piede a Costantinopoli e lì impalmare Elia Arianna, la
figlia maggiore di Leone, col quale si era riappacificato.
Ma non solo. L’uscita di scena, poco
dopo, dello stesso basileo (basileo
era l’appellativo d’onore che, per contrapposizione alla declinante latinità,
grecizzando i bizantini davano ai sovrani), la protezione dell’autoritaria
suocera Elia Verina, la prematura morte del figlio che il vecchio sovrano s’era
associato sul trono gli aggiustarono ogni cosa fino a
restituirgli il sorriso e quella sovranità che prima gli era stata promessa che
poi gli era stata sottratta, e che lui non aveva mai fatto nulla di cospicuo né
per meritarla e né per difenderla.
Questi intrighi, questi scenari da basso impero (è proprio
il caso di dirlo) ci impediscono di esser brevi come
fortemente vorremmo, ma la turbolenta storia del principato di Zenone è
sintomatica di come le cose fossero degenerate anche alla corte di
Costantinopoli.
Semplificando al massimo possiamo aggiungere che la potente Elia Verina, che aveva fortemente favorito il
rilancio del genero facendoli ritrovare le fortune smarrite, mal tollerando che,
divenuto sovrano, egli per le mene di governo
s’appoggiasse non a lei ma alla moglie (e propria figlia) Elia Arianna
ordì d’eliminarlo per porre sul trono un bellimbusto di nome Patrizio che gli
fungeva da amante e del quale confidava di poter disporre senz’impacci. Una
soffiata mise sull’avviso Zenone che per salvarsi la pelle anche stavolta non
trovò di meglio che darsela a gambe (ma stavolta, per la serie “anche i cretini
imparano” si trascinò dietro il tesoro imperiale).
Due anni dopo, tramontate che furono
le fortune del bel Patrizio e quelle di quel Basilisco che della malefica
vecchia era il fratello e che con Patrizio aveva armato la congiura,
l’inossidabile Zenone poté di nuovo fare ritorno nella capitale e risedersi su
quel trono che già era stato suo.
E poco dopo, quando il deposto Giulio Nepote
venne a chiedergli un esercito che valesse a rimettergli, in Italia e a
Ravenna, le cose a posto, Zenone, che pure detestava Odoacre (per il fatto che questi da buon tedesco aveva sempre tenuto
per il suo connazionale Aspar) per quieto vivere si voltò
dall’altra parte.
Zenone fu un sovrano codardo e di bassa moralità; la sua
qualità migliore fu la velocità nella corsa. Il suo regno durò fino al 491 e
non vale la pena di seguirne le poco commendevoli
vicende. Anche perché nel 476 nell’altra parte del mondo lo sciro Odoacre sanzionava la fine di quello che era stato l’impero
romano d’occidente.
101. Basilisco – Imperatore rivale
in oriente tra il 475 e il 476. Era, come abbiamo visto trattando di Zenone, il
fratello di quella vecchia bagascia della Verina, vedova di Leone e gran burattinaia del palazzo
imperiale di Costantinopoli. Per cui non dobbiamo stupirci se questo Basilisco,
responsabile di una disfatta militare di proporzioni immani (fu sotto il suo
comando che le armi congiunte degli due imperi furono
sbaragliate dai vandali) fu fatto imperatore. Pare anzi che a farlo nominare
comandante supremo delle forze imperiali congiunte sia stato il perfido Aspar che, segretamente parteggiando per i suoi amici
barbari, aveva tutto l’interesse che a guidare quegli eserciti fosse messo un
inetto); questo tanto per far capire che tipo fosse questo Aspar.
Divenuto sovrano, Basilisco fece uccidere alla
inesauribile vegliarda, quasi per ringraziarla della briga che s’era
presa a farlo nominare imperatore, quel Patrizio che ne era l’ostinato amante.
Quindi – in un crescendo di sciagurate iniziative - nominò magister militum un
tale Armato, che la gente per le guance rubizze chiamava Pirro, che nel suo curriculum
vitae poteva scrivere solo di essere l’amante
della regina. E per soprammisura gli affidò anche le
opere di difesa da opporre al rientrante Zenone.
Armato naturalmente lo tradì, spianando la strada a Zenone,
così che, senza merito né fatica, l’ex fuggiasco poté rientrare a
Costantinopoli e riprendersi il posto.
L’imbelle e imbecille Basilisco e i suoi poveri figli furono
murati vivi in un serbatoio d’acqua asciutto, e lì lasciati morire di fame e di
sete.
Non è difficile comprendere con chi la vedova,
opportunamente risparmiata, abbia avuto a consolarsi.
“Lento a comprendere e facile da ingannare” lo definisce il Grant e la definizione ci pare giusta.
Lo sciagurato durò un anno. Se l’impero
non riusciva ad esprimere più che questo era giusto che scomparisse.
102. Romolo (Augustolo) – Imperatore d’Occidente tra il 475 e il 476. A questo
bambino, quando nacque, l’ambizioso padre (quell’Oreste
già segretario di Attila e sotto Giulio Nipote potente
magister militum)
volle imporre, per una di quelle tragiche bizzarrie che la storia ogni tanto si
diverte a comminarci, il prestigioso nome del fondatore di Roma. E di sicuro non presumeva che quello dell’inoffensivo
ragazzo, nel suo tenue passaggio sulle tenebrose vicende del V secolo, avrebbe
finito per significare, piuttosto e ironicamente, la fine della gloriosa storia
di quella Roma che l’altro Romolo, dodici secoli prima, con il suo fortunato
nome aveva battezzato.
Il diminutivo Augustolo gli venne dato o per spregio o, come taluni vorrebbero, per la
giovanissima età. Ma, a parte la questione del nome, appare chiaro che in
quella situazione, con lui o con un’altro sarebbe stato
la stessa identica cosa.
Il precipitare era Stato lungo e penoso, ma per fortuna la
fine era vicina.
I capi dei diversi eserciti barbari, che via via erano andati sistemandosi chi in una provincia e chi in
un’altra, e che ormai avevano il pieno controllo militare e amministrativo del
territorio, avevano stretto tra di loro un patto di
non belligeranza e si stancarono di fare e disfare imperatori che non duravano più
di tre mesi e davano loro soltanto delle preoccupazioni. Così che finalmente si
decisero di far da soli
Nell’agosto del 476 Odoacre si assise in Pavia e, deposto
Romolo, assunse il titolo di re d’Italia.
L’Italia non solo di fatto ma formalmente diveniva
una provincia del regno di Germania.
Fine
13/2/2001 – 26/3/2001
Revisione (formale) del 28 maggio 2010