Gaster X
Il viaggio di ritorno del Titanic
(nei salotti e dentro la cambusa)
La sede somiglia ad
un'arca, ad una superba arca, e il suo magnificente salone richiama alla mente
l'interno d'una cattedrale, per i colonnati, per le alte volte e per quelle
austere frasi monitorie messe lì non si sa per chi, considerato che dai
pretoriani del sindacato che battono i tempi di voga
di tutto ci si può attendere ma non certamente che capiscano il latino. E come
l'arca biblica essa offre sicuro rifugio a numerose speci d’animali. Ancora
superba degli antichi privilegi, troneggia in acque immote, ma non si vedono
più i remi, e molte sono le falle che la feriscono, sopratutto all'altezza
della linea di galleggiamento. Le sue alte muraglie sono prive di finestre e la
sua parte superiore è coperta e ben calafata, cosìcche chi vi abita non vede il
cielo scuro e la procella che s'addensa. Dentro è spaziosa e piena di luci, e
vi regna un clima di quieta rilassatezza.
Nella cabina del comandante
siede un uomo forte e vigoroso, che dimostra meno dei sessant'anni che ha. Un
uomo che nella sua vita molto ha navigato, e avendo provato ogni vento e
diverse procelle ora non fa mistero di preferire ad essi una quieta bonaccia.
Si tratta comunque di un gran capitano, certamente un emulo di sir Francis
Drake: essenziale e rapido fin quasi alla brutalità, sa essere conciso e
concreto in tutte le quistioni, che egli felicemente inquadra, definisce e
licenzia prima che s'abbia finito d'esporgliele. "Roma locuta, causa est", con
felice sintesi ci vien da dire tutte le volte che ci capita d'ammirare tanta
essenzialità. Noi che delle concisioni
altrui ci incantiamo come ci s'incanta delle più estreme chimere, abbiamo
assistito con ammirato sgomento al rituale della firma: invero costui deve
avere delle capacità di visualizzazione fuori del comune se è vero, com'è vero,
che firma quasi senza parer che legga. La rapida sigla, una veloce scorsa, e
via. Né pare che ne abbia mai restituita non firmata. E la stessa posta in arrivo la liquida in
pochissimi minuti, i suoi rari interventi limitandosi ad uno scarno
"P.P.", o, nei casi più gravi, al fatidico "P.P.Urge!!"
(nessuno gli ha mai visto scrivere più di tanto). Dopodiché
- non sono passati che dieci o quindici minuti dal suo arrivo - ben
liberato il tavolo di comando, egli s'apparecchia i suoi buoni quotidiani ove
senza alcun imbarazzo meritatamente s'immerge.
Ma in effetti ai problemi e al
dialogo, pur dando a vedere di non amarli, non si sottrae. Né li elude. Capace
di individuare con prontezza le soluzioni, egli è in grado di dare sempre,
senza tentennamenti, idonee risposte e indirizzi solutori che, chiari e
perentori, non consentono replica. Ha un carattere molto difficile perché
possiede le certezze, il rango e i vizi del vero uomo di comando, ma sa essere
cortese quanto basta e dev'essergli riconosciuto il grande merito di non
essersi creata, a differenza di tutti i suoi predecessori, tutta quella coorte
di delatori e di sicofanti di cui le anticamere del potere brulicano. Orsù, non
facciamo gli ipocriti. In un'Italia dove tutti fanno finta di lavorare e non
lavorano, merita rispetto un uomo che sa lavorare avendo il coraggio di dare a
vedere di non farlo. E secondo noi gli torna ad ancora maggiore onore il fatto
d'essere, tutti i giorni, l'ultimo ad entrare e il primo ad uscire.
Ufficiale in seconda è invece un
tale che noi, purtroppo incapaci di contenere lo sdegno che il suo
comportamento e la sua dolente visione ci suscitano, più volte, rivolti ad
orecchie ritenute fidate, abbiamo definito "Corpus Estraneus".
Si tratta del Vice Direttore
Vicario. Di un uomo grigio e triste, lamentoso e laconico. Senza brio, con
pochi interessi, di scarso vigore.
Nobile e concettuoso come un
cavallo da funerale; lento, elusivo e deludente, da circa trent'anni, sempre
impeccabilmente vestito, occupa la stessa stanza, dalla quale mai è uscito e nè
mai esce. Ne ha fatto una nicchia ove, spento nello sguardo e affaticato nel
parlare, costantemente si ripara. Pieno di una mesta e alta considerazione di
se stesso, di tutto sempre e perennemente egli si lagna; cadesse un aereo nelle
lontane Ande sta' certo, lettore, che lo sentiresti lamentarsi che una delle
schegge gli è finita sull'affaticata scrivania a portargli diretto e personale
nocumento.
Morigerato di costumi e
rigorosamente astemio, pare però che indulga con eccessiva compiacenza a quegli
amàri che la nostra più importante fabbrica di liquori produce, quelli - il
contrasto non sembri stridente - famosi per il gusto forte della vita. Non è
sicuro che essi giovino alla salute, però pare che aiutino o possano aiutare,
almeno quì al Banco, per far carriera. Per cui, nutrendo delle forti se pur
sonnolenti ambizioni a raggiungere la cabina di Primo Ufficiale, con detti
cordiali egli dà silenzioso alito al suo corto respiro. Ciò non stupisca il
lettore, perché come disse Chamfort l'ambizione s'attacca più facilmente alle
anime piccole che alle grandi, come il fuoco che s'appicca più facilmente alla
paglia e alle capanne piuttosto che ai palazzi.
Del tutto diverso del secondo e
del primo avanti descritti, trattandosi per moltissimi aspetti certamente di un
soggetto unico nel suo genere, è il Terzo Ufficiale. Che sta al sopradetto
"Corpus Estraneus", da qualsiasi lato li si guardi, come un rubino
sta al pallido opale. Desta invece interesse, e potrebbe pertanto costituire un
utile banco di prova per i laureandi in psicologia, un ipotetico raffronto tra
le forti personalità, il marcato carattere e le rilevanti peculiarità suoi e
quelli del comandante in capo. Non sono immaginabili due individui così
diversi, non sono mai stati visti due temperamenti così diametralmente opposti,
non si è mai saputo di due caratteri così forti e contemporaneamente così
lontani l'uno dall'altro.
Ipoteticamente, se anziché due
uomini fossero due stili di scrittura, sarebbero uno, il comandante, un libro
di Leonardo Sciascia, anche se in effetti parrebbe azzardato compararlo a un
libro, e l'altro, il nostro terzo ufficiale, un componimento di Gesualdo
Bufalino. Si somigliano come in
architettura si somigliano il Partenone di Atene e la Cattedrale di Reims;
stanno l'uno all'altro come nelle arti figurative un cubista sta a un
ritrattista e nella buona musica un contrappuntista fiammingo sta a un sinfonista
russo.
Per una positiva bizzarria del
destino queste due persone, data la provvidenziale consolidata latitanza del
vicario, sono, nella sostanza, nel vascello i soli che tengono la rotta e
governano la ciurma.
Trattare convenientemente di questo
"Unicum" che tutto vede e a tutto provvede non è facile e richiede un
impegno intellettuale notevole.
Cominceremo col dire, paziente
lettore, che egli sfata il luogo comune (in noi fino ad adesso apodittica
certezza) che chi scrive bene parli male e viceversa. Giacché è egli nello
scrivere strepitosamente facondo e fecondo, per nulla soffrendo quel crudele
bagliore del foglio bianco che tanti angustia e paralizza. Contemporaneamente,
la sua eloquenza è agile e circostanziata, fluente e impetuosa, brillante e
torrentizia. Nonostante l'èmpito
oratorio egli sa ben dominare il rango e le pretese delle numerose subordinate
con le quali infiòra e contòrna i concetti
che con pertinente eleganza esprime, né mai, nella foga
dell'improvvisazione e nella ricerca preziosa del termine, gli Scilla e i
Cariddi dei congiuntivi e dei condizionali lo confondono. E mai appare,
quand'egli abbia esaurito la lunga trattazione del tema, che qualcosa avrebbe
ancora potuto aggiungervi, se utile, o evitare di dire, giacché inutile.
Si tratta di un uomo di grande
cultura, di straordinaria intelligenza, di eccezionale memoria, di enorme
volitività, di infinita generosità, cui però manca, nella gestione dell'ego,
quel minimo di senso pratico che, se il molto e il buono potessero sempre
felicemente coniugarsi, lo renderebbe perfetto.
Per cui ciò che ne sortisce è, a
nostro vedere, una sorta di Arcangelo Gabriele puro di cuore e spietato col
maligno, una sorta d'implacabile martello degli eretici, un malvisto
perfezionista-moralista che non si consente deroghe o indulgenze, né ne
consente.
Aborre la superficialità, ha
orrore del pressapochismo, rifugge dall'improvvisazione. Ha una conoscenza dei
servizi e delle norme completa e profonda che non è lecito scambiare per
semplice mnemòsi, giacché sa interpretare i segni e i disegni con non comune
senso critico, vagliandoli in un quadro intuitivo complesso e razionale, e sa
verificarli sotto la luce della grandissima esperienza e di una capacità
speculativa che nasce dal suo spirito ipercritico e indagatore.
Così prestandosi, egli è
diventato, più per virtù che per necessità, ben al di là delle competenze
canoniche e - checché se ne dica – al di là delle sue stesse intenzioni, il
passaggio obbligato e il terminale d'ogni questione e di tutti i problemi che
quotidianamente ci affliggono. Quando,
esigente, intransigente e giammai queto Argo dai cento occhi, non è lui stesso
a suscitarli. E' diffuso vezzo lagnarsi
di lui, declamare che è un emerito rompiscatole, maledire la sua pignolerìa ossessivo-maniacale,
schernire il suo ferrigno ed implacabile perfezionismo, scantonare dalle sue
estenuanti ed interminabili trattazioni, fuggire dalle sue
spiegazioni-dimostrazioni come si fuggirebbe un questuante. E' uso deriderlo,
e, da parte dei più benevoli, compatirlo per questo suo autolesionistico modo
di darsi; ma quando, quantomeno i più avvertiti, per sgravarsene soma e
coscienza vanno a portargli i loro problemi, e lui con la sua grande volontà di
partecipazione e col suo eroico spirito di servizio se ne prende l'intero
carico, quanto comodo fà, a tutti!
La verità purtroppo è sempre la
solita, e cioé che - in partis infidelium - si buttano, sprecandole, gemme ai
verri come non si suol dire, o si suol dire con altro forse più appropriato
termine. Dalle nostre parti i pochi che lavorano con serietà e con impegno sono
invariabilmente guardati con gran sospetto e con gran dispetto, e i pochissimi
che lo fanno con coerenza e con innocenza ci paiono estranei più che un
extraterrestre. Ci paiono dei pazzi.
Simile al volterriano Candido,
egli così non potrebbe agire se avesse un minimo di malizia. Non potrebbe fare
quel che fa se la cognizione del tempo - e quindi la normale frenesia del non
fatto - lo affliggesse. Il tempo è un concetto che gli è del tutto estraneo e
l'orologio un accessorio che gli è utile solo per non arrivare con ritardo. Se
così non fosse la inconciliabilità delle due tendenze lo strazierebbe con la
forza di cavalli lanciati in due direzioni opposte.
Ha una capacità di resistenza alla
fatica stupefacente; noi lo rassembliamo ad una dinamo, dato che più lavora e
più si carica. Come Napoleone Bonaparte, egli è contemporaneamente capace, nel
mentre che scriva o stia leggendo, d'ascoltare qualcuno su qualche altro
argomento, e, seguendo quei concetti, a sua volta parlargli. Le sue macchine da scrivere contengono
sempre, nel carrello, fogli da completare o lettere da finire, e sulle sue
scrivanie, coventryzzate da tutti i prodotti cartacei che la struttura emana,
le pila di carte giacentevi sono montagne che un esperto scalatore faticherebbe
a vincere, e dove lui, naturalmente incapace d'aggirarle, eroicamente e
disperatamente cerca d'arrampicarsi.
La porta dei suoi uffici è sempre
aperta e la cosa più straordinaria è che, ognora, sempre, chiunque vi vada,
quante volte vi vada, viene sempre accolto con grande disponibilità, ascoltato
con grande attenzione e seguìto sempre fino alla soluzione del o dei problemi.
Qualsiasi cosa egli stia facendo non si cruccia di venire interrotto, tranne
che stia parlando. Nel qual caso pacatamente rammenta all'interlocutore che è
comunque norma di buona creanza non interrompere e che quindi cortesemente
attenda, dopo di che, senza malanimo e senz'averne minimamente smarrito il
filo, riprende il discorso.
O differentemente, le volte che
l'avviata trattazione non si sia ancora elevata nell'intemerata, egli suole
talvolta concedersi il malvezzo di lasciarla a mezzo per approcciarsi a quella
o a quelle che chi l'ha indiscretamente interrotto gli ha porto, e ad essa, o
ad esse, dedicarsi con la medesima inalterabile costumanza e con la stessa
impertubabile applicazione.
Ed allora è come se da un gran
fiume si dipartissero degli emissari della stessa sua portata, come càpita ai
grandi fiumi siberiani. Come capita quando si fa un film nel film, come Cimino
con l'episodio del matrimonio nella comunità russo-ortodossa ha fatto ne Il
Cacciatore. O un romanzo nel romanzo, come successe al Manzoni quando nel suo
Fermo e Lucia diede anche alla storia della sventurata Gertrude le dimensioni
del grande romanzo.
Fino a quando, ad una ad una
chiùsale, puntualmente tornerà, sontuosa ed inalterabile portaerei d'istruzione
e d'eloquenza, al tema originario, splendidamente ri-incardinandosi al concetto
temporaneamente interrotto.
Per lui non esistono problemi di
prima serie e problemi di seconda serie; il suo approccio con le questioni è
sempre identico ed è sempre improntato ad una accuratezza d'esame e ad una
completezza di visione che è anch'essa sintomatica di quella mancanza di senso
pratico propria del personaggio. Ogni problema e ogni ipotesi di soluzione
vengono sezionati, rivoltati, valutati e soppesati sotto ogni aspetto; tagliati
a fette sottili e riguardati controluce. Sorta di
Suprema-Corte-di-Cassazione-a-Sezioni-Unite e, nello stesso tempo, novello
Socrate, egli illustra, stima e democraticamente offre al parere di tutti i
presenti (pontificatori inesausti, cacadubbi in servizio permanente effettivo,
crassi e grassi ignorantoni) le varie ipotesi di soluzione, fino a quando,
individuata e stimata la più pertinente, non abbia anche, con la identica
ferrea logica cartesiana, confutato le impertinenti.
Ottenuta l'unanimità di giudizio
(non difficile, è lui che tira ed è lui che spinge!), il conforto della norma e
il suggello della logica, può finalmente ritenere di poter cassare - è
irrilevante il gran tempo che può essere nel frattempo trascorso - la
questione.
Diffidando dei facili
"sentito dire", egli di tutto vuol farsi una precisa e diretta idea,
tutto volendo verificare di persona, nulla volendo delegare alla superficialità
dei terzi. A tale riguardo deve dirsi che gli occhi della sua mente riescono a
vedere quello che gli altri non vedono. Ci sono persone cieche di mente che
nemmeno vedono i buchi che gli altri vedono, ce ne sono altre che li vedono più
o meno come tutti, e ce ne sono talune, dotate di spiccata intelligenza, che li
vedono anche se nessuno li vede. Il dottor Faulisi, che di lui stiamo parlando,
è uno di questi; i buchi riesce a vederli in tutti i loro dettagli anche sotto
due metri di coltre. Di ogni cosa scorge anche il lato più nascosto, esamina
gli aspetti apparentemente meno significativi, coglie le imperfezioni e ogni
vizio, anche i più occulti. Così sempre, e di qualsiasi cosa si tratti. E
riferendo e relazionando, di tutto rende conto, e tutto ognora ricorda.
La sua meticolosità nasce,
sopratutto, da un grande rispetto per le cose e per le persone, il suo
puntiglio nasce dalla sua onestà, la sua spietatezza dal fatto che,
innanzitutto e prima che con gli altri, egli spietato lo è con se stesso.
Giacché solo chi lo è con se stesso può esserlo credibilmente con gli altri.
Per tutto, tutti richiama all'attenzione, all'osservanza e all'ordine, al
rispetto della disciplina, all'amore per il lavoro, alla professionalità e al
senso del dovere, all'onore, alla coerenza e alla diligenza del buon padre di
famiglia.
Con voce chiara e resa ferma dalla
certezza del diritto quando lo fa direttamente, oppure, nei casi che il
malcapitato per via dei differenti orari non sia prontamente raggiungibile o
non voglia intendere oppure sia recidivo, a mezzo dei suoi famigerati
biglietti, lunghi a volte più che un elzeviro, chiari come atti d'accusa,
incalzanti come editti, e scritti sempre a macchina con un uso cospicuo del
nastro rosso, per sottolineare le manchevolezze più marcate e i concetti più
pregnanti. Questi biglietti sono diventati una favola. In questo nostro mondo
di santi, di poeti, di navigatori e di scienziati nati c'è chi ci si diverte e
c'è chi li patisce. Se, più opportunamente invece, se ne fosse costituita una
comune raccolta essa oggi certamente supererebbe per pondo e per autorevolezza
il Talmud e la Summa Teologica di San Tommaso.
Si favoleggia che ne abbia scritti
anche per spiegare come si cuciono insieme, con la spillatrice, i fogli di
carta (lo spillo metallico lo si deve porre in alto a sinistra, a 1,5
centimetri dal corrispondente angolo, in modo che lo stesso con i due bordi dei
fogli abbia a formare un esatto triangolo rettangolo. Questo sistema di
cucitura consente, compiuta la lettura delle varie pagine, di voltarle senza
che esse abbiano a gualcirsi. Provare per credere). Pretende d'ammaestrarci su quale sia il modo
migliore (e pertanto il solo, secondo i suoi imperativi kantiani) di porre il
foglio nel carrello della macchina per scrivere e come debba usarsi il tasto
dell'interlinea, su quali siano le misure euclidee dei sipostin e come esse
possano, e quindi debbano, ottenersi colla taglierina a lama senza che con ciò
ci si tagli le dita. Per non dire di quando, le mattine, fa rinvenire ai loro
distratti possessori - che se ne accorgono soltanto dopo che hanno scritto
inutilmente cinque o sei righi e ci rimangono malissimo, e ferocemente lo
criticano (se noi italiani sapessimo criticare noi stessi l'un decimo di quanto
critichiamo il nostro prossimo saremmo sicuramente e di gran lunga il popolo
più infelice del mondo) - le macchine per scrivere e le stampanti orfane dei
nastri dattilografici, rilevando, nei suoi notturni raids, di come questi siano
stati spremuti fino all'inverosime e che, anzi che nero succo d'inchiostro,
possono dare caratteri di anemica inconsistenza, appunto come quelli dei loro
pigri gestori.
Se ne potrebbe scrivere molto a
lungo. Il personaggio, come detto, ha numerose e straordinarie qualità e il
difetto, marcato e non comune, di mancare, nei confronti di sé stesso, di senso
pratico. Possiede capacità d'analisi mostruose, eccezionali, fuori del comune,
nel contempo risultando sprovvisto della pur minima capacità di sintesi.
Ma poiché, come dicono i cinesi,
un esempio vale più di mille parole narreremo del caso della lettera per la
chiostrina.
Un giorno ci prega di scrivere una
lettera al Gran Provveditore per chiedere l'autorizzazione a fare effettuare
dei lavori sulla chiostrina di vetro e cemento che circonda e regge il soffitto
in vetro del salone di cassa, a sostegno d'un preventivo fornitoci da una ditta
specializzata. Ordinariissima amministrazione, per noi: pane d'ogni giorno. Andiamo a dare un'occhiata
a questa specie di cosa, sì che si possa scriver qualcosa e mandare questo
preventivo. Da un paio di finestre si vede che alcuni vetri sono rotti, che gli
stucchi che li contornano e li sostengono in parte mancano e in parte appaiono
screpolati. Ci sediamo alla tastiera e stampiamo una relazioncina d'una ventina
di righe significando a chi ci leggerà le evidenti necessità delle quali si
diceva. Nulla di straordinario, ma il
contenuto era pertinente e ben si prestava a veicolare il preventivo della ditta
che doveva eseguire i lavori, dove erano spiegati molto più tecnicamente e
molto più dettagliatamente gli interventi da porre in opera. Glie la portiamo e
la legge. Non ci pare convinto. Ci coglie in errore in un dettaglio. Facendo finta - quando d'una cosa tratta la
prima volta è sempre di una delicatezza grandissima - di non esserne sicuro
nemmeno lui, apre una delle finestre e salendo senza scarpe su una sedia, e da lì su un radiatore, s'inerpica sul
davanzale di quella, che con qualche agile fatica scavalca, calandosi
dall'altra parte, da dove sotto l'aperto cielo, nel mentre che pioveva,
raggiunge il perimetro della chiostrina in questione. Anche se non ce lo chiede
- in effetti non sono performances alla portata di tutti - ci sentiamo
moralmente obbligati ad imitarlo, sì ché ne seguiamo l'ardita traccia fino a
questa famigerata chiostrina. Dove, sempre sotto l'inclemenza del cielo, con
certosina pazienza, con dovizia di particolari e a lungo dottamente disquisendo
ci spiega ogni aspetto della questione facendoci vedere ogni cosa.
Esaurientemente addottrinati assicuriamo d'aver capito e, vergognosi come una
volpe presa al laccio da una gallina per la superficialità con la quale avevamo
composto la lettera, ci accingiamo ad emendarla. Componiamo un testo più
stringato e più preciso e, cucitogli nel modo avanti detto il preventivo, glie
lo facciamo avere. Ma poiché la lettera non ci ritorna firmata, uno o due
giorni dopo gli chiediamo se non avesse avuto il tempo di vederla, o -
richiesta a nostro modo di vedere alquanto pleonastica - se ci fosse per caso
qualcosa che non andava. Ce la restituisce rappresentandoci di nutrire qualche
perplessità pel fatto che, avendo noi parlato di stucchi senza meglio
specificare a quale tipo di stucchi ci riferissimo, quelli dell'Ammiragliato
potessero intendere di stucchi ornamentali e non di quello stucco riempitivo
del quale in effetti si trattava, per cui ci prega di veder di essere al
riguardo un poco più precisi.
Noi ci pensiamo e ci ripensiamo.
Per noi la lettera, per com'era a quel punto, era perfetta. Aveva un perfetto
senso compiuto, era come una serenata di Mozart, una nota in più ne avrebbe
alterato la composta ed equilibrata eleganza. Glie la rimandiamo immodificata
con un appunto ove rappresentiamo che della effettiva natura degli stucchi ben
testimoniava il preventivo della ditta per cui non era il caso che dovessimo
disperderci in ulteriori distinguo. La mattina dopo, a chiuder la piccola
questione della quale s'era trattato, troviamo, da lui redatta e dattiloscritta,
la lettera, che quì di seguito veniamo a riprodurre perché la sua lettura,
insieme con quello che abbiamo detto, offre dell'indole del personaggio un ritratto assai
verosimigliante. Oltre che per il fatto che nemmeno Leonardo da Vinci, che era
anche homo di penna, occupandosi del caso specifico avrebbe saputo arrivare a
cotanta mirabolante precisione.
Oggetto: Preventivo di spesa n. 31
del 28.5.96 della Impresa Emma Vincenzo di Enna per lavori di restauro e
pulitura della chiostrina in ferro e vetro sul soffitto del salone di cassa -
£. 3.500.000 + IVA.
Testo: " Allegato si rimette
il preventivo di spesa in oggetto, redatto dalla Ditta Emma Vincenzo di Enna.
Al riguardo si fa presente che il salone di cassa di questa Filiale, com'è
noto, è sormontato da un grande lucernario di forma ottagonale a tetto piano,
costituito da vetrate, sostenute da intelaiatura metallica, perimetralmente
formate da quadrelle in frammenti di vetri colorati sagomati e connessi da
liste di piombo e lateralmente contornato pure da vetrate artistiche collocate
in finestrelle con aperture a "vasistas" per consentire un'adeguata
ventilazione ed aerazione dell'ambiente.
Detto lucernario al 1° piano forma
una chiostrina sulla quale prospettano tutte le finestre del corridoio che vi
gira intorno ed è a sua protetta da un'altra controvetrata.
Per quanto a memoria della Filiale
non è mai stata curata la manutenzione di detta struttura che risente, quindi,
delle offese del tempo talché si rende necessario non solo riprendere gli intonaci
laterali in muratura, ripulire e riverniciare le intelaiature di sostegno in
ferro corrose dalla ruggine, fissare le quadrelle con mastice da vetrai
asportando quello vecchio indurito e screpolato che non ne assicura più la
tenuta, ma anche fare un'accurata manutenzione di dette artistiche vetrate
ricollocando i frammenti mancanti ed effettuare infine un'accurata pulizia per
asportare polvere e sporcizia accumulatesi nel corso degli anni per ridare alle
strutture ed al salone di cassa la sua naturale luminosità e l'originario
splendore.
Il lavoro di pulitura dei vetri in
particolare - dato il pregio artistico degli stessi, la fragilità e la
delicatezza delle intelaiature- richiede perizia e cautela che sia in grado di
offrire solo la specializzata e positivamente sperimentata impresa Emma che per
la sua esecuzione si avvarrebbe di idonei ponteggi. Sul dettaglio si rimanda,
comunque, al preventivo il cui importo sembra compatibile con l'entità e la
delicatezza delle opere da eseguire che per le ragioni sopra rappresentate si
prega di volere cortesemente autorizzare.
Si resta in attesa di riscontro e
frattanto si porgono, ringraziando per la gentile attenzione e collaborazione,
cordiali saluti.
Questa è la lettera e questo è un
esempio dei suoi pittogrammi, questo è il personaggio e questo è un esempio del
suo maniacale rigorismo. E' un uomo
impareggiabile, la cui naturale effettiva superiorità non scade mai in
iattanza. Che non sa portare né malanimo né rancore, che, per l'innocenza della
sua grandezza, coltiva una straordinaria vocazione didattica, la qual cosa è,
probabilmente e in fondo a tutto, l'unica cosa che forse veramente lo
appassioni. Ed è anche rimasto, al pari d'un buon maestro deamicisiano,
l'ultimo a sapere ancora onorare, senza vergognarsene, un compleanno, un
onomastico o una ricorrenza qualsiasi.
Non rompe per farsi grande, non
rompe per farsi bello, non rompe per farsi brutto, non rompe per farsi ricco.
Rompe (e si rompe l'anima) per insegnare. Rompe (e si rompe la salute) per
migliorare. Mussolini una volta disse:
"Migliorare gli Italiani non è impossibile. E' inutile". Noi la
pensiamo pure così, ma lui no, nonostante le mille controprove quotidiane.
Evidentemente, in lui, per citare Gramsci, l'ottimismo della volontà la vince
sul pessimismo della ragione.
E' un “Unicum” irripetibile,
splendido e tremendo come un esercito schierato a battaglia. Lo compongono
pezzi di san Giovanni Bosco, di frà Gerolamo Savonarola, di san Tommaso Moro,
del prefetto Tigellino, di Pier delle Vigne, di Antonio Di Pietro, di
Demostene, di Cartesio, di Euclide, del grande Bonaparte, di Pico della
Mirandola, di Stakhanov, di Voltaire e di Robespierre, di Diderot, di Quintino
Sella, d'Arrigo Sacchi e anche d'Adolf Hitler. Il triste è che quando, cedendo
finalmente alle pressioni dell'azienda, ancora splendidamente lucido e
vigoroso, si dimetterà, il mondo continuerà a girare come se nulla fosse stato.
Il pressapochismo e l'indifferenza che adesso dettano sommessa legge,
finalmente liberi, trionferanno.
E la nave cadrà nelle mani del
cuoco.
Rientriamo nella mediocrità,
ritorniamo a parlare di noi. C'è ancora un altro capitano, un tipo alto e
pesante che probabilmente sotto il pantalone cela una gamba di legno. Al quale
hanno dato a condurre una goletta per la quale già basterebbe un tenente di
vascello. Viene da fuori, ha navigato in quel basso Adriatico che più d'una
volta fu fatale ai nostri navigli, acquisendovi i titoli e le onorificenze
delle quali ora s'illustra. Pochi sanno quale sia il suo passato, chi vuol dar
mostra di sapere qualcosa si guarda circospetto a destra e a sinistra, mette la
sordina alla voce e più con i gesti che con le parole fa intendere che son cose
così tremende che non possonsi dire. Che sia vero e quali siano non siamo in
grado di dirlo, né il fatto ch'egli si porti con molta prudenza e sia molto
circospetto può autorizzare a pensarlo. E' comunque certo che, comandante del
fortino di Capo Milazzo, quando questo assurse al rango di fortezza lo
rimossero, sostituendolo con un parigrado ed inviandolo, senza riguardi, in
sottordine nella guarnigione strategicamente secondaria cui ora è preposto.
Nutrito è il rango dei
procuratori, i quali, grazie alle facili promozioni degli anni ottanta sono ben
sette. Il rispetto del rango, che ci vedrà sempre condiscendenti, vuole che
s'inizi con i tre che fungono da settoristi. Sono degli ottimi elementi, tutti
ancora abbastanza giovani e ben motivati.
Il leone rampante è quello che
segue la provincia. Teatrale, polemico, esibizionista, stoccatore impenitente,
non perde occasione per proporre di sé l'immagine più redditizia. Fa bene
perché ha capito che le uova di gallina si commerciano perché la gallina dopo
fatto l'uovo canta, mentre le uova di faraona che sono certo migliori non si
commerciano perché la faraona non canta. Onestà vuole che si riconosca che in
effetti ha molte qualità, ha esperienza, personalità ed è preparato. E con
tutto ciò è anche, nell'applicarsi alle pratiche, scrupoloso e laborioso. Ed è
anche quello, fra i procuratori della seconda generazione, che più alta e più
presente ha la cognizione del suo rango. Quando si hanno delle qualità l'essere
ambiziosi non è una colpa.
Vengono poi i due preposti
settoristi
Il primo dei due, il preposto alla
Agenzia "A", s'illustra con titoli di altissima qualità. Si è
laureato alla Bocconi in scienze economiche e bancarie. Ha dispensato credito a
Milano e in Lombardia dove è vissuto per anni. Ha trattato con imprese di
dimensioni europee. Ha il gusto della battuta che gli riesce pronta e gustosa,
giacché lo sostiene un sense of humor
che felicemente inclina alla boutade. La sua migliore qualità è una
sorta di seria stravaganza che, per come se la sa gestire lui, produce effetti
mirabolanti. Quando sbraitando lo si attacca e gli si chiede conto di qualche
malfatto o non fatto, egli, meccanicamente, all'interlocutore ripete, come il
famoso gatto di collodiana memoria, come gli scudi spaziali di Reagan, come una
seriosa eco involontariamente beffarda, le ultime parole delle frasi che quello
veementemente gli ha sparato addosso, conseguendo l'effetto, di sicura
drammatica comicità, di disorientare l'aggredente e disarmarlo. Cosa puoi dire
ad uno che la pensa come te, che ha fatto suoi i tuoi stessi concetti e che
anzi - vedi un po'! - usa le tue stesse parole?
Può percuotere l'estimatore
maligno il vedere che sa contrastare solo di dimessa rimessa, epperò nel Gran
Varietà delle Coppie Malassortite è sempre il più piccolo, quello che sembra il
più debole, che fà ridere ("Vieni avanti, cretino!") ma che alla fine
se la cava (Stanlio).
Per il titoli che ha conseguito il
dottor Antonio M. potrebbe benissimo vestir di grisaglia, ma il copricapo che
meglio gli sta, su quel cervello balzàno e confusionario, è il berretto da
joker. Gli vogliamo molto bene perché in questo mondo di tonitruanti bluffatori
egli è il solo che riesce nella difficile arte di non prendersi sul serio.
L'altro, preposto settorista alla
"Uno", è una bravissima persona, proba, civile e leale. Che fa tante
buone uova ma non sa cantarle. Nè sa alzare la voce. Nè sa criticare. Gli
vogliamo bene e ci dispiace per lui.
Procuratore è anche chi, in quel
di Riesi, governa il più turbolento e il più difficile dei nostri empori
d'oltremare. Sono molti anni che è lì, e prima si trovava in un altro quasi
parimenti periglioso. Comincia a mostrare segni di logoramento, cosa di cui può
stupirsi solo chi, essendosi sempre mantenuto estraneo a questo tipo di
esperienze, ignora cosa sia il vero dispendio psicofisico e quanto a ciò il
governo di un'agenzia concorra. Ed anche chi, di converso, - e quì ci riferiamo
al quel khomeinista-perfezionista del nostro "Unicum" - ritenendo che
sia normale lavorare tutti i giorni quindici ore al giorno non è consueto
tenere in alcun conto quel tale dispendio.
Intellettualmente senza molto
genio e caratterialmente senza molto mordente è tuttavia, pur se con qualche
episodica caduta di stile, una persona cortese e, per ciò, anche se i sacrifici
sulla pelle degli altri non fan tanto male, merita stima e qualche considerazione.
C'è poi Astolfo. Chiamato in molti
mali modi, anche se di nessuno di questi modi egli ha mai dato mostra
d'offendersi. Di recente invale la moda di chiamarlo Craxi, direttamente o con
sempre più ardite variazioni sul tema, secondo il teorema che sulla terra non
ci sono altri ladri che li pareggino. E ciò non perché egli sia stato
socialista, né perché abbia fatto o faccia politica, né risulta che abbia
rubato. La spiegazione - che puntualmente segue sempre all'epiteto (per noi
siciliani è lì la polpa, nella didascalia, nella declamazione) - è che lo è
(ladro) perché son più di trent'anni che ininterrottamente ruba al datore di
lavoro lo stipendio, non essendosi mai prestato a far qualcosa di utile o di
conveniente. Il dire è diventato un luogo comune che nonostante la ripetitività
suscita sempre risate sguaiate. Lui ha il buon senso di rispondere a tono,
senza rivelare malanimo. Certo, le vette del craxismo rimangono e rimarranno
intangibili nei secoli, ma che lui non abbia mai lavorato né si sia mai presa
una responsabilità appare del tutto manifesto e nessuno, nemmeno lui stesso, lo
pone in discussione, pertanto è letteralmente vero che il suo lauto stipendio
di procuratore lui lo ruba. Non è il solo a farlo, ma è quello che dura di più
e che meno degli altri si preoccupa di camuffarsi.
Muove anche al riso il suo aspetto
fisico (è alto non più di un metro e cinquanta), l'affettata eleganza nel
vestire, il ritenersi un irresistibile dongiovanni, i suoi capelli impomatati e
tinti, i suoi ridicoli baciamano alle giovani signore. Qualcuno sostiene anche
che porti scarpe rialzate. A mezzo di lui il genio siciliano concorre a sfatare
il mito che pretende che nella inesauribile inventiva della Commedia dell'Arte
le interpretazioni napoletane del Pulcinella siano le migliori.
Noi, ritenendo per il nostro
carattere che chiamarlo Craxi sia un po' troppo forte, lo chiamiamo Rudy. Come
il mitico Valentino. E così con poco molto lo appaghiamo.
Altri due procuratori sono il capo
dell'Ufficio Contenzioso, che quasi dimenticavamo forse perché si tratta di una
assai mite persona, che non alza mai la voce, che non s'impone, che non si
misura cogli altri a parole (sport preferito di noi Italiani), che parla poco e
solo di contrappunto. E' a capo dell'ufficio Legale, un ufficio specializzato a
cercare e a schivar garbugli, che egli per via dei suoi buoni studi (è laureato
in giurisprudenza) e per l'esperienza maturata (nei suoi anni di servizio non
si è mai occupato d'altro) possiede tutti i titoli per poter guidare anche con
un minimo di iniziativa. Invece egli è uno che per la paura di scottarselo non
mette un dito nemmeno nell'acqua tiepida. I suoi artifici tattici
invariabilmente convergono sempre su un solo progetto: "chiediamo il
parere del legale". Le sue strategie conoscono una sola strada:
"richiediamo il parere del legale". I quali - ne nutriamo a frotte!
-, pingui come caimani, voraci come piranha e numerosi come avvoltoi, a fronte
di lautissime parcelle ce li forniscono molto volentieri e con tutti gli arzigogoli
del caso. Che il buon Mariuccio alla fin lieto e senza alcun sospetto,
infiocchetta ed apparecchia al Servizio Centrale Competente, allo Stesso
contemporaneamente rimettendo - molto pilatescamente - ogni decisione.
Non possiamo esimerci dal parlare
anche del capo Uffico Segreteria, un uomo lento a capire ma lesto
nell’eseguire.
Viene poi la categoria dei
funzionari di base; primi segretari rimasti tali anche se i tempi di grassa
corsi ai tempi di don Ottavio e gli scellerati accordi sindacali che quel
megalomane volle han loro conferito dei galloni che, buon per loro, hanno
sopratutto il pregio della irrevocabilità. E che ora, con i tempi di magra che
corrono, potrebbero solo sognarsi.
E' doveroso iniziare con il
preposto all'ufficio Affari Bancari, un uomo cheto e scheletrico, prossimo, pur
se l'ultimo dei beneficiati, alla pensione. Che quotidianamente, nel silenzio,
ingaggia contro la noia tremendissime lotte, spesso soccombendo. Con la nimica
di sempre, adesso dopo anni e anni di strenui duelli pare che con gli sbadigli abbia
finalmente raggiunto una sorta di “modus vivendi”. Non solo pare che abbiano imparato
a convivere ma pare che addirittura abbiano preso pure a rispettarsi, così il
pomeriggio alcune volte può anche assopirsi un po'.
S'accende solo quando gli pare che
gli minaccino questo consolidato diritto a non far nulla, privilegio che sa
difendere con la certezza del diritto. Per lungo tempo ci ha privati della
scarna parola per via d'una di queste questioni, quando, una volta, forse sbagliando,
ebbimo a sostenere che il suo ufficio era più competente rispetto a un altro a
farsi carico d'un certo problema. Nonostante una durevole buona consuetudine di
rapporti, si scagliò contro di noi, apertamente e ingiustamente accusandoci di
malanimo e di personale persecuzione.
Gli altri due funzionari sono uno
quell’Osvaldo il perticone che noi latineggiando chiamiamo il “Longus Rare
Sapiens”, giacché i suoi quasi due metri di altezza non solo perentoriamente
chiamano alla mente ma prepotentemente illustrano, riaffermandolo, quel vecchio
detto latino. Data l'altezza, che abbia la testa fra le nuvole è comprensibile.
Ciò che è indisponente è la sua spocchia mentale, il suo continuo
filosofeggiare, tanto che, contraddicendo il buon Aristofane, ci siamo persuasi
che la sua testa sia più adatta alla procreazione che alla speculazione. Può
darne una buona idea una sua sentenza sull'”Unicum” del quale dicevamo, per
intenderci quello della chiostrina. Un
giudizio di intenso cogito e di pregevole articolazione che riportiamo perché
paradossalmente ben ci aiuta a descrivere, più che il personaggio che egli
voleva definire, proprio lui: "Faulisi" - ci spiegava da Mazzarino -
"rende difficile il facile attraverso l'inutile".
Chiude la schiera dei gallonati il
collega che con tanta personale presupponenza ci rappresenta in quel di
Serradifalco, Aristarco Da Norcia. Un tipo rozzo e violento, teatrale e
maleducato, paranoico e litigioso. Uno col quale non vi augureremmo mai d'avere
un tamponamento. Nelle riunioni è insopportabile, giacché egli non discute,
afferma! Interrompe, rompe, obietta,
contesta, pontifica, illustra e secondo lui s'illustra. Su ogni cosa deve
sempre dire la sua! Non ha il senso
della misura, né del buon gusto. E' così malato di protagonismo e di
esibizionismo che ci viene alla mente quel che Leo Longanesi scrisse a
proposito di Curzio Malaparte e cioè che (quello) "quando va ai matrimoni
vorrebbe essere la sposa e quando va ai funerali vorrebbe essere il
morto".
Tuttavia è giusto riconoscere che,
da quel ginnasiarca burbanzoso che è, i suoi uomini sa farli filare come pochi
altri (a chi sbaglia pare che faccia fare ancora il giro di chiglia) e che il
suo tre alberi dal punto di vista dell'organizzazione e della funzionalità è
certamente il migliore. E' il Patton dei preposti. Ma stia attento, si legga se
non l'affatica troppo, qualche libro di storia. Vedrà quanti impazienti e
arroganti tenentini migliori di lui sono morti di accidentali ferite alla
schiena.
Per dare un'idea della brutalità
del personaggio fortunatamente ci soccorre, come per il “Longus” di poco sopra,
una sua definizione di quel Vice Direttore che "rende difficile il facile
attraverso l'inutile". Secondo il nostro personaggio, e le sue parole,
egli (il Vice Direttore in questione) invece "soffre, ogni mattina, di
flussi mestruali galoppanti".
La definizione che pur se volgare
e assai becera non scalfisce la grandezza di quel Grande, che se fosse un po’
meno candido potrebbe consolarsi col vecchio detto “Molti nemici molto onore”,
dà un'idea precisa e concisa del corto pensare e della totale mancanza di
eleganza di chi l'ha pronunciata, efficacemente provvedendo a squalificarlo per
quello che realmente è.
Grande esperto di credito agrario
(come potrebbe non esserlo una testa agricola come la sua!), adesso vuole
risalire in tolda e rumorosamente schiamazza. Ma sir Flash Gordon non lo può
soffrire e difficilmente lo accontenterà. Ce lo auguriamo di cuore come
cittadini e come contribuenti, giacché la eventualità che egli ritorni in Sede
a dirigere l'ufficio anzidetto, cui palesemente aspira, costringerebbe
certamente l'Assessorato Regionale per l'Agricoltura e i Commissari di
Bruxelles a dover provvedere in gran fretta gli ortolani, gli allevatori e i
produttori agricoli di questa Provincia di provvidenze, di contributi, di
dilazioni e di sgravi come se fossero stati tutt'in una volta colpiti da quelle
temibili calamità che quando arrivano impediscono la fioritura, devastano i
raccolti, uccidono il bestiame. L'eventualità che egli vada ad erogare credito
ai nostri poveri bifolchi produrrebbe questi medesimi effetti, li rovinerebbe.
Contemporaneamente cimicia, cavalletta, peronospera, gelata, grandinata,
alluvione e siccità, dove passa lui, Aristarco Attila, non cresce un filo d'erba.
Le sue razzie fanno impallidire il ricordo di quelle che i secenteschi Lanzi
perpetrarono, scendendo verso Roma, nelle nostre fiorenti contrade. Non sembri
un modo di dire, giacché i Lanzi depredarono con scriteriata ferocia, prendendo
quello che trovavano e a volte per la fretta e l'ignoranza anche tralasciando
il meglio, mentre il nostro illustre collega, che in nessuna disciplina è
secondo a qualcuno, nella particolare tecnica del prelievo coattivo tocca vette
di virtuosismo che nemmeno i “Canarini” della Tributaria di Stato.
Può affermarsi - senza tema
d'essere smentiti - che al riguardo egli non conosce rivali. Alla naturale
spiccia rozzezza di modi sa aggiungere una competenza nel campo e una
conoscenza del terreno che nemmeno un agrimensore professionista. Le mascelle
di ferro, la proterva instancabile attitudine alla razzia e i vantaggi di
un'automobile che più che un'automobile è un furgone, completano mirabilmente
l'opera. Il mezzo meccanico, per l'inconfondibile puzzo di selvatico e per la radicata
presenza di terriccio, d'assortito fogliame e d'agreste sporcizia, ha tutto del
carro per bestiame. Egli con accanimento
vi stipa damigiane d'olio, bidoni di vino e ogni tipo di selvaggina, dal
capretto al tacchino. Dà lì dentro sono passati tutti i tipi di insaccati che
sprovveduti malcapitati artigianalmente ancora producono, forme di cacio di
ogni misura e di ogni dimensione, e pecorini di tutte le stagionature. Casse di
frutta delle quattro stagioni, pomodori, cipolle e tante di quelle trecce d'aglio
che avrebbe potuto agevolmente disinfestare dai vampiri l'intera Transilvania.
Così egli diuturnamente opera, lasciando i nostri poveri villani ogni volta
muti e costernati. Adesso aspira ad un teatro più ampio dell'agro comunale ove
è stato confinato. Chi li libererebbe di questo flagello, di questo castigo di
Dio?
Sicché adesso passiamo alla
schiera che "tumultua e preme", cioè ai Quadri Super, in cima ai
quali metteremo i reggitori d'Agenzia.
Cominciando - per riguardo alle
sue qualità - dal prevosto di Campofranco, che noi per i nostri radicati vizi
letterari ci ostiniamo a chiamare Arturo Ui. Costui è un amorale che per
ambizione si venderebbe, come il dottor Faust, l’anima al diavolo. Un
politicante scaltro e ipocrita, intimamente persuaso, probabilmente in ragione
della comune ascendenza curiale ("agnosco stilum romanae curiae"), di
essere il degno epigono del grande Andreotti, non accorgendosi invece che al
massimo può essere solo un secondo Lamberto Dini. Ma arriverà ugualmente
lontano, giacché non è stupido e sa mettere perfettamente in pratica la vecchia
massima che vuole che mai debbasi parlare male delle persone in loro presenza
né bene in loro assenza.
Poco diremo - la nostra cattiveria
non è abbastanza - del responsabile operativo presso l'Agenzia "A",
tale Gutierrez, che è uno che se avesse in testa tanto fosforo quant’è la lacca
che si mette sui capelli sarebbe Einstein. Per decenza non aggiungiamo altro.
Non volendo scivolare nell’insulto, sui mille difetti di questo luetico pedofilo,
sulle cento immoralità di questo untuoso cialtrone, sulle presunzioni di questo
velenoso incapace, pietosamente sorvoliamo.
Vengono poi i preposti alle due
Agenzie più piccole, più disagiate e più lontane.
Quello di Sutera e il suo omologo
di Villalba. Il primo, che è anche arbitro di pallacorda operante ai massimi
livelli, dà - suo malgrado - la sensazione di riuscire a divertirsi assai di
più sopra un parquet che dietro a una scrivania. Il secondo è un confusissimo e
confusionariissimo arrangiatore con pochissima arte e pochissima parte che non
vale l'ossigeno che brucia.
Ma ha Rosolino che può dargli una
mano. Rosolino, un personaggio che solo la nostra ferace e generosa isola
poteva generarlo, un personaggio di generosa natura e intellettualmente vivace,
ricco di cultura e singolare per le capacità affabulatorie e la visione delle
cose che convince e affascina chi lo ascolta. Pregevole mixtus tra un nobile
russo, un grande di Spagna e un avvocato siciliano, più col dire che col fare
egli nobilita l'antico concetto - che la rivoluzione tayloriana da una parte e
la scellerata cultura clerico-marxista dall'altro hanno purtroppo e
ingiustamente deprezzato - che il lavoro manuale e il lavoro in genere siano la
giusta occupazione degli inferiori, dovendo attendere gli esseri superiori a
far risaltare le qualità dell'ingegno e della parola.
Infine vengono i due che son
preposti alle Agenzie ultimamente aperte. Hanno in comune una riconosciuta
capacità professionale e il fatto d'essere, ambedue, crudelmente segnati da una
precoce alopecia.
Quello operativo a St. Cathald
city, che appartiene alla specie dei rancorosi silenti, è uno che parla poco e
scrive molto. Però la sua disgrazia la porta in giro con nobile spirito di
rassegnazione, a fronte alta come suol dirsi.
L'altro, che al contrario è un
piagnone furbo, scrive poco e parla molto. Ed è effetto, a parte l'alopecia di
cui si diceva, da una rara forma di priapismo professionale, la quale,
sfociando in un incontenibile eretismo da sviluppo, lo porta a razziare anche -
o forse sarebbe meglio dire sopratutto - in casa de' suoi fratelli. Per quel
che riguarda le nudità craniche, quelle se le cela sotto risvolti piliferi
sempre più arditi e ingegnosi.
Portiamoci adesso nelle retrovie,
dove il terreno è minato e occorre muoversi con cautela. Parliamo della bassa
forza, dei subalterni, sempiterna croce e dolente spina nel fianco di chi abbia
qualcosa da chiedergli. Si tratta di gentaglia rozza e semianalfabeta,
ostentatamente pigra, platealmente rancorosa, che non si può stimolare perché
visceralmente refrattaria al senso del dovere, che non si può punire perché
sindacalmente protetta e professionalmente senza dignità, e che, nel caso e
teoricamente parlando, non si potrebbe neanche premiare perché ideologicamente
estranei al concetto di qualità vedrebbero nella gratifica, pur rapaci di
prebende come sono, una diminuzione di “status” anziché un accrescimento.
Invidiosi e sospettosi di tutto e
di tutti, stancamente si conducono trascinando i piedi, odiandosi a vicenda,
pesandosi i carichi l'un l'altro, disprezzando il prossimo e criticando senza
risparmio i funzionari. Se è questa la classe operaia (ed è questa, purtroppo)
il vecchio Marx avrebbe fatto meglio ad occuparsi della redenzione delle
scimmie piuttosto che di essa, senza dire che (e per carità di patria qui non
approfondiamo) per fortuna ne abbiamo già un paio nelle patrie galere.
A volerli dipingere per quel che
sono, sintomatico appare un episodio legato alla vicenda della sostituzione del
centralinista telefonico del quale siamo stati diretti testimoni e che, meglio
che noi, meriterebbe un narratore della stregua del grande Pirandello.
I personaggi in questione sono
due, che noi per discrezione chiameremo signor Pasquale e il signor Natale. Il primo,
il signor Pasquale, comandato a gestire per un paio di mesi il centralino
telefonico non ha fatto altro che lanciare alti lai e dolorosi guaiti “che non
ce la faceva”, “che stava schiattando”, “che si minava irreparabilmente la
salute”, “che gli scoppiava il cuore”, “che lo volevamo morto” e che siccome ne
andava della sua pelle, se non ci risolvevamo a levarlo da lì, “si sarebbe
rivolto al sindacato, al procuratore della repubblica al padreterno in
persona”.
Nel contempo pretendeva pure di
farci credere - novello Charlot dei Tempi Moderni! - che gli insostenibili
ritmi del lavoro non gli permettevano la registrazione delle chiamate in
uscita, al fine della dovuta rendicontazione. Epperò le avrebbe fatto lo stesso
queste registrazioni - alla fine della litania indulgeva -, “essendo lui
persona proba, onorata e generosissima, discendente da famosi procacciatori di
muli ai tempi della grande guerra”, solo che gli considerassimo l'impegno come
una prestazione straordinaria pur se effettuata in orario ordinario, e quindi
ulteriormente retribuita.
Il dottor Faulisi giustamente non
sottostà al ricatto e lo sostituisce.
Chiama al suo posto il signor
Natale. Il quale s'insedia e monta su un'altra interminabile lagna! Non fa che
lamentarsi che lì non ci vuol stare perché “vi si muore di noia”, “che a forza
di sbadigliare sta scardinandosi le mascelle”, “che il far niente è alienante
peggio e più che il lavorar molto” (personalmente condividiamo, ma consideriamo
che col tempo chi non vi muore fortunatamente vi si abitua), “che lui è un
purosangue che non sopporta la corta cavezza”, “che è un delitto tenerlo
inutilizzato lì”, “che capisce com'è che la banca stia andando in malora se i
criteri di gestione del personale sono questi”, e che siccome ne va della sua salute
(mentale, nel suo caso) se non ci risolviamo a levarlo da lì - solita solfa -
si rivolgerà al sindacato, eccetera eccetera.
Il duce, buonanima, diceva che la
Patria la si serve anche facendo la guardia ad un bidone di benzina; questo
tanghero presupponente, questo fannullone viziato, questo logorroico paranoico
pretende di far nulla e, nello stesso tempo, di dar consigli ai suoi superiori
su come si dirige il personale?!
Le rilevazioni delle quali si
diceva (le registrazione delle chiamate in uscita) lui le fa, anche se ogni tre
o quattro ne salta due. Ma le superiori sue conclamate asserzioni non traggano
in inganno l’onesto lettore. Non è vero che vuol far di più: è che non vuole
fare nemmeno questo. Si tratta di un fannullone peggiore degli altri perché più
malefico; di un dannato delinquente.
Se il Castruccio Castracani dei
muli, il Pasquale, ogni volta che dalle parti del suo sgabuzzino s'avventurava
a passare uno importante, zac! come un Vietcong gli balzava addosso e lo
catturava, per tenerlo prigioniero per mezz'ora e intontirlo, sputazzando come
una lavastrada, colle sue chiacchiere circa la nobiltà dei suoi natali, la
protervia della direzione e il fatale e irreversibile declinare della sua
salute per causa della insostenibile gravità del carico, porgendo a prova di ciò la solita ingiallita
ricetta piegazzata in quattro e le sempiterne due scatole mezzo vuote di
medicinali.
Il Natale invece, che è ancora più
farabutto, questo Masaniello del far nulla, questo bardo dell'irreperibilità,
ha addirittura l'ardire di prender le scale e di venir su a esibirsi nel suo
controcanto, venendo a porli addirittura a domicilio i suoi ultimatum.
Una situazione, due persone, due
verità. Per questo, prima d'iniziare, invocavamo la maestria narrativa di don Luigi
Pirandello. Due verità, due persone, una soluzione. Per fortuna ci soccorre la
tecnologia.
L'Ammiragliato, opportunamente
tagliando la testa al toro, ha scritto che metterà un nuovo tipo di centralino
dove finalmente si farà a meno dell'operatore. A questo ha portato la
scellerata politica sindacale in Italia. Il giorno che gli aeroplani potranno
volare senza piloti la Alitalia decollerà. Noi speriamo di vivere abbastanza da
poter vedere quel giorno. Dopo chiuderemo gli occhi felici.
Questo è il desolante panorama nel
regno dei commessi.
Li governa Filippo Lacagnetta, uno
che viene dalla gavetta e che riesce - nella difficilissima lotta che ogni
giorno, in ogni momento, in quel serpentario si rinnova - a non farsi
sottomettere. Si tratta per nostra fortuna di un elemento di grosse qualità,
instancabile, ben capace d'organizzarsi
e d'imporsi. Intelligente,
attento, risoluto e scaltro, ha sempre un rimedio per ogni problema.
Non fosse scaltro a quest'ora
l'avremmo trovato in qualche sottoscala con un tagliacarte conficcato nella
schiena.
E come nelle buone trame di Agata
Christie tutti avrebbero potuto brandirlo, quel tagliacarte.
Donn’Onofrio Panza di Ferro per
esempio, che è pesante come una ancora di mare e che caratterialmente è il più
violento di tutti. Non gli si può chiedere nulla di più di quel poco che da, né
forzarne i ritmi, perché ha sempre pronta, puntuta e velenosa, la parola per
difendersi e, sopratutto, il certificato medico facile, del quale si serve
senza scrupoli. Bisogna accontentarsi di
quello che fa e ringraziare il cielo che, quando viene, sia venuto. Il lavoro,
per questa gentaglia, è un optional, o, come dice il Direttore, una franca
alternativa allo starsene in casa e a ogni altra occupazione.
Parimenti indiziabile potrebbe
apparire quel sonnolento criminale del Pasquale, già citato - il lettore lo ricorderà - quale riottoso
centralinista. O pure - stiamo ancora cercando l'ipotetico assassino – Emanuele
Modugno, scioperato bohemien del far niente, personaggio un po' naive nonostante
la canizie e la venerabile età. Gravemente appanzato, con pochi denti (solo i
canini, giustappunto), i suoi lunghi capelli non vedono una lama di forbice da
almeno due solstizi, né pare che col dente del pettine abbiano mai avuto più
confidenza. Tuttavia è uno che sa onorare le amicizie, la buona compagnia e
(sopra tutto) la buona cucina. La sola cosa che con tutte le sue forze detesta
è il lavoro, che ritiene invenzione del diavolo. Lo aborre come una disgrazia,
lo fugge come una maledizione, né di ciò fa mistero. Quando, nella lunga
giornata, una piccolissima parte di lui vi soccombe, vi soccombe con lamenti
così alti e con accenti così accorati che muoverebbe a compassione anche un
caporeparto giapponese.
Anche noi riteniamo che il lavoro
sia opera del diavolo, e che sottostarvi sia una dolorosa necessità. Ma abbiamo
anche saputo valutare, e non ce dimentichiamo, cosa voglia dire non averlo, o
perderlo. A questa gente, in quest'Italia clerico-marxista, la sicurezza del
posto di lavoro ha dato solo impunità ed arroganza. Il nostro vezzoso Lele si
lamenta così tanto e con tanta costante e coscienziosa applicazione, troppo
poco facendo, che spesso ci chiediamo se ne sia effettivamente convinto o se
piuttosto la sua sbracata figura di stagionato friggitore di stigliole non celi
il sembiante d'un grande filodrammatico che amabilmente ci prende per il culo.
Può benissimo essere; ciò che non può darsi è che egli effettivamente possa
stancarsi di quel poco che fa.
Sono tutti così i commessi, se ne
hai conosciuto uno li conosci tutti. Chiunque di loro avrebbe potuto brandirlo,
quel tagliacarte. Perché sono tutti delle carogne perfettamente convinte di
dare più di quel che ricevono.
C'è il protervo (il Narbonense, un
lento ingrato velocemente avviato sulla peggiore strada), come c'è l'astioso
(il Guercio, “cave a signatis!” dicevano giustamente i latini. Ha un occhio
obliquo, ma quando ritiene di subire un torto, cioè quasi sempre quando lavora,
lancia, pure con esso, occhiate così torve da far paura), così come c'è
l'impunito (il cavalier Leporino, l'amico dei potenti: ostentatamente ruffiano,
ostentatamente lavativo, ostentatamente pelandrone, ostentatamente
scansafatiche, un furbastro di tre cotte al quale personalmente ci guardiamo
anche di chiedere l'ora. Perché,
certamente prima che ne passi mezza, a compenso verrà a chiederci mezza
giornata di licenza).
Neanche il buon Coca Cola Kid, che
è appassionato tifoso della Juve e che è stato in America, potrebbe sfuggire al
sospetto. Poco pare pretendere, mostrandosi egli sempre contento e
ossequioso, ma verosimilmente si tratta
d'un costume di tornaconto. La mala genìa che lo circonda non può non averlo
voltato al peggio. Pare anzi certo che sia stato proprio lui, pur se d'intesa
con i suoi sodali, ad inventare, all'insegna del vecchio detto "orecchio
che non sente centralinista che non risponde", la faccenda della
mordacchia alla suoneria del telefono, faccenda che il nostro tenente Bligh
quando la scoprì divenne una furia, lo tenne diciotto minuti sull'attenti, lo
lavò, lo centrifugò e lo stese così bene sui fili che il buon Coca-Cola, che ha
la pelle dello stesso colore della bibita della quale porta il nome, quando ne
uscì era bianco come un lenzuolo funebre.
E mentre ciò faceva, il tenente
Bligh generò, produsse e diffuse la lettera che, per portare testimonianza su
un episodio che ben la dice sulle (infinite) risorse dell'Italico genio quando
si tratta di non lavorare, veniamo a riprodurre.
Oggetto: posto del custode.
Al Signor Economo.
Si è rilevato che gli elementi
adibiti alla custodia sogliono allontanarsi dal loro posto per lo svolgimento
di altri compiti, comunque per ragioni che non rientrano nella loro competenza
o non hanno il carattere di estrema necessità o urgenza, e che esulano, in ogni
caso, dallo specifico ruolo di vigilanza e controllo.
Fermo restando, quindi, che è ad
essi devoluto anche il compito di sorveglianza della clientela che staziona nel
salone di cassa o che transita per le scale e per gli uffici, non va disatteso
il ruolo di centralinista agli stessi attribuito in via provvisoria da alcuni
mesi e nelle more di installazione del nuovo centralino senza operatore. In
tale contesto appare volutamente elusiva la manovra più volte constatata e
fatta constatare con la quale viene spostata la levetta della suoneria
dell'apparecchio telefonico per rendere non percettibile la chiamata in arrivo
alla quale ovviamente non viene data risposta, sostanzialmente sopprimendo
detta funzione di centralinista. Si ritiene di dover sottolineare che tale
levetta risulta spostata non già al centro, situazione, questa, che renderebbe
ancora percettibile pur molto attenuata la suoneria della chiamata, ma
addirittura al minimo. Poiché a nulla sono valsi i ripetuti tentativi sinora
effettuati per scoraggiare il ricorso a tale espediente di per se indice di
disaffezione al lavoro e di svogliatezza, appare necessario adottare più severi
provvedimenti nei confronti dei responsabili, per cui si dispone, in primo
luogo, che su intervento del tecnico della Telecom la detta suoneria venga
fatta posizionare sulla massima intensità e si faccia eliminare del tutto tale
levetta di modo che risulti immodificabile la posizione scelta. Per ogni buon
fine si prega di far prendere buona nota della presente a tutti gli elementi
che si avvicendano al servizio di portineria, restituendo una copia con le
cennate firme, avendo cura di avvertirli che qualora si dovesse sorprendere
ancora qualcuno che abbia scientemente manipolato l'apparecchio, l'accaduto
verrà riguardato con il dovuto maggior rigore. A tale scopo, e a scanso di
giustificazioni non accettabili, si faccia presente altresì che al momento in
cui inizia il servizio ciascun operatore deve avere cura di controllare la
suoneria dell'apparecchio. Ciò nell'attesa che la Telecom posizioni la stessa
sulla massima intensità. Si resta in attesa di riscontro. Cordiali saluti.
Ritornando al gioco
dell'assassinio dell'economo rimane da dire che l'ultimo del quale
sospetteremmo è Diego Segundo Garsia, il quale, essendo intelligente e il
meglio rifinito fra tutti, si rende conto che macchiarsi di un delitto al
riguardo sarebbe un rischio e un inutile sproposito.
Vuole succedergli nel ruolo, a
Filippo Lacagnetta. Per cui sta attento a non commettere passi falsi, a non
guastarsi la reputazione. Per questo non può rischiare la galera.
Se ne sta quieto perché per
quotidiani segni appare chiaro che non è lontano il giorno che a Filippo il
Niger salteranno definitivamente i fragili nervi, e se ne andrà sbattendo la
porta. Allora, per mancanza di alternative, perché in un mondo di ciechi un
guercio è sovrano, sarà giocoforza assecondarlo.
Pur non trattando dei due commessi
ospiti delle patrie galere, che riteniamo degli altri solo più sfortunati,
appare evidente che sottocoperta il panorama è desolante. Ma è ciò che
invariabilmente produce la nostra amata terra quando l'arretratezza culturale
improvvisamente si sposa con il comodo benessere. E al matrimonio fan da testimoni comare
impunità e compare garantismo.
In questa “Gehenna” di dannati
fannulloni come in nessun altro posto vige la massima del grande Federico di
Prussia e cioè è più facile che i corrotti corrompano i giusti piuttosto che il
contrario.
Lo scrivere di queste cose ci ha
appesantito la mano e intorbidito il cuore, per alleggerire lo spirito e
tornare a volare alto non può esservi miglior consiglio, adesso, del trattare
delle donne.
Ma non possiamo non cominciare
dalla signorina Gesuina, sia perché la conoscevamo già e sia perché il
rivederla è stato per noi la riprova più triste e più marcata di ciò che
l'ingiuria del tempo può sui mortali. Diciottanni fà era una bambolina:
piccola, allegra, graziosa e vezzosa, era in segreterìa ed era (così si diceva
allora) il nostro angelo custode. Adesso le medesime dimensioni portano un viso
semimiastenico, due occhi acquosi, una vocina stridula e un piccolo corpo
rinsecchito. Ma ciò che la trasfigura completamente è il carattere. E'
diventata, nei rapporti interni, acidula, aggressiva e velenosa. Di queste
pericolose performances chi ne fà le più pesanti spese è il nostro Vice
Direttore, quel caro "Unicum" del quale molto a lungo abbiamo
trattato, di cui, come se già non ne avesse abbastanza di disgrazie, ella è
l'assistente. Il quale per l'innata gentilezza dell'animo la colma di premure,
di attenzioni, di rose rosse e di quotidiane leccornie, e non si capacita di
tanta gratuita aggressività. Non comprendendo, il malcapitato, che le
regressioni ovulatorie e gli avanzanti problemi climaterici della signorina han
fatto di lui, nelle acquisite consuetudini e in assenza di un destinatario,
diciamo così, istituzionale, il suo primo naturale bersaglio, così come capita
a tutti mariti. Scomodando il vecchio Freud potrebbesi diagnosticare, nella
puntuta aggressività della signorina Gesuina, la sindrome deffinita
"invidia del pene", ma ce ne guardiamo, noi siamo scrittorelli di
piccolo cabotaggio, a noi la vecchia "insoddisfatio talami" ci
convince già abbastanza.
Sempre a proposito di donne adesso
ci piace cimentarci in un confronto-raffronto che quantomeno esteriormente
appare estremamente dicotomico e, almeno nella sua giusta metà, molto
stimolante: Si tratta di quello, diciamo così, tra la bella e la bestia, tra
l'agile gazzella e la corpulenta foca di mare, tra il sottile giunco e la robusta
quercia. Tra Beatricetta e la signora Angela.
Beatrice, Beatricetta, Bicetta e
per simpatia fonica quindi Micetta sembra una figura botticelliana, tanto è
bella. Occhi blu, corpo flessuolo, lunghi capelli rossi, fianchi sottili, gambe
slanciate, ove appare non passa inosservata e probabilmente anche il buon Dio
si ferma a guardarla. Ma attenti! E'
tale e quale quell'esoso di suo padre: permalosa, aggressiva, tagliente,
arida. Certo, a dover per forza
scegliere è sempre meglio lei che una donna che a questi medesimi difetti
unisse anche una sua dose di bruttezza, ma a noi riesce difficile capire perché
essi siano stati inseriti in un corpo così bello. Tutto, nell'insieme, ci
sembra solo un grande, inspiegabile spreco, quasi un tradimento alla bellezza.
La signora Angela, santa donna,
invece quel che ti promette ti dà. Papale papale. Anche sberle e cazzotti, se è
necessario. Anzi, se avete in mente di scippare una qualche donna, vi
consigliamo di non pensare a lei.
Giratele al largo. Perché fareste il peggior affare della vostra vita:
vi malconcerebbe. Però è una gran donna (uhm!). Grande simpatia, grande
comunicativa, grandissima intelligenza, grandissime capacità organizzative,
grandissimo senso diplomatico (da non confondere con l'ipocrisia). E' dirigente
provinciale del più piccolo dei tre sindacati, ma surclassa gli altri. Fosse nata maschio sarebbe (ancora) ministro.
Ne conosco anche la famiglia. I
suoi tre figli si sono affermati tutti nel modo migliore. Succede sempre così
quando il capofamiglia ha le palle.
Dirigente sindacale di ben più
feroce aggressività è la compagna Olga, sanculotta dal volantino facile e dal
tu-che-non-perdona, ribattezzata, in ragione della forte passione politica e
probabilmente per la ruvida mascolinità, col nomignolo Che Guevara.
L'accostamento non desti
meraviglia; credessimo nella reincarnazione penseremmo che nella vita
precedente sia stata se non quel povero medico rivoluzionario motociclista del
quale porta il meritato nome, quasi certamente la Krupskaja, o la Ibarruri.
Comunque, metempsicosi o no, è sicuro
che viene dalle Frattocchie. Di rude sentimentalismo, brutta in viso ma
dotata di un bel culo, celibe ma non casta,
per amore del Partito e al suono di "Bandiera Rossa" la
darebbe a chiunque.
Prima di prendere a trattare delle
donne dell'Ufficio Segreteria, una sorta di gineceo, vorremmo dire due parole
sulla signora Cettina. Nulla di particolare. Una santa donna con due qualità
strepitose. Una è che è sempre allegra, cuore contento Dio l'aiuta. A volte si
fa' certe risate che par di credere che qualcuno le abbia fatto scivolare un
topo dentro la scollatura. L'altra è che davanti ha due air-bags che
lèvati! Andasse a sbattere a duecento
all'ora contro un TIR ne uscirebbe illesa. Dovrebbe soltanto andarsi a cambiare
il reggiseno.
E adesso delle ragazze della
Segreteria: Adalgisa, Marisa, Gabriella, Cherubina detta Bina e Valeria.
Adalgisa, o Gisa che dir si
voglia, fisicamente somiglia a un grosso cagnone di corto pelo e di corta coda
che abbia imparato a camminare sulle due zampe posteriori, un po' come il
canuomo di Guerre Stellari, per chi abbia visto il film e se ne ricordi. Ma
caratterialmente è come il placido Don, che ampio e maestoso nei secoli scorre.
I suoi ritmi sono immutabili e costanti. Indifferente al variare delle
stagioni, naviga lenta e attenta a schivare tronchi d'albero e mulinelli. I compagni di scrivania, gente di pochi libri
e di molta televisione, la chiamano la signora Coriandoli, ma se v'è qualche
rassomiglianza fisica non v'è rassomiglianza d'indole, non possedendo, la
nostra, le qualità più peculiari di quella macchietta, cioè la frenesia vocale
e l'instancabile voglia di farsi gli affari degli altri e di dar consigli. E'
un tranquillo tipo di cannibale, la nostra Adalgìsa. E' capace di sbranarsi, nel breve tempo di un
week-end, un libro di ottocento pagine. Fervidissima ammiratrice d'un certo
tipo di letteratura, quella dei vari Stephen King, Chrichton, Grisham, Ludlumm,
Koontz, Forsyth e Follett - che Dio la perdoni veramente -, ha letto
appassionatamente tutto. Il paziente lettore che avesse avuto la forza e la
tenacia d'arrivare fin quà, se, coincidentelmente, avesse anche conoscenza del
predetto tipo di letteratura potrebbe comprendere a chi somiglia. Giacché ella
imperiosamente richiama alla mente, per la consistenza ragguardevole delle
carni e la foggia trasandata dell'abbigliamento, e, appunto, per la particolare
inclinazione a quel tipo di prosa, quella signora Wilkes cui il suo adorato
Stephen King ha dato torrida vita e agghiacciante notorietà con il
fortunatissimo Misery non deve morire ...
Inoltre - la cosa è alquanto rara
in chi porta le gonne - è anche competentissima di calcio ove molto l'agevola
la formidabilissima memoria. Per cui a volte ci troviamo a confrontare le
opinioni e i comuni ricordi. L'argomento ci appassiona ma dobbiamo confessare
che la sua serenità nel discorrere, la sua sovrana indifferenza nei riguardi
del lavoro, la sua soave imperturbabilità nei confronti del tempo che corre, ci
esasperano, per cui finisce sempre che, stremati e svuotati d'idee, siamo noi a
gettare la spugna e a chiudere la conversazione. Fosse per lei trascorrerebbe le giornate
intere a parlare e le nottate a leggere. Pare che non coltivi altri interessi:
né gastronomici, in quanto, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, è
parca nei consumi alimentari e quasi vegetariana nei gusti, e, fortunatamente
per l'universo maschile, del tutto sorda agli appetiti sessuali. Ci è
simpatica, Adalgisa, detta Gisa (o Ghisa, come mentalmente la chiamo) quando
tra noi e lei non si frappone quell'accidente maledetto chiamato lavoro...
Marisetta invece, Marisa
all'anagrafe, è un candido castigo di Dio, e, nel lavoro, la più provvida delle
camurrìe. Lupacchiotta dagli affilati dentini, quando, con onesta ferocia,
afferra uno per la collottola non lo molla più.
Come ci conferma un amico che ne ha frequentato la famiglia e ne conosce
i genitori, ella ha preso tutte le qualità della madre, una santissima donna
che il paradiso attende a porte aperte per consolarla, tra cent'anni o quando
sarà, di tutte le sue terrene afflizioni, e gli stravizi del padre, socialista
d'assalto che da solo s'è divorato mezza Cassa di Risparmio e l’intero Istituto
delle Case Popolari. Cosicché la
lupacchiotta, che nelle cose che fa ci mette il furore dei candidi, è riuscita
un tipo un po' speciale, un po' Mandrake e un po' Matilde di Canossa. Ma noi che abbiamo letto Pirandello nutriamo in fondo al cuore la piccola
speranza che la nostra cara Marisetta un bel giorno smetta la sua ferrigna
armatura di santa Giovanna d'Arco con i seni a chiodo,e
indossando paillettes, guêpieres e piume di struzzo - il Gran Dio Consolatore
lo voglia! - trasformi l'ambiente di lavoro in un effervescente Salon Kitty.....
Gabriella, capricorno anche lei.
Una sorta di pacifica mucca - ci viene in mente la Clarabella di disneyana
memoria - che rumina lavoro dalla mattina alla sera. Una ottima persona, nei
secoli fedele. Pensiamo che sappia fare anche delle squisitissime torte di
mele.
E adesso l'orchestra taccia, rulli
solo il tamburo. Si spengano le luci e il riflettore mobile proietti il suo
cono di luce sul centro del sipario. S'alzi la tela: entra in scena Bina la
sciantosa.
Bina, un animale femmina che
spande nell'aria feromòni in quantità industriali. Tette al vento, cosce
all'aria, girando per corridoi o a lungo al bar bivaccando, porta ognora, in
processione, il suo ben'assortito offertorio con un candore che il pochissimo
vestire ci fa scambiare per insolente spudoratezza. E’ una sorta di provvidenza al Bel Vedere, la
cara Bina, in quanto poco nasconde e quel poco che nasconde lo lascia
intravedere senza che ci si affatichi. Ma una cosa non potremo mai vederle: il
cervello. Non ne ha punto. Per questo campa felice come una giovenca in uno
staccio di tori.
Valeria, che a noi
un po' teutonicamente piace chiamare Ffàlèria, è una giovane donna dotata di
uno straordinario senso di concretezza, che la finissima intelligenza, le non
comuni qualità morali e la coraggiosa schiettezza rendono gradevolmente
potabile. Sentimentale e nello stesso tempo logica, gentile
e nello stesso tempo spietata, si è lucidamente immolata sul ceppo della
concreta convenienza, sposando - al fine d'assicurare ai suoi figli un durevole
sicuro benessere - un rampollo di commercianti di tessuti, pieno di danari ma tracotante
e inetto e, quel che è peggio, intellettualmente e caratterialmente lontano da
lei anni luce.
Più per il gusto che per le
possibilità, Valeria veste con grande incalcolata eleganza, ma a noi nessuno
potrà mai togliere dalla testa che mai nulla potrebbe starle meglio d'una
attillata divisa di maggiore della Wermacht.
Giacché siamo persuasi che nemmeno quella rigidità di taglio e di cucito
offuscherebbe mai la bellezza del suo generoso e ben tornito seno, che sempre
più spesso, mentre che ci parla, ci incantiamo a fissare.
C'è anche un'ultima arrivata.
Fisicamente somiglia a una succosa olivetta farcita. Gradevole e graziosa,
disponibile e dolce, gentilmente si spende per del volontariato di solidarietà,
assistendo, dopo il duro lavoro, vecchi, ammalati e moribondi.
Ma stancando - come diceva il
barone di La Rochefoucault - il mestiere di donna onesta quanto pochi altri al
mondo, parrebbe che – così sostiene qualche maligno - non sempre i letti ove la
nostra lieta ed operosa crocerossina porta il suo benemerito soccorso
contengano uomini anziani o di malferma salute. Prosit.
Ci sono altre donne, alcune
simpatiche altre meno, ma non vediamo nessuna che offra netto il fianco al
taglio del censore. Se non, in negativo, per la sgradevole antipatìa che
suscitano la sua immagine e la sua puntuta aggressività, che la spudorata
evidente autoconduzione al risparmio ognora alimenta, la signora Tina Maria.
Una corta malcavata, rancida de' suoi numerosi esiti metrico decimali, che ha
il braccio che prende molto più lungo di quello che dà. Ma per fortuna è sempre
assente. Sì, un'altra meritevole di più considerazione c'è. E' la Teresita del bajòn, un'altra Evìta
Peròn, cantante e ballerina anche lei, maestra impareggiabile nell’arte di
saper trovare le “giuste direzioni”.
E adesso un personaggio che
nonostante che ben poco si presti alla dura opera per la quale è retribuito
(circostanza, questa, che per principio noi difficilmente perdoniamo) ci è
massimamente caro, Si tratta di Massimo
Sanvincenzo circa il quale, datane la rilevanza o quantomeno la singolarità,
vorrei discernere e cernere, se ci riesco, qualche concetto.
Figura mitica che pure realmente
vive. Adorabile per l'intelligenza, per il buon gusto, per la pacatezza nel
parlare, per la profonda e ampia cultura di nobile taglio dilettantistico, egli
molto sa di cinema, di letteratura e di ogni tipo di buona musica. Reduce da
tutte le battaglie, ideali, politiche, civili, combattute in nome del
“Sessantotto” e dai cliché generatisi in quell'alveo (gli spinelli, il libero
amore, le buone musiche, la solidarietà, la civile convivenza, una generica
minimalità comportamentale, il rifiuto dell'opulenza e della sguaiataggine, la
demitizzazione del danaro, la buona ecologia) si è sempre equamente diviso, in
una coerente ricerca della migliore qualità della vita, tra la verde Irlanda,
la rossa Bologna e questa ingrata terra ove degli onesti genitori senza molto
convincerlo lo misero al mondo.
Gli parliamo sempre molto
volentieri, ascoltandolo ogni volta con uno strano mix di rammarico, disagio,
interesse e piacere. Il disagio ci viene dal sospetto che solo la sua disarmata
dabbenaggine lo porti a usare tanta condiscendenza con chi come noi, entrato in
banca “povero” come lui e che con lui condivise le ultime o le penultime
scrivanie di quel maniero, ora veleggi o dia a vedere di veleggiare in alte
soddisfatte quote.
Perché di lui ricordiamo sempre
con simpatia come nella nostra precedente vita in questo pianeta, vent'anni fa', ci confidasse (lavoravamo
allora quale giovani apprendisti di bottega al credito agrario di quel guitto
di Giovanni Maria Frick, del truce sor Lillino, del velenoso don Totò, di
quella risibile macchietta dello zio Pietro, gente che difendeva i suoi
privilegi come mamma gatta difende i suoi gattini) come ogni mattina, dicevamo,
nell'accingersi a varcare il fatal portone, gli venisse sempre di vomitare.
Adesso - glie lo abbiamo ricordato quando ci siamo rivisti - ci ha detto che
non vomita più. S'è mitridatizzato. Adesso, pacato e disarmato, sta lì, dietro
alla sua scrivania, ore e ore immobile e cheto, ad inseguire i suoi personali
nirvana.
Adesso, poiché ci piace accostare
il turpe al sublime, diremo di Sigismondo Quadrella. E' d'uopo cominciare con
il dire che non si sa cosa faccia e di qual carico, casomai glie ne chiedessero
conto, dovrebbe rispondere, anche se del credito agrario potrebbe supporsi,
guardando alle sue origini e considerandone il sembiante. Ciò detto riteniamo
che non possa celarsi il fatto, datane l'inaudita gravità, che quand'era in
forza nell'agenzia del suo paese ne costituiva il megafono, nel senso che della
delazione per fini politici aveva fatto la sua occupazione primaria, divulgando
le notizie più riservate. La Direzione del tempo per rimuoverlo applicò la
regola che i papa applicavano nei confronti dei vescovi scomodi, cioè il
promoveatur ut amoveatur. Per cui divisò d'affidargli la preposizione di
un'agenzia della provincia, da dove però nel giro di una dozzina di mesi
dovette cacciarlo per motivi non del tutto chiari (sostituendolo coll'emulo
Gutierrez, identico motore, solo la carrozzeria è leggermente diversa. Dottor Canasco dov'era vossìa?). Da lì la
Direzione, per metterlo in una più definitiva condizione di non nocumento, di
meglio non trovò che ripararlo nel suo grande alveo, disposta anche a
dimenticarsene pur continuando lautamente a nutrirlo. Il personaggio, così
premiato e affrancato, ritornò a vivere nel suo stramaledetto paese (che è come
dire a Sodoma o a Gomorra) per prestare servizio (si tratta solo di un modo di
dire che non trova alcuna corrispondenza nella realtà e solo qualche labile
traccia nel registro delle presenze) in quell’Agenzia. Fino a quando non gli
riuscì di sublimare questo stato di fisica non rispondenza facendosi deputare
dal popolo bue a consigliere comunale. Non si stupisca il buon lettore, la
politica nella nostra bella Isola è stata capace ed è tuttora capace delle
peggiori nefandezze. Ma siccome, come si suol dire, al peggio non c’è così come
non c’è mai fine alla tracotanza dei politici, ben presto il villano, grazie
anche ai meriti acquisiti nel tempo e ai favori fraudolentemente elargiti,
ascese al rango di assessore. Le leggi sulla rappresentatività popolare sono
oscene e consentono agli eletti dal popolo privilegi che gridano vendetta. Ce
ne rammarichiamo non certo per rimpiangerne, per lui e per quelli come lui,
l'assenza dal lavoro, bensì per piangere sul fatto che nonostante ciò vengano
tutelati e ugualmente retribuiti.
Ciò non bastasse è da aggiungere
anche che il personaggio, nonostante la notoria remuneratività dell'occupazione
primaria, è, nei riguardi nel suo datore di lavoro, che per mestiere eroga
credito, un recidivo moroso. E' un habuitué
del non pagamento, che raccoglie i (miti) solleciti "a veder di sistemare
le cose" con proterva arroganza, cioè esigendo altro credito. Ed
insultando a tutto spiano tutte le genitrici e le germane dei (timidi)
esattori. Anche il suo aspetto fisico
muove alla repulsione, non solo per le grossolane fattezze quanto per
l'ineliminabile fastidiosa sensazione di sudicio che suscita, avendo il suo
corpo col sapone la stessa consuetudine che un integralista islamico può avere
con la carne di maiale. Noi che riteniamo che gente come questo miserabile
pitocco non meriti d'entrare in una banca neppure come guardia giurata lo
consideriamo, in questa galleria degli orrori, l'incarnazione dell'Anticristo.
Da quì in poi andremo spigolando.
Ne avessimo la capacità ci dilungheremmo. Potremmo dire, ma non diremo, di
Joaquim Peirò chissà perché volgarizzato in Gino. Un azzimato elegantone, un
bell'ombroso che coltiva il vezzo d'arrotolarsi da sé il tabacco entro quelle
sottilissime cartine che per fumare s'usavano nella povera Italietta
dell'immediato dopoguerra. La cosa in sé non è particolarmente grave, non fosse
per il fatto che ciò che v'attorciglia non è, come comunemente si crede,
tabacco bensì puro oppio cinese. Su ciò non è lecito nutrire dubbi. Visto come
dorme. Ma lasciarlo dormire, uno come lui che nei rari momenti di soprassalto
diviene un cacadubbi ostinato come una zecca, sarà sempre la soluzione
migliore. Di molteplici interessi pur se di lente concretizzazioni, corre
concorde voce che eccella, il bel tenebroso, nello scopone scientifico.
Anche tale Joseph P. - un tipo
pedestre - ci offrirebbe buoni spunti. Trattasi d'una sorta di testuggine
marina con qualche secondaria sembianza umana, uscita, così come Minerva uscì
dalla testa di Giove, dalla scorbutica capoccia dello zio Lillino. E come ci
capitava con il suo mèntore, ci viene difficile capire se in lui la vinca la
presunzione o l'ignoranza, coltivando, dell'una e dell'altra, dosi massicce. E
per ciò verso tutti, di tutti sospettando, nutre un violento rancoroso rancore.
E' così pieno di sè che potrebbe benissimo non mangiare per un paio di
settimane. Paranoicus pater paranoicus filius.
Sempre a proposito di paranoici, o
di mezzo paranoici c'è anche Alfred I. Rizzichock (la I sta per Idiota), un
elemento più che altro decorativo, un sussurrante di corto respiro al quale
benevolmente consigliamo di stare sempre zitto perché “uno stolto che non parla
è indistinguibile da un savio che tace”.
Ci nuove invece a una benevola
ilarità il buon “John John” (il nome viene ripetuto in quanto balbuziente) “La
Polvere” (in tutte le Sedi c'è sempre un "La Polvere", cambia solo il
patronimico; è un castigo comune, non se ne salva nessuna). Un frenetico
irrisoluto inesibibile allo sportello che invece che favellare emette oscuri
suoni gutturali. Come quando gli uomini avevano la coda.
Sorvoliamo anche noi, come lui
silenziosi, su Augustin Del Crocco, un brav'uomo assai equo, quasi equino.
Attendiamo solo di sentirlo nitrire.
Anche su Totò T.d.C. (TdC sta per
testa di cazzo) Castromontone c'è poco da dire. E' un cretino illuminato da
lampi d'imbecillità. Un uomo greve, dal cogito pesante. Solo i suoi pensieri
hanno la levità dell'inconsistenza. Fa
anche lui il sindacalista ma non capisce niente di niente. Non si sa bene quel
che vuole, ma lo vuole fortemente. Poi qualcuno lo informa.
La mano di uno scrittore di
maggior caratura e non la modesta nostra meriterebbe l'abominevole figura di Julius Rosenberg.
Tragediatore, delatore, calunniatore, invidioso, incompetente e fellone; la sua
bocca - viene detto - è uno sgangherato cassonetto d'immondizie.
Alt!, stop, miei cortesi lettori.
Per favore fermatevi. Almeno questa volta permetteteci di dissociarci dalla Vox
Dei. Sì, è vero: la bocca di Julius è uno sgangherato cassonetto d'immondizie,
ma come suol dirsi è dal letame che nascono i fiori. Grazie a lui l'antico
fescennino assume vesti artistiche; la volgare invettiva diviene salace
inventiva, e la contumelia, senza che nulla perda in mordente, indossa -
vivalei! - i panni della poesia. Ad insultare beceramente il prossimo siamo
capaci tutti. Ma Julius Rosemberg - lingua velenosa in bocca epigrammatica - ha
qualcosa che gli altri non hanno: possiede il genio dell'improvvisazione, il
colpo del fuoriclasse!
Insigne caricaturista verbale,
ispirato maldicente sempre pronto alla battutaccia. Il sentirlo parlare ci
rammenta quel che l'umorista Marcello Marchesi ebbe a dire una volta a
proposito d'una lingua come la sua, e cioé che essa è “l'unico strumento da
taglio che con l'uso anziché spuntarsi s'affila”.
Desolati ed esausti, nulla diremo
né di Peppino Vetril, detto
“la-dentiera-che-uccide”, un falso idiota pieno di livido livore e per di più
fanatico interista, né dei suoi compagni di reparto, i tra di loro emuli Vincent
Malanasca e Thomas Karachorum, tipi rozzi e brutali che s'appagano a sfogar la
loro violenza sparlando i colleghi e sparando ai conigli
Di Agnolo Taylor, miles gloriorus
di non se sapet quid cosam, diremo solo, per marchiarlo d'indelebile infamia
più di quanto non potrebbesi con cento parole, che è anche lui di Riesi, e che
non ne tradisce il concetto. Riesi, la nuova Babilonia.
L'Arca che paziente ci porta è un
caravanserraglio carico delle più diverse e disparate speci faunistiche. C'è
anche l'Agnellone. Un bozzone di dura cotenna che anziché tòllere peccata mundi
ve ne porta di suoi, che in gran parte afferiscono a una situazione
economico-finanziaria poco commendevole e ad una lentezza a ripianare che oltre
che essere poco commendevole è inusuale in chi per mestiere alla clientela
dovrebbe innanzitutto raccomandare puntualità e correttezza.
Sicuramente un capitolo a parte
merita, per le sue insuperate qualità di bulldozer del credito facile,
attivamente e fattivamente coniugate a un temperamento arruffone, facilone e
operosamente approssimativo, il procuratore Totuccio Cattivastrada.
La buona amministrazione gli era
familiare come l'onestà può esserlo ad un socialista, la castigatezza gli era
consona quanto la prudenza a una battona e la precisione, infine, a volerci
fermare qua e tralasciare il resto, come la carità a un ebreo. Era un
garibaldino del soccorso creditizio, un avanguardista della gratuita
elargizione, il Luigi Pasteur dell'assistenza monetaria. Tutti ne hanno tratto
fecondo sollievo: geometri disoccupati, camionisti senza camion, ragionieri che
non ragionano, artigiani senza clienti, inaffaticate donne di fatica, ex
prostitute in disarmo, imprese indebitate fino al collo, viti storte,
pensionati “con qualche problemino”, commercianti in contenzioso con le altre
banche. Pignorati, precettati, cassintegrati, falliti, tutti, venivano tutti da
lui gratificati con fidi, prestiti e sovvenzioni fiduciarie. Né uno solo di
essi, onestamente, può lamentarsi d'essere stato, nel prosieguo ed in presenza
delle inadempienze più evidenti, da lui in qualche modo molestato.
Di ciò egli non ha mai costumato
d'occuparsi. Iniziando, coerentemente, con i suoi stessi debiti, da lui assunti
in proprio nei confronti del suo prodigo datore di lavoro, che, giova sempre
ripeterlo, di mestiere eroga credito. L'entità del suo impagato farebbe
arrossire, nella proporzione, finanche un bancarottiere d'assalto.
La sua credibilità, nel merito, è
al livello di quella d'un venditore di tappeti levantino. La sua insensibilità,
o impermeabilità al sollecito, ha disarmato perfino quel vice direttore che più
sopra a lungo lodammo, e definimmo per come tratta le pratiche di questo
genere, “martello degli eretici”.
Le performances del Totuccio,
olimpionico della dissennatezza, recordman dell'irresponsabilità, reiterate,
dopo i folgoranti esordi campofranchesi, ogni volta con maggiore estro e con
sempre più insistito vigore su palcoscenici sempre maggiori (a Riesi, in Sede e
poi alla Uno) hanno rimpolpato gli organici dell'Ufficio Contenzioso, ove si
sta ancora cercando d'inventariare i danni ch'egli ha prodotto, così come, dopo
i terremoti, si cercano le vittime sotto le macerie. Per non dire degli
sbilanci su tutti i buoni fruttiferi di questo mondo, su tutte le partite
esistenti e non più esistenti, sui quali, attesa l'impossibilità a districarli,
la Contabilità Generale, il Ssit e financo il Servizio Ispettorato infine hanno
gettato la consunta spugna. E ogni altra nefandezza.
Finché (trovavasi allora alla Uno)
un giorno non saltò.
Prontamente sollevato - giacché se
ne scoprirono le magagne - si pose il problema di che cosa farne, siccome in
questo nostro Bel Paese dei Berlusconi, dei Pannella, degli Sgarbi, dei Maiolo
e dei Taormina i furfanti non li si arresta nemmeno in flagranza di reato.
Figuriamoci un povero onesto lavoratore, per giunta procuratore! Smorzare,
troncare, sopire, avrebbe suggerito il conte zio di Manzoniana memoria.
Di licenziarlo nemmeno a parlarne:
“Il collega era un triplicista”. Ma a Caltanissetta non poteva più restare.
L'incompatibilità ambientale era forte, e sarebbe perdurata a lungo. Per cui si
decise di trasferirlo alla Sede di Agrigento, con quarantaquattro Sedi (senza
contare quelle estere) che abbiamo!
Ad Agrigento, nella sua città di
domicilio e di residenza ove era (ed è) proprietario di un'impagata casa; dove
vivevano e lo attendevano moglie e figlie. Così ci si accordò, con buona pace
di don Vito (don Vito sarebbe il maestro Petralia, il Capobaracca d'allora,
vedi alla voce), e sua lieta soddisfazione, perché finalmente se lo levava di
torno, dopo che in ragione del fattore della responsabilità oggettiva, per non
aver saputo metterlo in condizione di non nuocere, a lungo aveva tremato. Anziché limitarsi, invece di limitarsi - don
Vito - alle giaculatorie, invece di pregare - don Vito - i suoi sottoposti (che
mancanza di dignità e di senso del governo!),
intendiamo i sottoposti del sottoposto,
“che glie lo tenessero d'occhio”, “che non lo perdessero di vista”, “che
spiassero quel che combinava”, e che lo tenessero costantemente informato,
“senza ovviamente farglielo capire”.
Ma non finisce qua. Udite gente,
udite. Il nostro procuratore, il nostro eroe, così torna finalmente a casa, ma
anche lì, ad Agrigento, si ravvisa che non è proprio il caso d'affidargli un
Ufficio. Ma qualcosa bisognava fargliela fare, dovevano inventare qualcosa.
A cosa vanno a pensare? Udite brava gente, udite. Generale senza
esercito, cavaliere solitario, gli affidano la Vigilanza e i Controlli. Cioè lo inquadrano come membro di Direzione,
e gli danno il perenne incarico d'andar girando per uffici e per agenzie a
verificare fatte, malefatte e omissioni. L'uomo giusto al posto giusto,
diamine!
Come affidare al conte Dracula la
presidenza dell'AVIS. Senza dire che questa particolare posizione gli consente
cospicuissime (e legittime) entrate straordinarie, potendo egli muoversi senza
parsimonia e come più gli attalenta per tutte le innumerevoli agenzie
dell'Agrigentino. Isole comprese.
Ci accingiamo a chiudere, ma il
buon lettore non disperi. La situazione è tragica ma non è seria. Lo garantiamo
noi che in questa superba arca vi prestammo oscura opera di manovalanza
quand'eravamo giovani mozzi e, quasi quali novelli Ulisse, vi siamo ora
tornati. Ci muove ancora a sgomento il ricordo di certi personaggi che, sì, la
maggior parte di loro ora col nostro lavoro nutriamo d'una facile provvidenza,
ma che per fortuna più non vediamo. O che, se li incontriamo, facciamo finta di
non vederli.
Il lettore che non ebbe la ventura
di conoscerli voglia crederci per fede, ma chi li conobbe e sopratutto li vide
all'opera non potrà non convenire che, nel confronto, è come se fossimo passati
dall'età del bronzo a quella dell'oro.
Chi non ricorda per esempio
Donnìnnero Blàtero, poche idee ma definitive, l'inazione eletta a sistema,
l'indifferenza al dovere assunta a regola esistenziale. Il far nulla elevato a
plateale ostentazione di vita. Brutto
come un cammello, il viso somigliante a quello d’uno struzzo, pare tuttavia che
sul suo letto - a conferma di quel che sosteneva P.R. Forrestal - sia salita
ogni sorta di femmina, anche quelle con più puzza sotto il naso, anche quelle
di più ardita prosopopea.
O Totò Lo Smilzo, anche lui di Riesi. Livido ed
indiscusso campione nello sport (a diffusione nazionale) dello sputo nel piatto
(dove per troppi anni ha lautamente mangiato). Gli usciva tanto
di quel veleno che era seriamente da paventare che se uno schizzo del suo
micidiale sputo fosse andato malauguratamente a finire nel pane che produceva
(e che nelle ore di lavoro andava in bottega a pesare e a vendere) il
malcapitato che ci avesse messo l'ignaro dente sarebbe morto tra atroci
convulsioni.
O Odilio Scazzettoni, detto Yoghi.
Scarpe grosse e cervello più grosso ancora. Greve e ottuso come
un ippopotamo; verbosi e inconcludenti come lui Madre Natura, stremata dalle
mille e mille sue improvvide gravidanze, non ne ha mai prodotti.
O Bitto’ Il Tignoso, detto il
Cacadubbi. Teste lucide come la sua non se ne vedranno più! Una ne pensava e cento ne faceva. Il suo
ampio testone, visibilmente portato più al coito che al cogito, era una gioiosa
macchina da guerra perennemente armata contro logica, buon senso e
intelligenza, e mai purtroppo era sfiorata - la natura a volte è crudele,
l'operosità ai savi spesso la toglie e agli imbecilli sempre la da - da quella
durevole abitudine all'inattività che tanti altri nel frattempo
attanagliava. Di massiccia presunzione e
di invalicabile ignoranza, egli soffriva oltremodo la censura, e le cesure, che
delle sue affaticate lettere faceva, ogni volta che ne scriveva una, quel Vice
Direttore Preposto Alla Qualunque che per indole a ciò è sempre assai disposto
e che il nostro paziente lettore già conosce. Ne faceva una malattia il buon
Bittò, che riguadagnato il suo Ufficio levava al soffitto alte strida e
accorati lamenti, mai una volta sfiorato
da dubbi grammaticali di sorta, o che avesse sospetto di non aver centrato il
problema. Così era: sempre
graniticamente convinto di sapere, sempre graniticamente convinto di meritare.
Ne è un esempio ciò che combinò in occasione della festicciola per il suo
commiato, quando, solare di grandiosa imbecillità e lunare per l'incapacità a
comprendere la misura delle cose, si peritò di ispirare, lui stesso, ai
colleghi dell'Ufficio il regalo che, come da prassi, questi s'apprestavano a
fargli. Uno alla volta, presili tutti e cinque sotto il braccio, comunicò ad
ognuno di loro che s'attendeva, come regalo sicuramente gradito ad entrambe le
parti, giacché il regalo doveva piacere anche a chi lo faceva, non meno che una
motozappa, "anzi, quì ho un illustrato con prezzo, caratteristiche e
tutto; e ho pensato che di colore rosso andrebbe bene... ". Solo che la
motozappa in questione, una Massey Fergusson, con buona pace del buon Bittò, Cincinnato
da strapazzo, accattone da quattro soldi, costava qualcosa come quattro milioni
e mezzo. Quasi un milione a testa secco.
Le ragazze se la cavarono con un frullatore ...
O come non ricordare Giovanni
Maria Frick, per tutti i diavoli! L'Everardo Della Noce di quei tempi! Più giulivo delle allegre comari di Windsor,
era capace di tenere un segreto meno che una larga maglia le acque d'un
impetuoso torrente. Ciò nonostante era capo ufficio Segreteria, che era come
affidare ad Erode la direzione del Gaslini di Genova. Le notizie più riservate
a mezzo suo si propagavano con una velocità maggiore di quella del suono.
Starlo a sentire era uno spettacolo: affabulatore inesausto e suggestivo, mimo
geniale, commentatore estroverso, della notizia più insignificante, purché
fosse riservata, sapeva fare un intrattenimento sublime. Era un teatrante nato
e la platea lo esaltava.
Ricordiamo ancora i quattro
dell'Ave Maria. Miki Zamber, Giovacchino Mexico, Joseph Bizantino e TIberio
Testaquadra detto Lavastrada per quanto sputazzava nel mentre che parlava.
Quattro con l'intelligenza di un’ameba, la cultura di un vegetale, l'appetito
di quattro squali. Tutti e quattro provvisti appena di licenza elementare,
nell'aspetto fisico avevano molto del bifolco rivestito. L'ultimo dei quattro
era un idiota frenetico, logorroico irrefrenabile. Imbecille giulivo. Portava
gli occhiali da vista ma non è dato di sapere dove mai se li fosse fottuti gli
occhi, potendosi per principio escludere che ciò potesse essere avvenuto per l'effetto
di letture. Gli altri tre si detestavano cordialmente tra di loro per, uniti,
cordialmente detestare il lavoro. Essendo abbastanza avanti con gli anni
avevano il malvezzo di lagnarsi dello sportello, ognuno adducendo ognora la
mortale fatica del dover star sugli stanchi piedi e palesemente ambendo ad una
sdraio e ad una comoda sinecura giù nel caveau. Era una lotta mortale,
combattuta senza un attimo di tregua a colpi di certificati medici. Ma quando
si ventilava l'ipotesi d'una missione in provincia, con quel che di buono ciò
gli portava, di colpo diventavano vispi e arzilli come grilli, e come
miracolati prendevano a battersi per arrivare primi al buon Pardo, il loro
capo, un buon uomo, che quanto a ferocia somigliava, più che al felino del
quale indegnamente portava il nome, a un gattino appena nato.
Orrore, orrore! Ci passano davanti
gli occhi della memoria due tangheri il cui operare naturale sarebbe stato il
tagliar pietre in un campo di lavoro per ergastolani, altro che lavorare in
banca! Tano Cariddi, l'odio fattosi
Verbo, il viso del colore del veleno, e quell'animale dell'Armandone
Trippettone, un bestione senza cervello fatto a sembiante di cinghiale, dalla
cui bocca mai nulla uscì che non fosse una roboante bestemmia o un becero
insulto.
Siamo annichiliti; stavamo
riprendendoci quando ci abbatte l'insostenibile memoria del dottor (?, ma ci
teneva) Archimede Giarabub. L'unico funzionario (sì, in vecchiaia, a forza di
strabuzzare gli occhi era diventato tale) capace di suscitare, la prima volta
che fu preposto ad un Ufficio (si trattava della Cassa Regionale), un
ammutinamento a regola d'arte, con raccolta di firme, delegazione d'impiegati
dal Gran Khan e (sacrosanto suo) sollevamento. Un flemmatico frenetico, un
formalista pedante e insopportabile, il Torquemada della rottura dei coglioni,
un imbecille dalla lezione mandata a memoria che non valeva l'ossigeno che
consumava. Recordman mondiale della marcia indietro, si dà contezza che a forza
di rinculare abbia percorso all'incirca un paio di migliaia di chilometri,
qualcosa come la distanza che corre tra Agrigento e Copenaghen. Aveva la
costante abitudine, il buon Tanino, di accomiatarsi dal Supremo Cospetto
procedendo a ritroso, sì da non apparecchiare al Super-Mega-Maxi Direttore nel
percorso che ne separava la scrivania dall'uscio le proprie assai avvizzite
terga. Aveva raggiunto, nell'arte del rinculo, una perizia da virtuoso; lo si
poteva chiamare, a buon ragione, il Nurayev della marcia a ritroso. Mai un
deragliamento, mai un inciampo, mai un urto, mai un piccolo incidente o una
fioriera rovesciata. Ringraziando, ossequiando, strabuzzando gli occhi,
inchinandosi fin quasi a sfiorare la genuflessione e gloriosamente retrocedendo
avanzò fino all'immeritato grado di funzionario.
Sorvoleremo invece su Ostilio Pi,
un uomo dalla fronte inutilmente spaziosa, detto l'Eterna Nullità. E sul così detto professore Sardina, uno che,
dato il nome, in padella ci avrebbe fatto una migliore figura e probabilmente
sarebbe stato più utile. Così come su Vincenzuccio Canavacciuolo Abbracciavento
Cantalamessa (Dio, quanti cognomi per un uomo solo e nemmeno intero!), detto
NonvedoNonsentoNonparlo. Esserci o non esserci era esattamente la stessa cosa.
Di lui di particolare si ricorda solo il sussulto che ebbe il giorno che gli
comunicarono che, in forza della congrua anzianità e in virtù di scellerati
accordi sindacali, era entrato in quota venticinque, cioè era stato fatto
funzionario. Fu tanto lo spavento che, impetrato il consenso della moglie e
delle figlie, l'indomani si dimise.
Dello zio Lillì qualcosa abbiamo
detto parlando di Giuseppe P., ma non che era chiamato Iena Ridens. Perché
quando pensava si metteva a camminare in circolo, digrigando - probabilmente
per lo sforzo del cogito - i denti. Così che anche lui, digrignando e girando
oggi, digrignando e girando domani, riuscì ad andare in pensione da
funzionario.
La musa benevolmente ci soccorra,
vorremmo trattare - quì giunti - dei due sindacalisti e dei due vicedirettori.
Due coppie di così ineguali malassortiti non la vedremo mai più. I due
sindacalisti di cognome facevano uno Coniglio e l’altro Saitta, come dire il
trombone di Frà Diavolo e il pugnale del Valentino. Il primo, il Coniglione,
era un onesto arruffone, nemmeno tanto agguerrito se è vero che qualche volta
persino lavorò. Ben diverso, assai diverso, era l'altro, il Saittone
scellerato. Una lama nel buio, un micidiale velenosissimo crotalo dal morso
letale che per regola aveva il motto "chi non è con me è contro di
me" e che incuteva soggezione persino ai Direttori. Il lavoro non ha mai
saputo cosa fosse, s'era fatta riservare al primo piano una stanza tutta per sé
(la c.d. camera oscura), dove, le poche volte che veniva, sicofanti, protetti,
delatori e aspiranti tali facevano la fila per baciargli la pantofola, mentre
gli onesti si interrogavano preoccupati e quelli dell'altra sigla (lui era
della CGIL) tremavano. Era un ben riuscito mix tra il cardinale Richelieu, il
commissario del popolo compagno Viszinskij - quello che negli anni venti dirigeva
la Ghepeù, quello, per intenderci, del colpo alla nuca - e il venerabile
materassaio di Arezzo, e come questi pare che abbia accumulato impunità e
notevolissime fortune. Questo per quanto riguardava i tutori dei lavoratori.
Andando invece ai tutori
dell'Azienda dovremo sollevare il velo dell'oblio dai VV.DD. Grott’in aria e
Canascus. Il primo era chiamato, per antitesi caratteriale, Riccardo Cuor di
Leone perché era pavido come un coniglio. Dispensava credito, ma meglio diremmo
se dicessimo che si limitava a prendere nota delle richieste degli avventori
(la cosa non scandalizzi, il malvezzo dura tuttora ed è più diffuso di quanto
non si creda). Era debole e irrisoluto, incapace di prender la parola in
pubblico, camminava in punta di piedi e non aveva l'animo nemmeno di farsi
pagare i carnet d'assegni, che allora non erano gratis come adesso. Il suo
omologo, il dottor Canascus, invece era del tutto diverso da lui. Questi
fungeva da prefetto del Pretorio e da guardiano del faro. Era la vestale della
moralità aziendale, il Gran Visir del Dio Padrone, l'inflessibile Gran
Sacerdote custode delle sacre tavole di Mosé. Era un incrocio tra il
revendissimo padre Jorge de "Il nome della rosa", un mandarino
cinese, al quale anche somigliava nell'aspetto fisico, e un astrologo
cartomante, del quale aveva il modo criptico di parlare. Ritenendosi
depositario di segreti di Stato aveva il vezzo di esprimersi per sillogismi, o
per simboli, sempre alludendo, sempre sopendo, sempre troncando le frasi,
sempre con quel fare misterioso che sta tra il dire e il non dire. Nessuno
capiva che cazzo volesse dire, ma nessuno aveva il coraggio di chiedergli di
farsi più chiaro. E tutto ciò accresceva la sua importanza e con ciò il timore
di lui.
Sorvoliamo su Galeazzo Simmenthal,
su Paolo Le Tournier e su Totò Master Piriddus in quanto tre incoercibili
campioni del far niente, tre autentici flagelli per chi doveva in qualche modo
amministrarli, tre spine nel fianco per chi avesse la temerarietà di chiedergli
qualcosa. In particolare il terzo di essi, il Piriddus, del suo menefreghismo
ostentò sempre superbo orgoglio traendone quotidiano motivo di grande vanto,
oltre che (con la presidenza del CRAL) concrete e durevoli ragioni di materiale
profitto. Di incoercibili campioni del far niente i corridoi del Banco sono e
sono sempre stati pieni, questa stessa stringata sintesi ne brulica. Ma questi
tre in più avevano, - come dire? -, avevano il marchio di qualità. Nel loro
campo erano dei fuoriclasse. Fuoriclasse dell'arroganza del non dover dare
niente. Fuoriclasse dell'attenta permalosità del loro privilegio. Come i nobili
spagnoli di Filippo II° sarebbero stati capaci di uccidere se solo si fosse
messa in dubbio la loro estraneità al lavoro.
Volendo chiudere in allegria
chiuderemo con Gasparino De los Uteros. Mai cognome fu così appropriato. Tardo
negli anni e brutto come la fame, si dedicò sempre con gran profitto
all'attività di gran gaudente, di intemerato crapulone e di emerito puttaniere,
mietendo allori a profusione. Aveva un fatto personale col lavoro ma volle
andare a fare il preposto all'Agenzia Uno, che allora come adesso si trovava in
viale Trieste, ma che allora, diversamente che adesso, era sita circa duecento
metri più avanti. Sicché veniva a trovarsi esattamente di fronte all'Istituto
Magistrale. Il buon Gasparino consumò, a forza di starvi appoggiato, i due
stipiti della porta della sua banca, e dopo di essi la cantonera che dava, e
tuttora dà, sulla via Piave. Dalle otto di mattina alle due del pomeriggio, per
sei ore di fila al giorno, tutti i giorni da ottobre a giugno, da lì mai si
tolse. Spogliandole con gli occhi, che fossero acerbe ragazzine o fanciulle in
fiore, mentre sognava di farlo con le mani, e qualche volta pare che si sia
mostrato loro vestito solo di impermeabile e stivali. Poi spossato se ne andava
a casa a mangiare e a dormire. Per ritornare in ufficio, e questa volta starvi
dentro, alle diciassette, quando tutti gli altri andavano via. E dove
finalmente, raggiunta la pace dei sensi, si metteva ad accudire ai suoi
compiti, diciamo così, istituzionali. Siamo persuasi che ne avrebbe fatto
volentieri a meno, ma il buon Gasparino fesso non era e a diventar funzionario
ci teneva proprio. Per cui - quando si dice il genio! - volse a profitto la
disgrazia che proprio sopra di lui, nello stesso palazzo, al primo piano, ci
abitava, con la sua famiglia, il Direttore
- il dottor Fofò Piccolagamba, per la storia - proprio quello che quella tanto sospirata
promozione poteva dargliela o ancora negargliela. Il quale ogni sera, tornando
a casa, si compiaceva di vedere il povero Gasparino curvo sul lavoro come il
piccolo scrivano fiorentino. Il quale era orbo come una talpa (il guardar tutte
quelle ragazze alla fine gli aveva sciupato la vista) ma aveva l'udito di un setter.
Appena il Signor Direttore si chiudeva alle spalle la porta di casa, lui in un
attimo sbaraccava tutto e filava via come un siluro. Il suo era un piano ben
congegnato, ma commise un errore. Fù quando gli capitò, all'agenzia, un
ispettore. Un ispettore è sempre un castigo di Dio, nei casi migliori è un
ospite scomodo. Quel buontempone di Gasparino de los Uteros cosa gli fa? In
quattro e quattr'otto gli organizza un festino con delle compiacenti troie, una
sorta di balletto rosa tutto in suo onore. Non l'avrà fatto per captatio
benevolentiae, l'avrà fatto perché ogni otre da il vino che ha. Fatto sta che
l'ispettore che per disgrazia era un ispettore integerrimo e moralista
s'indignò, non solo prese cappello e se ne andò ma pretese pure di farlo
licenziare per "indegnità" (così recitava l'atto di accusa). La cosa
fu insabbiata, erano altri tempi. Ma ancora oggi, se nel frattempo non avesse
tirato le cuoia, il buon Gasparino si chiederebbe "che cosa ho fatto di
male?".
Ciò detto è d'uopo finire. Finiamo
ritornando di nuovo al vertice. Ma per parlare del Capociurma che c'era prima.
Di mastro Vito Petralia, "Vituzzu" per i numerosi amici, il quale
adesso, grazie a Dio clemente e misericordioso, è anche lui in pensione. Di
questa parodia di Direttore, risibile per l'aspetto fisico da scaramachai
(quando ci si eleva a certe altezze è necessario avere, se non si è dei
Bonaparte, almeno le phisìque du ròle). Di questo miserabile
accattone di consensi, di questo sudicio politicante da quattro soldi, di
questo omuncolo bugiardo e teatrante che invece di onorare il pingue stipendio
quantomeno con una queta inattività si dimenava, e tutt'ora
si dimena, a far bassa politica, cercando prebende, trovando favori per sé, per
la sua degna figlioccia (che, per tener fede al principio che si educa col
cattivo esempio, regolarmente andava e veniva per Trapani con macchina, benzina
e autista del Banco) e per i suoi accoliti, corte di nani e di paralitici,
trasformando la sua grande stanza, che pur ne ha sentite di tutti gli odori, in
un sordido suburbio, e la sua sine-cura al piano di sopra in un affollato
parcheggio di affamati clientuli e di sguaiati portaborse. Foraggiò
e protesse personaggi squalificati e squalificanti, che favorì nella carriera a
discapito dei migliori, e ai quali consentì, nei suoi riguardi, anche
invereconde familiarizzazioni. Non ne citiamo i nomi perché
l'indignazione ci appesantisce la mano e ci impedisce
quella levità espressiva cui ambiamo, ma questi ruffiani, questi sicofanti suoi
amici sono quelli di cui abbiamo detto il peggio, e che, ansiosi di
malenotizie, con segreta e settimanale puntualità tuttora si cercano. Se è
vero ciò che disse Jeeves de Woodehouse e cioè che i padroni si giudicano dai
servitori ciò dovrebbe bastare. Ma non ci basta. Non possiamo tacere che a
costoro egli consentiva laute prebende, scandalose sinecure e durevole accesso
alle notizie più riservate. L'indignazione degli onesti ci pervade, l'abnormità
del fatto ci lascia sgomenti, ma non possiamo
non dire che egli fece di quel tonante e maleodorante sfintere che era, che è,
Julius Rosenberg (vedi alla voce) il Gran Minosse delle note di qualifica,
quello che "orribilmente ringhia, essamina le colpe nell'entrata; giudica
e manda secondo ch'avvinghia". Del che il buon Giulietto, menando gran
vanto, fece il più vile mercato. Forse sarebbe stato più sicuro, ai fini della
loro castità, affidare un tralcio di candidi seminaristi alle cure della
marchesa di Mertèuil.
Mastro Vito, un uomo senza qualità
che ha sempre fatto politica attiva nel partito di maggioranza relativa che per
cinquant'anni ha depredato l'Italia, e che pertanto per indole e per costume
era un politicante dai piedi alla non lontana testa, viveva, respirava e si
nutriva di favoritismi e di sottopotere, arrivando anche là dove mai avremmo
pensato che si potesse giungere. Narrano difatti che alla immediata vigilia
delle elezioni politiche del '92 abbia preteso di riunire in un albergo
cittadino (salvo poi a ripeter tutti i giorni la lezione nel suo ufficio) tutti
i funzionari, i preposti della città e della provincia e gli impiegati più in
vista di ogni dove, e, presente e accolto in gran pompa l'interessato, salìto
su una sedia, egli, il nostro, li abbia a lungo e ardentemente concionati
invitandoli con blandizie, promesse e velate minacce a votare e a far votare il
fraterno amico, anzi il fratello suo di cuore e di fede Culicchia, candidato
alla Camera nel gran collegio della Sicilia occidentale. L'appassionata pèrora,
infarcita di commoventi accenti, toccò il suo acme quando, nell'enfasi
oratoria, ebbe a dire anche che "chi diceva Petralia diceva Culicchia e
chi diceva Culicchia diceva Petralia", e "che erano come due
fratelli", giacché quando il nostro faceva il sindaco, - lo fece per
vent'anni, a Partanna, nel trapanese, paese che gli diede gli oscuri natali -
"fratello Vito (anche il Culicchia faceva di nome Vito) era quello che
mi tirava le volate, e ora la stessa
cosa, io, voi, noi tutti, dobbiamo farla con lui, farla per lui, farla per
tutti noi". Pensavamo che a tanto si fosse arrivati fino alla Sicilcassa e
che in Sicilia almeno il Banco, per un residuo della sua antica dignità di
Istituto di emissione, di queste ignobili pratiche si fosse più o meno sempre
preservato, ma pazienza! In fondo sono gli uomini che fanno le istituzioni.
Banco di sé e per sé è una parola vuota, che noi riempiamo con i nostri
atteggiamenti, con la nostra cultura, con le nostre capacità, con le nostre
impunità. Allora vuol dire che il Banco era quello. Poi vennero la caduta del
muro di Berlino e, da esso, per fortuna il ciclone Tangentopoli. Che spazzò via
quel maledetto gruppo di potere che di tutto era capace e che di tutto era
diventato la cancrena mortale. Denunce e mandati di cattura a non finire,
carcerazioni preventive a proposito e a sproposito, fughe in massa, e persino
qualche suicidio. Un quarantotto! Sembrava proprio che tutto stesse cambiando.
In tutto questo trambusto anche fratel Culicchia ci rimise le penne. Non solo
fu trombato alle elezioni ma fu anche indagato di reati gravissimi e arrestato.
Noi italiani così come siamo sempre pronti a prostrarci elasticamente dinanzi
ai potenti altrettanto lo siamo nel fare i maramaldi quando da costoro, caduti
in disgrazia, nulla abbiamo più da temere o da sperare (che è la medesima cosa).
Per cui ci fù qualche bello spirito che, appunto nulla avendo da temere o da
sperare dall'uno e dall'altro dei due Viti, facendo il tonto e alludendo alla
galera, andò a dire al nostro prode direttore "Direttore, ha notizie
dell'onorevole Culicchia?....". Al che il vispo Vituzzo saltando come un
grillo invariabilmente faceva lo gnorri spergiurando di nulla sapere,
"conoscendo costui solo di nome e
per aver letto, come tutti, qualcosa sul Giornale di Sicilia". Sic transit gloria mundi!
Vituzzu poi andò a far danni ad
Agrigento, fino a quando la carta d'identità non lo mise finalmente fuori
gioco. Noi non lo conoscevamo, avendolo per fortuna scansato.
Non aborriamo l'homo politicus,
che se è grande e capace (anche in negativo, sì anche in negativo) ammiriamo
anche al di là delle personali vedute. Chi disprezziamo è il piccolo
politicante di basso bordo, il ladro mistificato.
L'impavido Vituzzu, trapanese e
pensionato, noi e i nostri colleghi ce lo vedemmo apparire un paio di volte in
banca nello scorso mese di giugno, alla vigilia delle elezioni regionali.
Ipercinetico, paternalistico e baciatore come prima e più di prima. Stavolta
tirava la corsa al figlio di Nino Ciceruacchio. Giacché questi, il Ciceruacchio
padre, essendo stato messo per cause politiche in galera, per ragioni
d'opportunità s'era dovuto fare un po' da parte, per cui aveva messo in pista,
al suo posto, il rampollo. Cui aveva prestato tutto il sordido apparato
clientelare e delinquenziale che, nei suoi tempi d'oro, s'era costruito. Tra cui,
imperterrito, il nostro.
Ahinoi! Francia o Spagna, purché
se magna.
Luglio 1996
Appendici
Appendice numero uno:
Sergiuzzu N.
Sergio N. è un tipo
molto particolare, e io i tipi particolari mi diverto un mondo a descriverli.
M'accingo a tracciartene un breve ritratto anche se è già passata la mezzanotte
e dovrei andare a dormire. Sergio, che io conosco bene e che
affettuosamente chiamo Sergiuzzu è l'essere più impermeabile, estraneo,
tetragono nel senso di passivamente resistente, e refrattario (all'ambiente
bancario) che possa non soltanto esistere ma anche immaginarsi. È, nel
senso grammaticalmente più pertinente del significato del termine, un imbelle (cioè un “non bellicoso”), o se si preferisce (sempre nel
rispetto più pieno della semantica), un imbecille (cioè, etimologicamente, un
"sine bascula" cioè senza quei due cosi che pendono). Sergio è come
se fosse rivestito di piume d'oca: il Banco (non dico il lavoro, dico il Banco,
il Banco come entità suprema) gli passa sopra ma non lo bagna. Egli è estraneo
a ciò che lo circonda, fisicamente è presente, anzi è di una lodevole
assiduità, ma spiritualmente risulta assente a tutto e
a tutti: non esiste, non parla, non geme, non fiata, non fa niente. Il Banco è
pieno di gente che non lavora, ma si tratta nella piena totalità dei casi di
gente che sollecita, pretende, respinge, mostra i pugni, urla e fa rumore.
Invece Sergiuzzu niente: est impalpabilis atque incorporeus; è inodore,
insapore e incolore. E’ silenziosissimo, educatissimo e riguardosissimo; non
dice mai di no, non attacca, non si difende, non si espone, ed esattamente come
al camaleonte gli riesce di passare inosservato a
tutti. Così come era riuscito a farci capire (e non
sono nemmeno certo che si sia trattato d’un fatto voluto, che abbia voluto con
ciò attuare una strategia lucidamente evasiva) che su di lui non si ci può fare
affidamento perché “con la testa non c'è”, anche perché non lo puoi nemmeno
rimproverare giacché non si difende, non ribatte, e rimproverare uno che non si
difende e non ribatte non è facile. E pare (mi riferisco a quel che avevo modo
di osservare nel nostro comune ambito, giacché purtroppo non possiedo posti di osservazione estranei al comune ambiente di lavoro) che
non ci sia umiliazione che lo permei: per la sua natura mite e per la sua
incapacità a difendersi più d'una volta è stato sacrificato come capro
espiatorio per salvare colleghi più difficili da gestire; più volte le sue
mansioni sono state ridotte o abbassate. E mai che egli si sia
lamentato, e quando (dato che come ti dicevo lo chiamo Sergiuzzu e
sempiternemente m’affligge il complesso di consolatore degli afflitti) l'ho
sollecitato a farlo mi ha dissuaso facendomi intendere che me ne stavo
prendendo pena per niente, perché per lui andava bene in quel modo e in tutti i
modi che si volesse, "perché il Banco mi paga e io faccio quel che i
superiori mi dicono di fare".
E non è nemmeno
giusto che risponda così perché per gli anni di servizio che ha accumulato
(credo che ormai debbano essere non meno di venti) e per il grado che (grazie
ai nefasti automatismi di carriera imposti dal tragico sindacalismo ex
sessantottino) ha maturato (trovasi al grado massimo della carriera
impiegatizia) egli dovrebbe saper fare molte più cose che non scaldare con
l’ossuto culo e in perenne silenzio una magra sedia.
Se qualcosa di facile fa, la fa copiandola "sine spirito critico" da
un fac-simile del quale si è provveduto, o compulsando degli appunti, comunque sfuggendo ogni occasione nella quale debba
assumersi l’onere di una scelta.
Tuttavia sotto
dev'esserci qualcosa di più profondo, e di insondabile.
Chissà cosa avrà nell'animo? Chissà quali sogni, o ambiziosi, lo cullano, o
quale oscuro Erebo lo tormenta?
Perché
quotidianamente si fuma una quantità altamente
spaventevole di sigarette e perché (risaputamente perché) egli è un alcolizzato
in stato avanzatissimo di dipendenza dal liquore. La qual cosa non tradisce
perché mai niuno lo vide brillo o alticcio ma l'odore d'Amaro Averna nel suo
alito è pregnante e i raids al bar e il “va-e-vieni”
di bottiglie nel suo armadietto personale impressionante.
E’ da ritenersi che
beva per sopravvivere ad un mondo che gli è estraneo al quale purtroppo è
incatenato e dal quale non può liberarsi.
Sono sensibilità
pertinenti in noi scrittori.
9/6/1996
Appendice numero due:
Don Cocò Farchica
Nell'ambito della
Sede corre la vulgata che, così come a Mosca per i segretari del PCUS, al
Banco, a Caltanissetta, a un direttore buono ne segua
sempre uno cattivo. E viceversa. Lo creda chi lo vuole.
Noi che per prudenza eviteremo d'addentrarci nei meandri del Cremlino
non possiamo esimerci dal rappresentare che per quel che riguarda il nostro
àmbito la voce è tutt'altro che infondata, e se in queste modeste pagine, noi,
dopo avere trattato di Petralia (mastro Vituzzu, il culicchiano di latta..., i
lettori di più esercitata memoria forse se ne ricorderanno... ) e del dottor
Perna che con qualche ragione ci piacque paragonare all'elisabettiano sir
Francis Drake, retrospettivamente ci occupassimo del dottor Cocò Farchica, il
teorema di cui sopra ne uscirebbe rinforzato.
Giacché l'ottimo dottor Perna seguì il
pernicioso Petralia e precedette il vaporoso e inutilmente decorativo dottor
Cocò Farchica.
Viaggiava verso i
sessant'anni, graziosamente danzando come una cocotte sotto il cono di luce dei
riflettori il dottor Farchica, quando lo conoscemmo.
Ma ne dimostrava molti di meno, dedicando egli la maggior parte dei suoi sforzi
e delle sue risorse al nobile mestiere dell' "apparire".
Spettinati con cura
e abbondantemente "gellati", i riccioli dei suoi capelli mantenevano
ancora intatto il lucore del nero corvino che gli era stato proprio molti anni prima, e, segno inconfutabile che fesso non era,
adunco e ben radicato era il suo naso. Ma era, in quel naso, la sola parte
solida e ben piantata che ci fosse, perché l’intera
sua figura era invece snella, e saltellante il suo incedere. Il suo portamento
sembrava più quello d'un ballerino di flamenco che quello di un uomo che il
destino avesse portato alla lettura dei noiosi bilanci
aziendali e alla ponderata misura della maggiore o minore affidabilità degli
uomini.
No, di tutto questo
nulla lo interessava. Con insistita pertinacia la sue ben remunerate attività
si limitarono alla decorazione di se stesso e, tramite,
se stesso, dell'ambito che lo circondava. Con talune interessanti variabili.
Una di questa
consisteva nello starsene nel suo ufficio, dietro la sua ampia scrivania, sopra
quella poltrona che, nei lunghi anni
trascorsi, glutei ben più degni e poderosi dei
suoi aveva sostenuto, a giocare, col computer, ai giochi elettronici.
Un’altra era quella
di starsene a girare, colle mani in tasca e il naso all’aria per i lunghi
corridoi del primo piano, quelli contigui al suo ufficio, stando sempre attento
a non fermarsi mai troppo a lungo in nessun posto, in specie in quelli dai
quali potevano scaturirgli delle grane; compensava questo eccesso
di volatilità trattenendosi più a lungo e assai più buon grado nei crocicchi di
sole donne presso i quali e con le quali egli dava il meglio (o se lo si
preferisce il peggio) di sé: Perché l’uomo pur se figlio di magistrato e
magistrato mancato (mancato, molto mancato) lui stesso, era un intemerato e
inesauribile barzellettiere, una sorta di Pippo Franco volto al bello (un po’ gli
somigliava) che però conservata alto e forte il culto delle propria immagine e
della sua posizione di figlio di magistrato, che senza ritegno né pudore
metteva sotto il naso di chiunque; esibiva la sopradetta circostanza e quella,
succedanea, che il genitore fosse stato posto in quiescenza col grado di
consigliere di cassazione come se si fosse trattato d’un suo precipuo merito e
non d’una sorta di onerosissimo (per la comunità) benservito che a fine
carriera il consiglio superiore della magistratura, organo di autogoverno dei
giudici, concede a tutti i suoi affiliati, a prescindere dai dal curriculum e
dai meriti.
Venimmo a sapere
invece che lui, molti anni prima, era entrato al Banco dopo essersi estenuato
in una interminata serie di tentativi, tutti falliti,
di vincere il concorso per poter seguire le orme del padre in magistratura, e
che il suo cursus honorum bancario, una volta entrato al Banco di Sicilia,
avesse proceduto dentro i solidi e ben remunerati binari di una militanza
attiva e intemerata nel P.S.I., tanto che nell’ambito della sede dalla quale
proveniva lo chiamavano “il colluso”, in quel P.S.I. craxiano a quell’epoca
fortissimo nell’agrigentino e ammanicato nei più loschi affari.
Non aveva pertanto
di che dannarsi l’anima per la carriera e, di riflesso, per il lavoro. Così che
alle incombenze quotidiana sovrintendeva alla lontana,
un po’, apparentemente (ripeto: apparentemente) come il dottore Perna. Ma senza
l’acume e l’interesse che senza darlo molto a vedere il dottore
Perna ci metteva. Egli invece
adocchiava, orecchiava e firmacchiava, curando sempre di farci sapere
che lui
dei suoi funzionari si fidava talmente che, appunto,
firmava senza leggere.
Era più furbo di
Bertoldo, il gaglioffo! Ci diceva questo per non pagare alcun dazio, talché
quando scoppiava la grana, lui subito chiamava il funzionarie
reo dell’errore e mettendogli in mano la lettera censoria appena
ricevuta, gli diceva “Ma che cazzo mi hai fatto firmare...?!!”
Camminava sull’acqua
senza bagnarsi i piedi, per cui il ricorso al biasimo
e alla maldicenza divennero i bastoni del suo reggersi in piedi nonché del suo
procedere, impudicamente comportandosi come un allenatore di calcio (mi viene
in mente il signor Emiliano Mondonico) che ai giornalisti non faccia che
ripetere: “Ma come posso salvarmi con questi scassacani...?!!!”, e a Palermo
come altrove ci buttava addosso tutte le croci, per non portarne lui alcuna.
Nessuno di noi uscì
indenne dalle sue maldicenze, purché non fossimo così tanto vicini da poterlo
ascoltare. Si trattava quasi sempre di contumelie
gratuite e malamente documentate, anche se cartamente assunse il rango di
calembour quella che pretendeva che quel galantuomo che reggeva l’ufficio
recupero crediti, in verità uno dei più assidui, “ci fosse sempre quando non
serviva e mai invece quando non fosse servito”.
Non uno di noi fu,
infatti, durante la sua titolarità, promosso. Anzi di promozioni e di
gratifiche fu sempre assai avaro.
Possonsi contare
sulle dita della mano di un monco le persone (tutte del rango impiegatizio) che
nei 5 anni della sua titolarità furono promosse.
Furono in tre, uno
lo fece promuovere perché figlio di magistrato perchè
come detto per lui il mondo si divideva in due sole categorie: i figli dei
magistrati e i figli di puttana...
Il secondo lo fu per il fatto che, come lui, era un socialista craxiano, e
nonostante “Mani pulite” e la fuga ad Hammamet di Bettino, era rimasto attivo a
far politica.
Il terzo, anzi la
terza, una tizia chiamata “La vispa Teresa” lo fu perché assai probabilmente
glie la dava.
A cosa poteva mai
ambire uno come me che, politicamente si era buttato a destra, figlio di un
impiegato municipale, maschio e rigidamente eterosessuale.
Per cui molti, i
migliori, profittarono dell’esodo volontario e me ne andarono.
24 sett. 2007
Appendice numero tre:
Nino Sotgiu
Non è maligno Nino,
né cattivo, così come non è infido e neanche mendace. Non è né brutto e né
avaro, non accidioso e neanche rancoroso e vendicativo. Semplicemente Non
è...”, il mio amico Nino.
Nella biografia di
Gilberto Cristante, uno che dice di conoscerlo bene, al suo riguardo si legge:
“Nino Sotgiu, un raffinato dandy, un esteta talmente improduttivo che forse
neanche sopra una ninfomane svenuta dentro a una
stanza chiusa sarebbe capace di porre in uno le sue olezzanti teorie di
decadente seduttore”.
Ma c’è della indubbia cattiveria in queste parole; noi che per
molti anni gli fummo vicini possiamo stimare che se opportunamente rassicurato,
adeguatamente incoraggiato, soccorso da un paio di bicchierini di “cordiale” e
sostenuto, dietro le quinte dalla presenza di un amico fidato, a quel “gran
compiersi” Nino magari ci arriverebbe prima che la pulzella destinata al fatele
approccio abbia perduto i sensi.
Anche se non arrivammo a quel tipo di
prestazione, dal 1991 e fino a tutto il 1999, “quell’amico fidato fui io. Perché in quegli anni noi fummo assidui e ci volemmo un bene forte
e reciproco. Fino a quando come purtroppo accade
agli umani, quell’amore, forse per l’eccesso della misura, non si mutò in me in
rancoroso malanimo.
Eppure ancora oggi,
dopo quasi dieci anni di triste negligenza, le poche volte che ci incontriamo ci salutiamo con l’affetto e la tenerezza dei
bei tempi, perché il mio amico Nino puoi detestarlo per troppo amore ma mai ignorarlo
per carenza d’affetto.
Perché il mio amico Nino è bello, veste
bene, si pettina con meticolosa cura e si lava assiduamente, possedendo il
tratto signorile dei ricchi non per caso, lui che ricco lo è divenuto quasi per
caso, essendosi fatto impalamare da una signorina di baronale lignaggio,
abbastanza arcigna, discretamente grifagna e rancida come quasi tutte le
insegnanti di matematica. La sua scarsa avvenenza (il tono di voce prettamente
mascolino e un naso cocciutamente fuor dell’ordinario me
lòa fanno rassomigliare, a quel che si legge, all’imperatore Carlo Martello
veniva benevolmente offuscata dalla filigrana del molto denaro che le avrebbe
lasciato la madre, figlia a sua volta di un povero pizzicagnolo, che nei suoi
anni migliori aveva “pizzicato” un vecchio e danarosissimo barone che quando
passò a miglior vita le lasciò in terre e in appartamenti quanto sarebbe potuto
bastarle per potere agevolmente vivere da ricca signora e far vivere da
danarosi signori la figlia, il genero e con loro per lo meno un paio di
progenie.
Così che da felicemente coniugato il mio caro Ninuzzu poté finalmente
assecondare l’innato buon gusto, vestire in sartoria e non negli empori
dozzinali e salire e scendere con agile eleganza da autovetture di sempre
maggiore cilindrata. Nel sembiante, nel porgersi e
persino nel pettinarsi somiglia, per chi volesse farsi un’idea del suo essere,
a quel Ferruccio De Bortoli che sino ad un paio d’anni fa dirigeva il Corriere
della sera e con la grazia e il sussiego di sempre attualmente
dirige “Il sole 24 ore”.
Il solo difetto del
mio Nino è che è femmina, femmina nel senso più comune del termine, femmina nel
senso che sente di essere la metà di un altro, femmina nel senso che ha
costantemente bisogno di appoggiarsi a un protettore,
femmina nel senso che ha paura di restar solo.
Così che mi fu
inseparabile compagno e amico fedelissimo quand’io ero
capo del personale alla sede di Caltanissetta del Banco di Sicilia e dunque
persona influente, salvo a cambiare compagno e protettore, scaricandomi e
scordandosi di me, il giorno che me ne andai in pensione e così di questo
passo.
Così di questo passo
ne ha cambiati, bastoni sui quali è andato via via
appoggiandosi, più di quanti non ne avrebbe cambiati una battona avanti negli
anni e senza più arte e soldi da parte, traendone sempre molto conforto e
qualche dubbia protezione.
Ma lo fa senza cinismo e senza che la ricerca di
quel tornaconto di cui si diceva strida o semplicemente appaia. Il mio amico
Sotgiu offre se stesso, la sua amicizia, il suo glamour, la sua amabilità e il
suo apparire senza iattanza, la sua competenza nel campo dei ristoranti e del
“beau vivre” per potere avere protezione nel caso di eventuali,
non precisate necessità a venire... la vecchiaia, indigenza,le malattie, la
minaccia di un trasferimento o chissà aquali altre calamità...
E siccome è
decorativo e pulito come una camicia fresca di bucato
nessuno si rifiuta mai d’indossarlo...
Attualmente riposa sereno, amorevolmente
accudito dal nuovo titolare della Sede, ché anni fa ebbero a conoscersi a
Ragusa. Fortuna che si tratta di un gran signore al par di
lui e che pertanto non si approfitterà della sua “innocenza”, come nel
recente passato han fatto (penso inorridendo ai già noti al lettore Filippo
Dimortale e a quel Pasquale una volta sfaccendato centralinista che poi sarebbe
assurto al grado di economo, giacché gli alti e bassi della mondanità portarono
quella inamidata camicia tra le mani, callose, quando non sudice, di questi
lenoni.
Ci viene in mente il
titolo di un vecchio film di Vittorio Caprioli, protagonista Ugo Tognazzi... “Splendori
e miserie di Madame Royale”.
24 sett. 2007